Introduzione
La disponibilità di nuovi farmaci antipsicotici, i cosiddetti antipsicotici atipici o di nuova generazione, ha indubbiamente allargato le risorse terapeutiche a disposizione nel trattamento farmacologico dei soggetti con psicosi schizofreniche. In aggiunta a questo, la disponibilità dei nuovi farmaci ha anche progressivamente indotto il loro impiego in sostituzione dei vecchi antipsicotici tipici in tutte le condizioni in cui questi ultimi erano molto utilizzati, come, per esempio, le anomalie comportamentali nei soggetti con demenza. I nuovi antipsicotici, inoltre, in virtù della minore induzione di effetti indesiderati extrapiramidali, sono stati anche proposti nel controllo dei sintomi psicotici indotti dal trattamento con levodopa. Tutto questo è avvenuto nonostante i dati sull'efficacia e tollerabilità di clozapina, risperidone, olanzapina e quetiapina nei soggetti anziani in generale, e in quelli affetti da demenza e morbo di Parkinson in particolare, siano ancora piuttosto limitati, e costituiti soprattutto da dati osservazionali o in aperto1. Obiettivo della presente rassegna della letteratura è pertanto quello di rivedere le evidenze a nostra disposizione sull'argomento, al fine di indurre un utilizzo consapevole e razionale degli antipsicotici nei soggetti con psicosi associata a demenza e morbo di Parkinson. Demenza e sintomi psicotici Epidemiologia e quadro clinico
Il progressivo aumento dell'aspettativa di vita avvenuto negli ultimi decenni si è associato, nei paesi occidentali, alla contemporanea crescita dei soggetti affetti da problemi di deterioramento cognitivo, denominati in modo generico demenza2. Le stime di prevalenza di questi problemi forniscono frequenze attorno al 10% nella settima decade di vita, e del 20-30% nell'ottava e nona decade3. In contesti di tipo istituzionale, come le case di riposo, si ritiene che il 60-70% degli individui siano affetti da demenza4. La forma di Alzheimer rende conto di 2/3 di tutti i casi genericamente denominati demenza.
Nella demenza i sintomi psicotici e, più in generale, le cosiddette anomalie del comportamento sono piuttosto frequenti, soprattutto nelle fasi avanzate di malattia5. Spesso tali anomalie spingono i familiari a trovare soluzioni assistenziali protette, come case di riposo o altri tipi di istituzioni. Si tratta di manifestazioni cliniche molto eterogenee dal punto di vista della presentazione, che includono sintomi quali comportamento non collaborante o distruttivo, agitazione, incontinenza, aggressività verbale, rumorosità, comportamenti inappropriati dal punto di vista sociale, disturbi del sonno, sintomi depressivi, allucinazioni, deliri a sfondo persecutorio6. L'ideazione persecutoria è spesso legata alla cattiva interpretazione che i soggetti con demenza tendono a sviluppare a causa delle difficoltà di udito e dei deficit di memoria. Grosso modo, le manifestazioni deliranti si verificano nel 40% dei casi, l'agitazione nel 40-90%, e le condotte aggressive nel 20-40% dei pazienti7.
Trattamento farmacologico
Come regola generale, è bene che ogni trattamento farmacologico venga intrapreso solo dopo avere escluso che le anomalie comportamentali e le manifestazioni psicopatologiche siano dovute ad un problema sottostante, per esempio all'interazione tra due farmaci, oppure agli effetti indesiderati di un trattamento in corso; inoltre, è bene accertarsi se vi sia la possibilità di ridurre i sintomi mediante strategie di intervento non farmacologico8. Vi sono infatti evidenze dalla letteratura a sostegno dell'utilità dei cosiddetti interventi ambientali, interventi mirati cioè a migliorare le condizioni di vita e il benessere psicologico dei soggetti con demenza (per esempio organizzare la giornata secondo uno schema preordinato e routinario, stimolare la socializzazione, rassicurare, informare i familiari sulle caratteristiche della demenza e sull'andamento dei sintomi). Questa tipologia di intervento dovrebbe essere intrapresa in prima battuta, e solo in caso di fallimento si dovrebbe ricorrere al trattamento farmacologico (vedi parte in alto dell'algoritmo presentato in Tabella 1).
Antidepressivi e benzodiazepine
Praticamente tutte le classi di psicofarmaci vengono impiegate nella gestione delle anomalie comportamentali nei soggetti con demenza, nonostante le indicazioni provenienti dagli studi sperimentali siano scarsissime9. Tra gli antidepressivi, gli SSRI sono stati proposti per il controllo di anomalie comportamentali che potevano essere interpretate come manifestazioni di un sottostante disturbo dell'umore, e il trazodone è stato suggerito nel controllo dell'agitazione. Uno studio clinico controllato che confrontava l'effetto del trazodone rispetto all'aloperidolo in 28 soggetti con demenza ha dimostrato la maggiore tollerabilità del trazodone10; lo studio, inoltre, non è stato in grado di evidenziare differenze di efficacia tra i due farmaci, ma il potere dello studio non era certamente adeguato a questo fine. Molti autori suggeriscono l'uso del trazodone, e non degli antipsicotici o delle benzodiazepine, se il piano terapeutico prevede di prolungare cronicamente il trattamento farmacologico delle anomalie comportamentali.
Per quanto riguarda le benzodiazepine esistono dati sperimentali che si riferiscono ad alcune centinaia di soggetti randomizzati al placebo o a questi farmaci; tali dati evidenziano un indubbio effetto sedativo del farmaco attivo, tuttavia mostrano anche i problemi legati all'uso delle benzodiazepine: sedazione diurna, confusione, disturbi della memoria, incoordinazione motoria e aumento del rischio di cadute a terra. Questo suggerisce, secondo molti autori, di prediligere le benzodiazepine a breve emivita, da impiegarsi in modo occasionale e non cronico. Esistono in aggiunta alcuni studi clinici controllati che hanno confrontato le benzodiazepine con gli antipsicotici11,12. I risultati di questi confronti hanno evidenziato che, sebbene le benzodiazepine conferissero un vantaggio per quanto riguarda l'induzione del sonno, gli antipsicotici erano più efficaci per quanto riguarda i parametri agitazione, aggressività, ideazione polarizzata in senso persecutorio.
Antipsicotici di vecchia generazione
Sono i farmaci più utilizzati nel trattamento delle anomalie comportamentali dei soggetti con demenza, sia in setting istituzionali come case di riposo e ospedali che presso gli ambulatori dei medici di medicina generale13. L'elevato utilizzo di questi farmaci è stato criticato ripetutamente nel corso degli anni, al punto che negli Stati Uniti si decise che i medici dovessero documentare l'indicazione diagnostica per cui il farmaco veniva prescritto, e rendere conto delle ragioni per cui l'uso veniva protratto nel tempo, e se erano stati fatti tentativi di riduzione dei dosaggi fino alla possibile sospensione14. I soggetti inclusi in questo programma vennero seguiti nel tempo, e si documentò che, di coloro che avevano interrotto gli antipsicotici, oltre il 50% aveva mostrato un miglioramento delle proprie condizioni cliniche e il 22% era rimasto sostanzialmente immodificato15. La sospensione degli antipsicotici avveniva con maggiore successo nei soggetti con demenza rispetto a coloro che soffrivano di anomalie comportamentali associate a deterioramento cognitivo e problemi psichiatrici preesistenti.
A fronte di un uso molto diffuso, i dati sperimentali a supporto dell'utilità degli antipsicotici nei soggetti con demenza e anomalie comportamentali sono piuttosto scarsi. Nel 1990 venne portata a termine una metanalisi di 33 studi clinici controllati condotti in soggetti colpiti da demenza e altre patologie caratterizzate da decadimento cognitivo e anomalie comportamentali16. L'analisi dimostrava una efficacia degli antipsicotici piuttosto modesta che, a detta degli autori, era dovuta alla elevata percentuale di soggetti che rispondevano al placebo. Studi successivi hanno effettivamente dimostrato che, arruolando popolazioni più omogenee di pazienti, l'effetto placebo si riduceva sostanzialmente e i tassi di risposta agli antipsicotici crescevano17,18. Grosso modo, la differenza tra placebo e farmaco attivo era del 20%, a vantaggio di quest'ultimo. I pazienti con maggiore compromissione all'inizio dello studio erano quelli che rispondevano meglio ai farmaci, e i sintomi più colpiti erano ansia, agitazione, ostilità, aggressività verbale e fisica, allucinazioni e deliri. Viceversa, le stereotipie, la cura di sé e il ritiro sociale erano poco o per nulla modificati dal trattamento farmacologico19.
I benefici associati all'uso degli anti-psicotici tipici devono essere valutati rispetto al rischio di effetti indesiderati. Per quanto riguarda gli effetti indesiderati di tipo neurologico (sintomi extrapiramidali), uno studio ha comparato l'aloperidolo a dosaggi bassi (0,5-0,75 mg/die) e medi (2-3 mg/die) col placebo in un campione di soggetti con demenza di Alzheimer e comportamenti aggressivi20. Al termine dello studio i soggetti trattati con aloperidolo a medi dosaggi erano quelli che mostravano le maggiori percentuali di risposta terapeutica, ma anche le più elevate percentuali di effetti extrapiramidali (presenti nel 50% circa dei casi). Si tratta di effetti indesiderati particolarmente temibili, in quanto, assieme all'ipotensione ortostatica, aumentano il rischio di cadute; queste ultime, nei soggetti anziani, conducono a morte nel 20% circa dei casi21. Altri effetti indesiderati sono quelli legati all'azione anticolinergica degli antipsicotici; questa azione deve essere tenuta presente soprattutto nei soggetti con demenza di Alzheimer, in cui è stata dimostrata una ipofunzione del sistema colinergico. Questi soggetti hanno di conseguenza una sensibilità accresciuta a questo tipo di reazioni avverse.
Complessivamente, dai dati di efficacia e tollerabilità disponibili, è possibile trarre alcune indicazioni per un uso razionale degli antipsicotici tipici nei soggetti con demenza e anomalie comportamentali (Tabella 1). Gli antipsicotici tipici dovrebbero essere impiegati solo in condizioni di acuzie e per brevi periodi di tempo, preferendo sempre le molecole ad elevata potenza (quelle cioè meno gravate dal rischio di effetti anticolinergici, come l'aloperidolo).
Antipsicotici di nuova generazione Risperidone
Si tratta dell'antipsicotico di nuova generazione più studiato nel controllo di sintomi psicotici quali aggressività, agitazione, allucinazioni e deliri nei soggetti con demenza22. In letteratura sono presenti numerosi studi di tipo osservazionale, sia analisi retrospettive di campioni di soggetti anziani trattati che studi prospettici in aperto, ed anche alcuni case-report di casi emblematici. Vi sono infine due studi clinici controllati condotti reclutando i pazienti in campioni di case di riposo per anziani (Tabella 2)23,24. Si tratta, in entrambi gli studi, di soggetti con anomalie comportamentali associate a demenza di Alzheimer, demenza vascolare o altre forme di decadimento cognitivo (secondo i criteri suggeriti dal DSM-IV). I soggetti, per essere inclusi, dovevano soffrire di sintomi di intensità moderata o elevata; il follow-up era di 12 settimane e i criteri di efficacia erano stati pre-definiti nel protocollo di studio (essenzialmente si basavano sul miglioramento di una certa percentuale ai punteggi ottenuti somministrando alcuni strumenti standardizzati). Lo studio condotto da Katz e collaboratori (1999) confrontava tre diversi dosaggi di risperidone con il placebo e, in termini di efficacia, ha dimostrato che le percentuali di soggetti che rispondono al risperidone erano significativamente più elevate di quelle dei soggetti che rispondono al placebo (Tabella 1). Aumentando il dosaggio aumentava il tasso di risposta al farmaco. Il secondo studio, viceversa, sebbene mostri delle percentuali di risposta al risperidone leggermente superiori al placebo, non è stato in grado di dimostrare differenze statisticamente significative. Questo, suggeriscono gli autori, a causa, forse, dell'elevato tasso di soggetti che hanno interrotto il risperidone. L'aloperidolo, farmaco utilizzato come composto standard, si dimostrava di efficacia per lo meno simile a quella del risperidone, forse addirittura più efficace in alcuni parametri di esito (Tabella 2). Ovviamente, l'aloperidolo paga la maggiore efficacia in termini di effetti indesiderati neurologici, come evidenziato dai tassi di soggetti con sintomatologia extrapiramidale, maggiori rispetto al risperidone (Tabella 2). In totale, il 76% dei soggetti randomizzati al risperidone sperimentava effetti indesiderati, contro l'80% dei soggetti trattati con aloperidolo e il 73% dei soggetti che ricevevano il placebo.
Entrambi questi studi, terminata la fase in doppio cieco di 12 settimane, hanno prolungato lo studio, in condizioni non più di cecità, nei 12 mesi successivi. I dati sembrano suggerire che la risposta al risperidone si mantenga nel tempo; purtroppo il valore di questa analisi è largamente diminuito dai tassi di soggetti che avevano interrotto lo studio durante la fase acuta (attorno al 60%), e che dunque sono stati necessariamente esclusi dalla valutazione longitudinale25.
Clozapina, olanzapina, quetiapina
Ad oggi, al di là di segnalazioni aneddotiche di singoli casi o piccoli gruppi di pazienti trattati con clozapina, olanzapina e quetiapina, non esistono dati di efficacia e tollerabilità provenienti da studi clinici di confronto tali da giustificare l'impiego di questi composti nei soggetti con anomalie comportamentali associate a demenza. Uno studio clinico controllato è stato portato a termine per valutare l'efficacia e la tollerabilità dell'olanzapina nel ridurre i sintomi psicotici nei soggetti con demenza di Alzheimer26. Questo studio, tuttavia, non prevedeva un braccio sperimentale randomizzato ad un farmaco standard di confronto (tipo aloperidolo); inoltre, i dati pubblicati fino a questo momento si riferiscono ad una sottopopolazione dei soggetti reclutati, e non alla loro interezza. Si tratta quindi di evidenze ancora preliminari, che non chiariscono come si collochi l'olanzapina nella pratica terapeutica quotidiana. Probabilmente, nei prossimi anni verranno prodotti studi clinici controllati di confronto che permetteranno di capire se clozapina, olanzapina e quetiapina potranno avere un ruolo terapeutico in questi soggetti. Fino ad allora, l'impiego di questi farmaci non è consigliato nella pratica clinica quotidiana (Tabella 1).
Morbo di Parkinson e sintomi psicotici Epidemiologia e quadro clinico
Il trattamento farmacologico con levodopa si associa a complicanze di tipo psichiatrico27. Spesso tali complicanze si caratterizzano per la comparsa di incubi notturni, agitazione, confusione, allucinazioni visive, ideazione polarizzata in senso persecutorio, eccitamento maniacale28,29. Si tratta di complicanze piuttosto debilitanti per il paziente e per i familiari, difficili da trattare e da gestire, e responsabili della collocazione in case di riposo ed in altre istituzioni di una frazione di soggetti affetti da morbo di Parkinson30. Circa il 20% dei soggetti in trattamento con levodopa sviluppano questi sintomi31; fattori di rischio per la loro insorgenza sono l'età avanzata, una lunga storia di malattia ed una elevata compromissione delle funzioni cognitive. Il dosaggio di levodopa, viceversa, non sembra essere correlato all'insorgenza delle complicanze psichiatriche32.
Trattamento farmacologico
Fino a pochi anni fa, la gestione di queste complicanze si fondava solamente sulla progressiva riduzione e sospensione del trattamento con levodopa, in attesa della remissione dei sintomi33. Gli antipsicotici tipici venivano raramente impiegati, a causa del peggioramento delle performance motorie che provocano nei soggetti col Parkinson. Negli ultimi anni, tuttavia, la disponibilità di farmaci in grado di esercitare un effetto antipsicotico senza indurre effetti indesiderati extrapiramidali tanto invalidanti quanto i vecchi farmaci, ha permesso di ipotizzare una nuova strategia di trattamento. Anche in questo scenario clinico, come per quello precedente, a fronte di molta letteratura aneddotica sull'argomento, vi è una grande carenza di evidenze provenienti da studi clinici controllati.
Lo studio che fino ad ora ha rappresentato il maggiore contributo in questo settore è quello condotto dal gruppo di lavoro statunitense denominato Parkinson Study Group34. Gli autori hanno condotto un trial clinico controllato doppio cieco in cui 60 soggetti reclutati in sei centri sono stati randomizzati al trattamento con basse dosi di clozapina (6,25-50 mg/die) e al placebo. I soggetti, di età media di oltre 70 anni, soffrivano di Parkinson idiopatico e manifestavano sintomi psicotici secondari al trattamento con levodopa. Lo studio è durato 4 settimane. Al termine dello studio i soggetti randomizzati alla clozapina avevano ricevuto un dosaggio medio di circa 25 mg di farmaco al giorno. Tale regime farmacologico ha prodotto un miglioramento della sintomatologia psicotica significativamente maggiore del placebo, miglioramento valutato mediante la somministrazione della scala Clinical Global Impression (CGI), della Brief Psychiatric Rating Scale (BPRS) e della Positive Symptoms Scale (SAPS). In aggiunta all'efficacia antipsicotica, la clozapina ha esercitato anche un effetto positivo sul tremore, senza peggiorare la sintomatologia extrapiramidale. Lo studio è stato successivamente protratto a 12 settimane per valutare se l'effetto positivo sui sintomi psicotici e sul parkinsonismo permanesse nel tempo35. Tutti i soggetti erano trattati con clozapina (anche quelli inizialmente randomizzati al placebo). Alla sedicesima settimana (4 di fase acuta e 12 di follow-up) la risposta al trattamento è stata mantenuta e non vi è stata alcuna evidenza di peggioramento delle performance motorie. Un secondo trial ha fornito risultati simili, confermando l'effetto antipsicotico, l'efficacia nel ridurre il tremore, e soprattutto il non peggioramento della sintomatologia neurologica36.
Purtroppo la clozapina è un farmaco gravato dal rischio di leucopenia e agranulocitosi, quest'ultima 10 volte più frequente nei soggetti in trattamento con questo farmaco rispetto a coloro che assumono gli antipsicotici di vecchia generazione. Per questo motivo, molti autori hanno ipotizzato di impiegare nei soggetti con psicosi e Parkinson, al posto della clozapina, il risperidone o l'olanzapina o la quetiapina. Ad oggi, tuttavia, questo utilizzo non è fondato su alcuna evidenza proveniente da studi clinici controllati, se si eccettua un trial che confronta il risperidone alla clozapina in 10 soggetti col Parkinson37. Al di là del piccolo numero di soggetti inclusi, e quindi della scarsa generalizzabilità delle informazioni, questo studio ha evidenziato che i soggetti trattati col risperidone, ma non quelli trattati con clozapina, mostravano un peggioramento della sintomatologia extrapiramidale. Dati osservazionali per risperidone, olanzapina e quetiapina sembrano indicare una buona efficacia antipsicotica, ma anche un peggioramento del quadro clinico neurologico. Attualmente, dunque, non vi è alcuna indicazione per l'impiego di risperidone, olanzapina e quetiapina nei soggetti con psicosi indotta dal trattamento con levodopa. Conclusioni
Nella pratica clinica quotidiana non è sempre agevole capire quale intervento farmacologico sortirà gli effetti sperati nel singolo paziente. Le indicazioni provenienti dagli studi clinici controllati, che evidentemente devono essere utilizzate e tenute in considerazione come termine di riferimento, spesso forniscono solo indicazioni parziali e difficili da trasferire nel contesto assistenziale specifico in cui ogni medico di medicina generale si trova ad operare. Il controllo dei sintomi psicotici e delle anomalie comportamentali nei soggetti con demenza e morbo di Parkinson è solo un esempio di tutto ciò. I medici di medicina generale che seguono questi pazienti hanno però, proprio in queste situazioni, la possibilità di fare emergere la distanza fra ricerca e pratica, per esempio classificando i propri pazienti con anomalie comportamentali in due gruppi, quelli che ricevono un trattamento farmacologico in linea con le indicazioni della letteratura, e quelli che ricevono un trattamento farmacologico non supportato da alcuna evidenza di efficacia.
Questi due gruppi di soggetti costituiscono il campione di uno studio, trasversale inizialmente, per capire qual è la frazione di soggetti in cui l'uso dei farmaci è irrazionale, e che caratteristiche hanno questi soggetti (sono uguali agli altri o differiscono per quadro clinico o storia di malattia, per disponibilità di assistenza dei familiari o per la presenza di altre malattie). E' uno studio longitudinale, in secondo luogo, per capire qual è la storia di malattia e l'esito, nel contesto assistenziale di ogni medico di famiglia, di queste due popolazioni di soggetti. Se questa documentazione, sistematica, non viene effettuata e non viene considerata parte integrante dell'attività clinica quotidiana, i medici di medicina generale non saranno mai in grado di dire se nei soggetti con anomalie comportamentali associate a demenza e morbo di Parkinson i farmaci vengano prescritti in modo razionale o irrazionale, e, soprattutto, non saranno mai in grado di capire le variabili che spiegano e motivano le loro prescrizioni. Bibliografia 1. Kumar V. Use of atypical antipsychotic agents in geriatric patients: a review. International Journal of Geriatric Psychopharmacology 1997; 1: 15-23. 2. Ott A, Breteler M, van Harskamp F. Prevalence of Alzheimer disease and vascular dementia: association with education: the Rotterdam study. British Medical Journal 1995; 310: 970-973. 3. Morgan K, Lilley JM, Arie T. Incidence of dementia in a representative British sample. British Journal of Psychiatry 1993; 163: 467-470. 4. Rovner BW, German PS, Broadhead J. 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