Nella prima parte dell'articolo sono state illustrate le principali cause di alterazione delle transaminasi1. In questa seconda parte verranno presi in esame, per le principali patologie, gli indirizzi terapeutici di riferimento, con particolare attenzione ai dati disponibili per quanto riguarda efficacia e tollerabilità.
E' però necessario premettere che per la malattia di maggiore rilievo clinico ed epidemiologico, l'epatite cronica da HCV, sono attualmente in corso trial clinici sull'utilizzo di nuove formulazioni di interferone associato alla ribavirina che, in tempi relativamente brevi, potrebbero avere un impatto notevole sugli indirizzi terapeutici attuali rendendo di fatto in parte già obsolete le linee-guida pubblicate nel 19992.
1. Epatiti Croniche virali
L'obiettivo principale della terapia delle epatiti croniche è prevenire l'insorgenza della cirrosi e delle sue complicanze.
Poiché il decorso di queste malattie può essere anche di diverse decine di anni, la corretta valutazione della efficacia della terapia in termini di insorgenza di scompenso epatico e di sopravvivenza è piuttosto difficoltosa: vengono pertanto frequentemente utilizzati end-point surrogati, quali la normalizzazione delle transaminasi, la negativizzazione della ricerca dei virus circolanti ed il miglioramento dell'istologia epatica.
1.1 Epatite cronica da HBV
L'obiettivo del trattamento è quello di inibire la replicazione virale e aumentare l'eliminazione degli epatociti infettati, con conseguente normalizzazione delle transaminasi e miglioramento della istologia epatica. Fino a poco tempo fa l'interferone alfa era l'unico farmaco approvato per il trattamento dell'epatite cronica B. Dal 1999 la lamivudina, un analogo nucleosidico utilizzato inizialmente nella terapia dell'infezione da HIV, è stata utilizzata anche nella terapia dell'epatite cronica da HBV. Entrambi i trattamenti risultano comunque efficaci in un numero limitato di casi, pertanto si rende necessaria una accurata selezione dei pazienti da sottoporre alla terapia.
1.1.1 Epatite cronica HbeAg positiva
E' poco diffusa in Italia dove rappresenta non più del 20% delle epatiti croniche B. La terapia con interferone determina una risposta, intesa come normalizzazione delle transaminasi, negativizzazione dell'HBV-DNA e sieroconversione ad anti-Hbe, in circa il 30% dei pazienti.
Le percentuali sono strettamente correlate ai valori pre-trattamento delle transaminasi (30-50% di risposta in caso di ALT > di 5 volte i valori normali, 20% per valori tra 2 e 5 volte i valori normali e solo 5-10% in caso di ALT < di 2 volte i valori normali)3. In Europa e negli Stati Uniti l'80-90% dei pazienti mantiene questa risposta sul lungo periodo con successiva negativizzazione dell'HbsAg nel 30-80% dei soggetti; i pazienti di origine asiatica invece rispondono molto meno, con negativizzazione dell'HbsAg in eguale misura tra trattati e non trattati.
Gli studi con follow-up più prolungato (7-10 anni) mostrano una maggiore sopravvivenza ed una ridotta insorgenza di complicanze della malattia epatica nei pazienti più giovani, che non presentavano cirrosi all'esordio e che avevano risposto fin dall'inizio alla terapia interferonica4,5.
L'uso della lamivudina per questo tipo di epatite, dopo un iniziale entusiasmo, motivato da percentuali di risposta del 40-60% in termini di normalizzazione delle transaminasi e negativizzazione dell'HBV-DNA, è attualmente oggetto di riflessione critica.
I risultati a lungo termine sono modesti, paragonabili a quelli ottenuti con l'interferone. Il farmaco determina frequentemente la selezione di ceppi virali resistenti (nel 20-30% dei pazienti dopo 1 anno di terapia, fino al 55-60% dopo 3 anni) mentre è molto rara l'eradicazione del virus (negativizzazione dell'HbsAg); dopo la sospensione del trattamento si possono osservare brusche riacutizzazioni a volte associate ad episodi di scompenso epatico.
La lamivudina ha certamente un ruolo di estrema importanza nella prevenzione della reinfezione da virus B dopo trapianto di fegato ma, ancora una volta, la selezione di virus resistenti può comprometterne l'efficacia6.
1.1.2 Epatite cronica B HbeAg negativa
Sostenuta da un ceppo virale mutato, è la forma di epatite più diffusa nell'area del Mediterraneo. In genere interessa pazienti con malattia di lunga durata, spesso presenta un decorso caratterizzato da periodiche riacutizzazioni alternate a periodi anche lunghi di remissione.
Vi è una minore risposta alla terapia con interferone ma anche una oggettiva difficoltà nel definire la risposta al trattamento, in quanto non esistono parametri biochimici e sierologici indicativi di soppressione virale duratura come la conversione e anti-e.
La terapia con interferone alfa è in grado di determinare, dopo almeno 12 mesi di trattamento, la normalizzazione delle transaminasi e la negativizzazione dell'HBV-DNA in circa il 15-25% dei casi.
I pazienti che mantengono una risposta duratura (a volte le recidive post-terapia si manifestano anche dopo diversi anni) mostrano una migliore sopravvivenza ed una minore incidenza di epatocarcinomi7.
Anche per questa forma di epatite cronica B la lamivudina è in grado di determinare un miglioramento biochimico, virologico e istologico nella maggior parte dei pazienti trattati.
Le recidive dopo la sospensione sono però molto frequenti (dell'ordine dell'80-90%) e la probabilità di selezionare ceppi virali resistenti aumenta con il prolungamento della terapia.
La comparsa di resistenza in corso di trattamento è accompagnata da un rialzo delle transaminasi che a volte può essere clinicamente significativo, ed in molti pazienti scompare il miglioramento istologico fino ad allora ottenuto.
Chi trattare e come
La terapia dell'epatite cronica da HBV sia con l'utilizzo dell'alfa interferone che della lamivudina sembrerebbe avere, almeno in alcuni pazienti, effetti positivi sulla sopravvivenza. Considerati comunque i modesti risultati ottenibili è necessaria una accurata selezione dei pazienti allo scopo di ottimizzare il rapporto costo/utilità (anni di vita guadagnati aggiustati per qualità).
Il trattamento dovrebbe essere raccomandato per quei pazienti con malattia in progressione per i quali sussistano fattori predittivi di risposta favorevole, indipendentemente dalla presenza o meno dell'antigene e:
transaminasi maggiori di 4-5 volte i valori normali,
bassi livelli di HBV-DNA (es. < 200 pg/ml),
epatite cronica attiva o cirrosi,
flogosi attiva (ad es. con Hepatic Activity Index > o = 8).
I pazienti che presentano una malattia lieve o inattiva vanno seguiti nel tempo, in attesa di nuove terapie di sicuro beneficio; un comportamento analogo può essere tenuto per i pazienti con valori di transaminasi stabilmente inferiore a 2 volte i valori normali, una situazione in cui l'efficacia della terapia è pressoché trascurabile.
Nei pazienti non trattati devono essere controllate ogni 6-8 mesi le transaminasi e lo status sierologico in caso di positività per HbeAg in quanto la malattia può andare incontro, anche dopo anni di apparente remissione, a brusche riacutizzazioni.
Al momento non vi sono dati sufficienti per potere valutare la reale efficacia della terapia di combinazione interferone alfa e lamivudina, mentre allo studio vi sono altri antivirali (adefovir dipivoxil, entecavir, emtricitabina, clevudina), alcuni dei quali già utilizzati in trial di fase 2 con risultati interessanti, che potrebbero anche essere impiegati in combinazione; sono inoltre allo studio anche trattamenti di tipo immunologico (ad es. con vaccini terapeutici, uno dei quali in corso presso la nostra unità operativa) o basati sull'utilizzo di citokine.
1.2 Epatite Cronica da HCV
L'estrema diffusione della infezione da HCV (in Italia si stima che oltre il 3% della popolazione sia portatore del virus) fa sì che essa rappresenti la prima causa di cirrosi epatica, la principale patologia correlata all'epatocarcinoma, la principale indicazione al trapianto di fegato e la prima causa di morte per malattia epatica8.
La progressione della malattia epatica non avviene in maniera lineare ma può avanzare a scatti, anche dopo lunghi periodi di quiescenza: è il caso ad esempio di pazienti con infezione da genotipo 2 che, anche dopo decenni di remissione, possono andare incontro a riattivazione della malattia con progressione a cirrosi e ad epatocarcinoma nel volgere di 4-5 anni. Sulla progressione della malattia incidono vari fattori (Tabella 1): è evidente come su alcuni di questi fattori è possibile intervenire (abolizione delle bevande alcoliche, controllo di un eventuale sovrappeso: queste misure possono portare da sole a normalizzazione stabile delle transaminasi, rendendo a volte superflua la terapia antivirale o aumentandone l'efficacia).
Spesso comunque si rende necessario il trattamento antivirale e, in casi di malattia avanzata e scompensata, il trapianto di fegato.
L'interferone era l'unico farmaco antivirale disponibile fino alla metà degli anni '90: la associazione della ribavirina all'interferone ha nettamente migliorato le percentuali di risposta a lungo termine.
La terapia di combinazione con interferone alfa pegilato e ribavirina ha ulteriormente aumentato le risposte favorevoli ed è in grado di determinare una risposta a lungo termine nel 50-60% dei pazienti trattati: è probabile che sia il massimo risultato ottenibile con questi farmaci; terapie alternative sono in fase di studio, con dati preliminari al momento non particolarmente entusiasmanti.
Indicazioni alla terapia
Epatite acuta da HCV
La risoluzione spontanea della infezione acuta da HCV avviene nel 15-30% di pazienti ma se si considerano i pazienti sintomatici la percentuale sale intorno al 50%. Già nel 1999 le linee-guida dell'EASL (European Association for the Study of the Liver) suggerivano il trattamento con interferone delle forme acute anche se preferibilmente nell'ambito di studi clinici2: tale orientamento sembrerebbe avvalorato da dati molto recenti9. Per evitare trattamenti inutili potrebbe essere razionale valutare il tipo di evoluzione nelle forme sintomatiche, con ricerca dell'HCV-RNA alla dodicesima settimana, e trattare solo i pazienti ancora positivi (in tal caso la percentuale di risposta al trattamento resta comunque alta); nei casi asintomatici, che hanno una più bassa probabilità di risoluzione spontanea, il trattamento potrebbe essere iniziato al momento della diagnosi10,11.
Epatite cronica da HCV: pazienti mai trattati
La terapia della epatite cronica C si è profondamente modificata negli ultimi anni consentendo di ottenere risposte durature in un numero sempre maggiore di casi. I pazienti che ottengono una cosiddetta risposta completa e permanente (normalizzazione delle transaminasi e negativizzazione dell'HCV-RNA a fine terapia e nei 6 mesi successivi) in quasi tutti i casi la mantengono negli anni successivi, soprattutto se è stata utilizzata una terapia di combinazione; la risposta bioumorale e virologica è sempre correlata ad un significativo miglioramento istologico12.
In assenza di fattori di rischio (Tabella 1), i pazienti con epatite cronica lieve (score necroinfiammatorio < o = 7 e fibrosi assente o lieve - score 0-1, secondo Knodell modificato) raramente vanno incontro ad evoluzione sfavorevole in termini di progressione a cirrosi e di complicanze ad essa correlate, almeno nell'arco di 25-30 anni13.
Resta comunque ancora da definire il reale impatto della terapia antivirale sulla insorgenza di complicanze legate alla malattia epatica e sulla sopravvivenza a lungo termine.
Al momento le opzioni terapeutiche disponibili per l'ottenimento degli obiettivi bioumorali, virologici ed istologici sopracitaci sono:
Monoterapia con interferone alfa: dosi di 5-6 MU 3 volte la settimana somministrate per 12 mesi hanno determinato risposte sostenute nel 18-20% dei pazienti trattati14, una percentuale lievemente superiore rispetto alla terapia standard di 3 MU tre volte la settimana per 6 mesi. La monoterapia con una fase di induzione (somministrazione di interferone alfa tutti i giorni per le prime 4 settimane di trattamento), non ha determinato significativi aumenti di risposta15.
Terapia di combinazione con interferone alfa e ribavirina: in alcuni studi si è avuta una risposta a lungo termine nel 41% dei pazienti trattati per 12 mesi. La risposta è però diversificata in rapporto a variabili quali il genotipo virale ed i livelli di virus circolante. Nei pazienti con genotipo 2 e 3 e nei pazienti con genotipo 1 con bassa viremia (inferiore a 2 milioni di copie per ml) 6 mesi di trattamento sono sostanzialmente equivalenti a 12 mesi (per genotipo 2 e 3 la risposta a lungo termine è attorno al 60%, mentre per il genotipo 1 con bassa viremia resta attorno al 30%). Invece i pazienti con fibrosi medio-grave (3 secondo Knodell modificato) e cirrosi hanno una risposta significativamente migliore se trattati per 12 anziché 6 mesi, indipendentemente dal genotipo e dalla viremia16. La terapia di combinazione interferone alfa e ribavirina è regolata in Italia da disposizioni ministeriali17.
Monoterapia con interferone alfa pegilato: la somministrazione una volta alla settimana di interferone pegilato ha determinato risposte sostenute in una percentuale significativamente più elevata rispetto alla monoterapia con interferone alfa18, raggiungendo percentuali simili a quelle ottenute con la combinazione di interferone alfa e ribavirina. I dosaggi risultati più efficaci sono stati 180 mcg per l'interferone alfa 2a pegilato (40 kda) e di 1,5 mcg/kg per l'interferone alfa 2b pegilato.
Terapia di combinazione interferone alfa pegilato e ribavirina: tale schema si è mostrato superiore alla combinazione interferone alfa + ribavirina. Le percentuali di risposta sostenuta sono all'incirca del 40% per il genotipo 1 e dell'80% per i genotipi 2 e 3; comunque gli studi al momento pubblicati sono pochi ed in alcuni casi gravati da limiti metodologici. I due studi più importanti sono i seguenti:
1) Manns e coll.19: peginterferon alfa 2b 1,5 mcg/kg 1 volta alla settimana + ribavirina >10,6 mg/kg die per un anno (analisi retrospettiva) risposta sostenuta nel 61 % dei casi (48% per genotipo 1; 88% per genotipo 2 e 3); nella valutazione intention-to-treat la risposta complessiva è risultata essere del 54%, con un 42% per genotipo 1 e un 82% per genotipo 2 e 3.
2) Fried e coll.20: peginterferon alfa 2a 180 mcg 1 volta alla settimana + ribavirina 1000 mg per peso < 75 kg e 1200 mg per peso > 75 kg risposta sostenuta nel 56% dei casi (46% genotipo 1 e 76% genotipo 2 e 3).
Anche la terapia di combinazione interferone pegilato e ribavirina è sottoposta a regolamentazione ministeriale17.
Epatite cronica da HCV: pazienti precedentemente trattati in monoterapia con interferone e che hanno presentato risposta completa ma transitoria
Questi pazienti possono essere ritrattati con terapia di combinazione con buone possibilità di ottenere una risposta duratura, superiore al 50%: infatti il reale vantaggio clinico fornito dalla ribavirina è stato non tanto l'aumento di risposta a fine terapia (grosso modo sovrapponibile alla monoterapia ad alte dosi) ma la netta riduzione delle recidive post-trattamento. In genere sono utilizzati cicli di 6 mesi, anche se alcuni studi hanno mostrato una maggiore efficacia di cicli di 12 mesi in caso di infezione da genotipo 1.
Pazienti non responsivi ad un precedente trattamento con interferone o con associazione di interferone-alfa e ribavirina
Due recenti meta-analisi hanno mostrato come il ritrattamento con terapia di combinazione di pazienti non responsivi ad un ciclo di terapia con interferone alfa determina una risposta a lungo termine del tutto marginale (15%)21. L'efficacia dell'interferone alfa pegilato, in monoterapia o in combinazione, è in corso di valutazione. Sull'azione antifibrotica dell'interferone alfa e sulla sua possibile azione favorevole nel bloccare la progressione a cirrosi è in corso uno studio di valutazione della utilità di una terapia interferonica di mantenimento22.
Pazienti con transaminasi persistentemente normali
Si tratta di pazienti in cui vengono riscontrati valori di transaminasi nei limiti di norma, con controllo ogni 2-3 mesi, per un periodo continuo di almeno 12-18 mesi. Oltre l'80% di tali pazienti, all'esame bioptico, presenta un fegato normale o con minime alterazioni. L'attuale orientamento è che non vi sia indicazione alla biopsia epatica né alla terapia antivirale. Occorre comunque eseguire periodici controlli in quanto possono instaurarsi brusche riacutizzazioni, soprattutto in caso di infezione da genotipo 2.
Schemi di trattamento
Anche se per analogia con quanto stabilito dalle linee-guida europee sulla terapia di combinazione interferone alfa e ribavirina, 6 mesi di trattamento potrebbero essere sufficienti per le infezioni da genotipo 1 con bassa viremia e per infezioni da genotipo 2 e 3, non vi sono al momento dati sull'utilizzo dell'interferone alfa pegilato con ribavirina per periodi più brevi di un anno.
Quindi, se è chiara l'indicazione all'utilizzo della terapia di combinazione per un anno nelle forme di epatite cronica da genotipo 1 con viremia elevata (> 2 milioni di copie) e nelle malattie caratterizzate da fibrosi medio-grave indipendentemente dal genotipo virale, negli altri casi lo schema ottimale di trattamento resta da essere definito (monoterapia con interferone alfa pegilato o sua combinazione con ribavirina; durata della terapia).
Il dosaggio dell'interferone alfa 2b pegilato è di 1,5 mcg/kg 1 volta alla settimana associato a ribavirina alla dose di almeno 10,6 mg/kg in 2 somministrazioni tutti i giorni; l'interferone alfa 2a (attualmente non in commercio in Italia) è stato utilizzato al dosaggio di 180 mcg una volta alla settimana associato a 1000-1200 mg di ribavirina al dì.
2. Epatiti Autoimmuni
La epatite autoimmune di tipo 1 rappresenta circa l'80% di tutte le forme ed è associata alla presenza di anticorpi antimuscolo liscio e/o antinucleo.
La prognosi è strettamente correlata all'entità della flogosi e della fibrosi ed alla risposta alla terapia immunosoppressiva. In presenza di transaminasi 5-10 volte superiori ai limiti di norma ed un aumento di 2 volte delle gammaglobuline, la mortalità in assenza di terapia è del 90% a 10 anni. Se la malattia è più lieve la sopravvivenza a 10 anni è del 90% ed il rischio di sviluppare cirrosi è del 50% dopo 15 anni. Dunque una parte di pazienti potrebbe anche non essere trattata; infatti un favorevole rapporto rischio-beneficio della terapia immunosoppressiva è ben stabilito solo in pazienti con malattia severa, mentre pazienti senza fibrosi, con transaminasi poco alterate o con cirrosi senza flogosi attiva potrebbero semplicemente essere tenuti sotto sorveglianza (Tabella 2)23.
Ancora una volta in caso di insufficienza epatica grave il trapianto resta l'opzione terapeutica definitiva.
La terapia della epatite autoimmune ha come obiettivo la normalizzazione degli esami, la risoluzione della flogosi epatica e la scomparsa dei sintomi e prevede due fasi: l'induzione della remissione e il suo mantenimento.
Per la terapia iniziale vengono utilizzati il prednisone o il prednisolone in monoterapia oppure in associazione alla azatioprina: in genere la terapia di combinazione è preferita perché meglio tollerata, ma la scelta dipende dalle caratteristiche del paziente (età, malattie concomitanti, problemi psichiatrici, citopenia, etc).
Una volta ottenuta la remissione clinica e bioumorale, si passa ad una fase di mantenimento della durata di alcuni anni in cui occorre individuare le dosi minime efficaci dello steroide (5-12,5 mg die) e/o dell'azatioprina (50-100 mg die) tali da mantenere le transaminasi nei limiti di norma.
Complessivamente la terapia dovrà essere proseguita per almeno 3-4 anni.
Una remissione completa si ottiene in circa il 65% dei pazienti dopo 2 anni di trattamento, ma la percentuale delle recidive è alta e complessivamente si verifica nel 50% dei casi dopo 6 mesi e nel 70% dopo 3 anni dalla sospensione della terapia immunosoppressiva.
Dovranno naturalmente essere prevenuti gli effetti indesiderati degli steroidi sulla mineralizzazione ossea (supplementazione di calcio e vitamina D, eventuale terapia ormonale nelle donne in menopausa).
3. Malattie da accumulo
3.1 Emocromatosi ereditaria
L'accumulo di ferro che è alla base della emocromatosi ereditaria può determinare, nelle fasi avanzate della malattia, la comparsa di cirrosi epatica ed epatocarcinoma, diabete ed altre endocrinopatie, cardiopatia o artropatia.
In genere oggi la diagnosi viene posta in fase relativamente precoce poiché la determinazione dell'indice di saturazione della transferrina e della ferritinemia fa ormai parte dello screening delle ipertransaminasemie.
Una volta accertata l'entità dei danni d'organo presenti, i pazienti vengono trattati con salassi periodici. La riduzione dell'accumulo di ferro, purchè avviata prima dell'instaurarsi della cirrosi o del diabete, porta ad una significativa diminuzione della morbilità e della mortalità24.
Il trattamento deve perciò essere iniziato il più precocemente possibile, e deve riguardare anche i soggetti omozigoti asintomatici ma con esami indicativi per accumulo di ferro. Se il trattamento ferrodepletivo viene iniziato nelle fasi avanzate della malattia, possono migliorare alcuni sintomi come astenia, pigmentazione cutanea, dolori addominali, oppure si potrà ottenere una riduzione delle dosi di insulina in caso di diabete, ma non verranno significativamente influenzate complicanze già strutturate come cirrosi epatica, ipertensione portale, artropatie e ipogonadismo25.
I salassi, di circa 500 ml di sangue intero (corrispondenti a 200-250 mg di ferro), vengono eseguiti con frequenza settimanale fino a che la ferritinemia è scesa al di sotto dei 50 ng/ml e l'indice di saturazione della transferrina al di sotto del 50%. L'ematocrito non deve scendere di oltre 10 punti o in misura maggiore del 20% rispetto ai valori pretrattamento (l'obiettivo terapeutico è la rimozione dell'eccesso di ferro e non l'induzione di una anemia sideropenica o di uno stato di ferrodeplezione). All'inizio del trattamento può essere opportuno misurare l'ematocrito ogni 2-3 settimane. La ferritinemia e la saturazione della transferrina verranno controllate ogni 2-3 mesi.
Va inoltre monitorata l'albuminemia, soprattutto se si ha a che fare con pazienti con malattia epatica avanzata: in tali casi può essere indicata la rimozione della sola parte corpuscolata del sangue con reinfusione del plasma.
Una volta raggiunti gli obiettivi terapeutici (nel paziente tipico sono richiesti mediamente dagli 8 ai 25 salassi, con rimozione di 2-6 g di ferro) si passa ad un mantenimento con salassi a frequenza variabile (da una volta al mese a 3-4 all'anno) cercando di mantenere la ferritinemia tra 25 e 50 ng/ml. Occorre evitare supplementazioni di vitamina C, evitare il consumo di bevande alcoliche e moderare il consumo di carni rosse.
Per i pazienti con cirrosi epatica, anche in caso di terapia ferrodepletiva, è comunque necessario lo screening periodico per l'epatocarcinoma in quanto il rischio non è ridotto dalla terapia ferrodepletiva.
3.2 Malattia di Wilson
E' una malattia ereditaria a trasmissione autosomica recessiva caratterizzata da un difetto della escrezione biliare del rame, con suo accumulo e conseguente danno a livello di fegato, sistema nervoso centrale (inclusi disturbi psichiatrici), ematologico, renale, oculare, etc.
La diagnosi è basata generalmente sulla presenza di almeno 2 dei seguenti criteri: anello di Kayser-Fleischer a livello corneale, bassi livelli sierici di ceruloplasmina, elevata concentrazione epatica di rame, elevate concentrazioni di rame nelle urine delle 24 ore.
La terapia si basa ancora oggi sull'impiego della D-penicillamina che aumenta l'escrezione renale di rame e ne previene l'accumulo nei soggetti asintomatici. Dopo una dose test, il farmaco viene somministrato a dosaggio pieno fino alla risoluzione dei sintomi ed alla riduzione del contenuto corporeo di rame; si passa poi alla terapia di mantenimento che dovrà essere proseguita per tutta la vita26.
Nei pazienti con malattia epatica progressiva o nelle forme che esordiscono come epatite fulminante, la terapia di elezione è costituita dal trapianto.
3.3 Deficit di alfa-1-antitripsina
Per le forme con interessamento epatico non esiste una terapia efficace: in caso di evoluzione verso l'insufficienza epatica, c'è l'indicazione al trapianto di fegato. Dopo l'intervento la sopravvivenza a 5 anni è attorno all'80%27.
4. Steatosi epatica non alcolica
La steatosi epatica non alcolica è una patologia relativamente frequente nella popolazione generale (ha una prevalenza di circa il 3%), è frequentemente associata ad obesità e diabete di tipo 2 ed in circa il 5-15% dei casi può progredire verso la cirrosi epatica.
Non esistono al momento opzioni terapeutiche di comprovata efficacia.
La riduzione del peso corporeo è stata associata a normalizzazione delle transaminasi e a riduzione della epatomegalia, mentre non è ben definito l'effetto sul quadro istologico.
E' comunque importante che la riduzione del peso corporeo avvenga gradualmente; infatti bruschi cali ponderali dovuti a diete particolarmente rigorose o ad interventi chirurgici possono paradossalmente indurre flogosi portale e fibrosi28. Trattamenti farmacologici specifici per la steatosi non alcolica sono stati valutati di recente, in genere in piccoli trial aperti, spesso pubblicati solo come abstract e non sempre completati dal controllo bioptico. Sono stati testati gemfibrozil, acido ursodesossicolico, betaina, N-acetilcisteina e vitamina E.
Data la pressoché costante presenza di insulino-resistenza, in assenza di diabete, sono stati eseguiti anche alcuni studi pilota con agenti in grado di aumentare la sensibilità all'insulina (tiazolidinedioni, metmorfina), che hanno dato risultati di qualche interesse.
Complessivamente, come detto, i dati non sono conclusivi. Al momento il trattamento raccomandato consiste nella riduzione del peso corporeo, nell'adeguato controllo dei livelli di glucosio e lipidi, e nella ricerca di eventuali patologie associate. Bibliografia 1. Massari M, Gabbi E. Le alterazioni delle transaminasi. Istruzioni per l'uso (1 parte). Informazioni sui farmaci2001; 25 (2-3), p 74-78). 2. European Association for the study of the liver. EASL International Consensus Conference on Hepatitis C: Paris, 26-28, February 1999, consensus statement. J Hepatol 1999; 30: 956-61. 3. Schalm SW, Heathcote J, Cianciara J, Farrell G, et al. Lamivudine and alpha interferon combination treatment of patients with chronic hepatitis B infection: a randomised trial. Gut 2000; 46: 562-568. 4. De Marco V, Lo Iacono O, Cammà C, Vaccaro A, Giunta M, et al. The long-term course of chronic hepatitis B.Hepatology 1999; 30: 257-264. 5. 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