Introduzione
L'elevata frequenza di soggetti in carico alla medicina generale con problemi di tipo depressivo ha progressivamente indirizzato i medici di medicina generale a sviluppare competenze rivolte a migliorare il riconoscimento, la gestione e il trattamento di questi problemi1'2'3. L'interesse, in aggiunta alle forme maggiori di depressione, a quelle cioè più gravi, si è concentrato molto su tutte quelle tipologie di disagio di tipo depressivo che non arrivano a soddisfare i criteri di depressione maggiore. Tra queste ultime vi è la distimia, termine che comunemente viene utilizzato come sinonimo di depressione cronica o depressione minore. Obiettivo della presente rassegna della letteratura è riassumere brevemente ciò che è noto sull'epidemiologia e sulla storia naturale della distimia, e rivedere criticamente la letteratura sperimentale sui possibili trattamenti farmacologici che possono essere impiegati; il discorso, giocoforza, rimanderà in modo continuo alle altre forme di depressione, con cui la distimia è inevitabilmente e intrinsecamente legata. Che cos'è la distimia?
Il termine distimia venne utilizzato per la prima volta nel 1863 da Kahlbaum per descrivere una forma di deflessione del tono dell'umore in cui l'elemento clinico più caratteristico era la cronicità dello stato depressivo4. Da allora, il termine distimia è stato progressivamente utilizzato nel linguaggio clinico corrente per identificare e descrivere le sindromi depressive caratterizzate da decorso cronico e intensità sintomatologica lieve o moderata. La durata e l'intensità dei sintomi sono dunque gli elementi chiave per formulare la diagnosi e per distinguere la distimia dalla depressione maggiore, ossia da quella condizione clinica caratterizzata da gravi episodi di deflessione del tono dell'umore che si intervallano ad altri di relativo benessere. Secondo i criteri delI' International Classification of Diseases (lCD-1O) per porre diagnosi di episodio depressivo vi devono essere almeno due settimane in cui siano presenti i sintomi elencati nella Tabella 1, e per porre diagnosi di distimia vi devono essere almeno due anni di deflessione timica accompagnata dai sintomi presentati nella Tabella 25 . Da un punto di vista qualitativo, evidentemente, i sintomi della distimia sono largamente sovrapponibili a quelli dell'episodio depressivo, e quest'ultimo può a sua volta sovrapporsi e complicare un quadro di distimia. Per questi motivi è importante affrontare il tema della distimia in riferimento costante alla depressione maggiore, per capire quanto a quest'ultima assomigli o si discosti in termini di frequenza, popolazioni a rischio, storia naturale, durata e intensità dei sintomi e, da ultimo, possibili interventi farmacologici. Semplificando l'inquadramento nosografico, si potrebbe dire che la distimia si colloca nell'ambito delle sindromi depressive assieme alla depressione maggiore e a quella minore, con ampie aree di sovrapposizione con entrambe (Figura). Epidemiologia e storia naturale delle sindromi depressive
In Italia è stata recentemente portata a termine una indagine trasversale per stimare la prevalenza di sindromi depressive nella popolazione6. Lo studio, che utilizzava la Mini Intemational Neuropsychiatric Interview (MINI) per riconoscere i soggetti affetti, ha stimato una prevalenza di depressione maggiore dell'8% e di depressione minore del 2,9%. In aggiunta, quasi un terzo dei soggetti intervistati lamentava uno o più sintomi depressivi. Queste stime sono in linea con i risultati di uno studio europeo multicentrico condotto utilizzando criteri analoghi, in cui la prevalenza di depressione maggiore risultava compresa tra 3,8 e 9,9 soggetti ogni 100 abitanti7. Tali stime mostravano una grande differenza legata al sesso solamente per quanto riguarda la depressione maggiore, ma non rispetto alle altre forme di depressione, dove non emergevano differenze di genere. Per quanto riguarda l'età, la frequenza di depressione maggiore cresceva progressivamente al crescere dell'età dei soggetti fino ad un picco massimo di prevalenza attorno ai 50 anni. Al di sopra di questa età si evidenziava una inversione di tendenza, con una progressiva diminuzione delle stime di prevalenza. Per quanto riguarda la storia naturale delle sindromi depressive, è noto che la depressione maggiore si caratterizza per la presenza di uno o più episodi depressivi (Tabella 3). lI singolo episodio viene denominato depressione reattiva quando dura meno di 2 mesi, e depressione maggiore quando si prolunga per più di due mesi. Più del 50% di coloro che hanno sofferto di un primo episodio depressivo ne sviluppano un secondo nel corso della vita; senza trattamento, la durata degli episodi depressivi varia tra sei e 24 mesi. In due terzi dei casi circa l'episodio depressivo si esaurisce con la remissione dei sintomi completa o parziale; in un terzo dei casi, tuttavia, i sintomi divengono meno gravi ma non scompaiono e, di conseguenza, si verifica una cronicizzazione del disturbo, denominato appunto distimia o depressione cronica o depressione minore (Tabella 3). Si comprende dunque l'estrema difficoltà a considerare la distimia un'entità nosografica a se stante rispetto alle altre sindromi depressive. Questa impressione è suffragata da alcuni studi che hanno tentato di delineare la storia naturale di questo disturbo. Negli Stati Uniti è stato recentemente portato a termine il follow-up a cinque anni di 86 pazienti con diagnosi formale di distimia; gli autori hanno confermato il decorso cronico del disturbo, sottolineando che praticamente tutti i soggetti, nel corso dei cinque anni, avevano sviluppato uno o più episodi di depressione maggiore8. Al termine dello studio, solo il 50% dei soggetti poteva dirsi ristabilito dal punto di vista sintomatologico. Judd e Akiskal, discutendo il problema della storia naturale della distimia, hanno suggerito l'importanza di superare la concezione secondo cui si tratti di un'entità clinicamente ben distinta dalla depressione maggiore e di accettare di porsi in un'ottica di continuum tra due estremi, rappresentati dalle forme di depressione minori, distimiche e croniche da un lato, e dalla depressione maggiore dall'altro9. In quest'ottica, ciò che chiamiamo distimia rappresenterebbe una condizione clinica pervasiva, cronica e sottosoglia costantemente presente, sulla quale si verificherebbero gli episodi depressivi maggiori come eventi acuti episodici occasionali Distimia e farmaci: le evidenze disponibili
Anche il discorso sull'impiego dei farmaci ad azione antidepressiva nella distimia non può prescindere da quello, più generale, dell'impiego dei farmaci antidepressivi per fronteggiare i sintomi di tipo depressivo. Vi sono due considerazioni di fondo: gli antidepressivi si usano sempre di più e le evidenze disponibili sul loro impiego sono di bassa qualità. L'uso di antidepressivi sta progressivamente aumentando in tutta Europa. In Danimarca la prevalenza d'uso annuale degli antidepressivi è passata dal 1,6% al 2,0% tra il 1991 e il 1993, essenzialmente per l'importante incremento nelle vendite dei composti di nuova generazione, gli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI)10. Sempre in Danimarca, la prevalenza d'uso di questi farmaci cresce progressivamente al crescere dell'età e risulta massima nei soggetti al di sopra degli 80 anni.11 Stime analoghe sono state calcolate in Norvegia e Svezia12'13'14. In Italia le vendite di antidepressivi sono aumentate del 53% circa nel periodo compreso tra il 1988 e il 1996; tale aumento, grosso modo, corrisponde al volume di vendita dei nuovi antidepressivi15. In Francia le stime sono simili16, e in Spagna il consumo di questi farmaci è aumentato di circa tre volte negli ultimi 10 anni17. In Irlanda, a metà degli anni '90, le prescrizioni di SSRI sono aumentate di pari passo alla riduzione dell'uso dei vecchi triciclici18 in Inghilterra, infine, la spesa legata alla prescrizione di antidepressivi è in crescita, e i medici di medicina generale inglesi spendono annualmente circa 160 milioni di sterline per questi farmaci19'20. L'utilizzo di antidepressivi è suffragato da evidenze sperimentali di efficacia e tollerabilità provenienti da studi di bassa qualità. Recentemente è stata portata a termine un'analisi di oltre 300 trial pubblicati negli ultimi 40 anni21. Come indicatori della qualità degli studi venivano considerati i seguenti parametri: numero di pazienti per studio; durata dello studio; numero di indicatori di esito. Il numero di soggetti per studio è risultato molto basso e, tutto sommato, è cresciuto troppo poco negli anni: attualmente la mediana è di 100 pazienti per trial. Così anche per gli altri indicatori: la mediana di durata degli studi è passata da 4 a 6 settimane, troppo poco per valutare interventi farmacologici che in molti casi si prolungano per dei mesi; il numero di parametri di efficacia, infine, è progressivamente aumentato, ad indicare forse una maggiore precisione e raffinatezza nel definire e descrivere la remissione sintomatologica, oppure, più verosimilmente, a suggerire che dopo 40 anni di studi sugli antidepressivi non si è ancora raggiunto un reale consenso su come si definisca e misuri la risposta al farmaco antidepressivo. In questo contesto di letteratura si inseriscono gli studi clinici controllati che hanno indagato il possibile effetto terapeutico degli antidepressivi nelle forme cosiddette minori di depressione e nella distimia22. Recentemente è stata portata a termine una revisione sistematica di tutti questi studi, consultabile elettronicamente utilizzando la Cochrane Library23. Partendo da oltre 5000 referenze bibliografiche attinenti alla distimia, gli autori ne hanno selezionato 114 che si riferivano al trattamento farmacologico. Di questi 114 articoli 31 riguardavano 15 trial che studiavano l'efficacia di un farmaco antidepressivo rispetto al placebo nella distimia. I principali risultati di questi studi sono riassunti nella Tabella 4. Rispetto al placebo, gli antidepressivi hanno evidenziato una certa efficacia terapeutica: mettendo assieme tutti i dati, il tasso di risposta al placebo è risultato del 30% e quello agli antidepressivi del 55%. Questo significa una differenza del 25% e un NNT (number needed to treat, ossia il numero di soggetti da trattare per osservare il beneficio dell'antidepressivo rispetto al placebo in un paziente) di circa 4 soggetti. In termini di dropout, ossia di soggetti che hanno interrotto il trattamento, l'analisi non ha evidenziato differenze statisticamente significative. Gli autori, commentando questo dato, sottolineano come le differenze emergano quando si stratificano i drop-out secondo la ragione della interruzione, in quanto chi riceveva il placebo interrompeva più frequentemente per il persistere della sintomatologia, mentre i soggetti randomizzati all'antidepressivo interrompevano più frequentemente per l'insorgenza di effetti avversi. L'analisi non ha evidenziato, da ultimo, differenze di efficacia tra le varie classi di antidepressivo, sebbene questa considerazione non tragga origine dal confronto diretto dei singoli farmaci, bensì dal confronto delle differenze rispetto al placebo. Ad ogni modo, allo stato attuale delle conoscenze, non è possibile indicare un farmaco di prima scelta, da utilizzare cioè in prima battuta inquesti pazienti. Questo, suggeriscono gli autori, vale anche per l'amisulpiride, che si riteneva potesse avere un ruolo specifico nel trattamento della distimia. In effetti, come evidenziato nella Tabella 1, l'effetto di questo composto appare tutto sommato sovrapponibile a quello degli altri antidepressivi. Più che l'efficacia, dunque, dovrebbe essere il profilo di tollerabilità ad indirizzare la scelta del farmaco, da valutare rispetto ad eventuali altre malattie e farmaci assunti. What are we treating: a patient or a diagnostic label?
Il numero di Maggio 2001 della rivista The Journal of Family Practice riporta i risultati di uno studio clinico controllato americano che ha confrontato l'efficacia della paroxetina rispetto al placebo e all'approccio psicologico denominato problem solving therapy (PST)24. Il trial è stato condotto utilizzando i criteri diagnostici americani, che distinguono la distimia dalla depressione minore (quest'ultima non sarebbe cronica come la distimia, ma nemmeno grave come la depressione maggiore). Lo studio suggerisce l'efficacia della paroxetina e del PST solamente nella distimia, mentre nella depressione minore questi trattamenti non sarebbero diversi dal placebo in termini di efficacia. Questo articolo viene commentato nello stesso numero della rivista da un medico di medicina generale statunitense che si pone l'interrogativo riportato nel titolo del paragrafo25: come è possibile considerare la distimia una sindrome assolutamente separata dalle altre forme di depressione, e trattarla farmacologicamente, e considerare la depressione minore un'altra sindrome, questa volta da non trattare? Secondo l'autore è impossibile seguire le raccomandazioni del trial poiché nella pratica clinica non è vero che i pazienti hanno la distimia o la depressione minore. Queste definizioni dovrebbero essere considerate solamente come mezzi di approssimazione alla realtà, ma non sono e non corrispondono alla realtà. Quest'ultima, infatti, è per definizione più ambigua, e costituita da soggetti che hanno una sintomatologia depressiva vaga e variegata, associata ad altri sintomi e malattie, di durata e intensità incerta e soggettiva. I medici di medicina generale, sostiene l'autore di questo editoriale, devono trattare queste condizioni cliniche, per periodi prolungati, senza le risorse per alcun intervento psicologico, e non, viceversa, le etichette diagnostiche dei sistemi di classificazione. La decisione di prescrivere o meno un antidepressivo, a detta dell'autore, segue il semplice colloquio clinico, che mira a valutare il livello di compromissione del funzionamento del soggetto causato dai sintomi depressivi, e a collocare questa compromissione in una ipotetica scaletta di priorità e bisogni assistenziali di quel soggetto in quel momento e in quel contesto di vita. Nota conclusiva
Il senso di questa breve rassegna della letteratura potrebbe sembrare quello di complicare le cose: non sappiamo cosa sia la distimia, non sappiamo se sia una forma di depressione maggiore e non ne conosciamo la storia naturale; i trattamenti farmacologici, che pure hanno un certo effetto sintomatico, sono stati studiati in pochi pazienti, molto selezionati, osservati per periodi di tempo brevi e valutati in modo molto sofisticato e dunque lontano dalla pratica quotidiana. Il senso di questa rassegna, in realtà, non è tanto quello di complicare le cose, quanto di generare incertezza al medico di medicina generale che si trova a gestire problemi e sintomi di tipo depressivo. L'incertezza, in questo caso, è positiva, poiché riflette la scarsa conoscenza che abbiamo di questi problemi, è cioè un'incertezza reale. E' positiva, in secondo luogo, perché responsabilizza: se di fronte a cose certe possiamo agire automaticamente, applicando la nostra certezza, di fronte alle cose incerte siamo costretti a fermarci a riflettere e pianificare una strategia di intervento "incerto". E una strategia di questo tipo deve essere monitorata attentamente, proprio perché, in quanto incerta, non possiamo essere del tutto sicuri di che cosa produca, a breve e a lungo termine. Se poi si realizzasse di tenere traccia di queste storie di incertezza e del loro destino si otterrebbe che ciascun medico di medicina generale diverrebbe in grado di tracciare il profilo dei pazienti con problemi di distimia che quotidianamente vede, di descrivere le opzioni terapeutiche che propone loro, e di osservare ciò che capita con il passare del tempo. Questa documentazione, di per sé, verrebbe a costituire un bagaglio di informazioni utile come mezzo di audit del proprio lavoro, come strumento di comunicazione e confronto con altri medici che si interrogano sugli stessi problemi e, infine, come strumento conoscitivo, per lo meno laddove i propri pazienti possano essere considerati rappresentativi di più vaste popolazioni di soggetti Bibliografia 1. Goldberg D, Huxley P. Mental illness in the Community. The Pathway to Psychiatnc Care. Tavistock: London, 1980. 2. Asioli F, Contini G. Psichiatria e Medicina di Base. Editrice CLUEB: Bologna, 1991. 3. Rizzo R, Piccinelli M, Mazzi MA, Bellantuono C, Tansella M. The Personal Health Questionnaire: a new screening instrument for detection of lCD-10 depressive disorders in primary care. Psychological Medicine 2000; 30: 831-40. 4. Akiskal HS. Dysthimic disorder: psychophatology of proposed chronic depressive subtypes. Amencan Joumal of Psychiatry 1983:140:11-20. 5. 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