Verena De Angelis Azienda Sanitaria Locale n. 2, Perugia
Articolo tratto da: Técne 2001; 5: 165
Si parla di "anemia" se il quantitativo dell'emoglobina si riduce sotto i 14 g/dl nell'uomo e 12 g/dl nella donna. Anche se non si dispone di una stima precisa dell'entità del fenomeno, studi clinici e indagini osservazionali documentano che l'anemia è relativamente comune tra i pazienti con tumori solidi ed ematologici sia come espressione diretta della malattia sia come conseguenza dei trattamenti, o per malattie coesistenti che possono essere o non essere correlate al cancro. La frequenza e la gravità dell'anemia variano a seconda della sede e dell'estensione della neoplasia; dipendono inoltre dal tipo di chemioterapia, radioterapia o entrambe, dalle modalità e tempi di somministrazione e dall'intensità del trattamento. Da una revisione di studi pubblicati dal 1990 al 19981, emerge un'incidenza relativamente alta, superiore al 50%, di anemia da lieve a moderata (grado 1-2, emoglobina compresa tra 8 e 11 g/dl) nella maggior parte dei tumori solidi trattati con comuni agenti chemioterapici sia da soli sia in combinazione, sia in pazienti pretrattati sia naive.
La più alta incidenza di anemia grave (grado 3-4, emoglobina <8 g/dl), tale da rendere necessario il supporto trasfusionale, si registra in tumori in cui molto spesso è raccomandata in prima linea una chemioterapia a base di platino e/o taxani come tumori del polmone, i tumori ginecologici (ovaio) o del tratto genitourinario con frequenze che possono superare il 30%. La probabilità di avere un'anemia grave tale da richiedere un supporto trasfusionale aumenta con l'aumentare dei cicli di chemioterapia. Per molti anni l'anemia è stata considerata clinicamente rilevante solo se il paziente riferiva segni o sintomi di malattia organica. Recentemente, alcuni studi indicano che l'anemia, anche se di grado lieve-moderato, è causa di una riduzione delle capacità funzionali del paziente e ha un impatto negativo sulla prognosi di malattia e sulla qualità di vita2,3. Bassi livelli di emoglobina sembrano essere responsabili di una morbilità significativa e forse di mortalità. Tra i meccanismi chiamati in causa vi sono la ridotta ossigenazione tumorale con conseguente riduzione dell'effetto della chemioterapia e della radioterapia; la più bassa intensità del trattamento somministrato al paziente (meno cicli chemio- o radioterapici somministrati) e un meccanismo indiretto risultante da un peggioramento della qualità di vita4.
Tre sono le principali armi terapeutiche a disposizione per correggere l'anemia.
Nelle forme sideropeniche è utile la terapia marziale.
Le trasfusioni di sangue rappresentano a tutt'oggi l'approccio più comune per la correzione dell'anemia grave nei pazienti con cancro. Questa opzione terapeutica ha il grande vantaggio di una rapida correzione dell'anemia, ma conta una serie di svantaggi quali il rischio di infezioni virali (dopo il 1990 il rischio di complicanze infettive a medio e lungo termine varia dallo 0,04% al 2,5%, con un rischio di morte per anno di 0,59%), reazioni allergiche, immunosoppressione, accumulo di ferro, scarsa efficacia in pazienti con anticorpi, necessità di ospedalizzazione senza contare la possibilità di rifiuto da parte di alcuni pazienti.
L'eritropoietina (EPO) rappresenta una attraente altemativa alla trasfusione di sangue nella gestione dell'anemia associata al trattamento del paziente neoplastico. L'eritropoietina è un ormone endogeno, prodotto principalmente dal rene e in piccolissima parte dal fegato, che partecipa alla regolarizzazione dell'eritropoiesi. Due forme di eritropoietina ricombinante, conosciute genericamente come epoetina alfa ed epoetina beta, sono state sviluppate a partire dagli anni '80 e usate inizialmente nel trattamento dell'anemia associata a malattie renali in fase terminale. Il trattamento con EPO ha il vantaggio di essere un trattamento "fisiologico", ben accettato dai pazienti, può essere somministrato a domicilio e presenta modesti effetti indesiderati. Negli ultimi anni molti studi clinici condotti su pazienti neoplastici che ricevevano chemioterapie con o senza platino, hanno mostrato che l'EPO è in grado di correggere o prevenire l'anemia in oltre il 60% dei pazienti trattati e insieme ridurre la necessità di trasfusioni5-9. L'efficacia dell'EPO viene valutata attraverso la capacità di riduzione delle richieste trasfusionali e stimando le variazioni della qualità della vita misurate con apposite scale (le più comuni sono Functional Assessment in Cancer Therapy - FACT - una sua sottoscala specifica per l'anemia, FACT-An, e LASA).
La risposta all'EPO si considera completa quando si riscontra un incremento medio di Hb > o = 2 g/dl senza supporto trasfusionale, parziale se c'è un incremento di Hb <2 g/dl senza supporto trasfusionale e non-risposta se si documenta una riduzione dell'Hb con o senza un supporto trasfusionale. In uno studio randomizzato recente7, la risposta ematopoietica è risultata significativamente maggiore nel gruppo trattato con EPO (150 o 300 UI/kg 3 volte la settimana) rispetto al gruppo trattato con placebo con un incremento >2 g/dl di Hb già dopo 10 settimane di trattamento e parallelamente una significativa riduzione della richiesta trasfusionale dopo 4 settimane (24,7% vs 39,5%, p =0,0057). La percentuale di risposta completa (incremento di Hb > o = 2 g/dl non correlato a trasfusioni) è risultata significativamente più alta nel gruppo EPO (70,5% vs 19,1%, p <0,001). E' emersa inoltre una correlazione fortemente significativa tra l'incremento medio dei valori dell'emoglobina e il miglioramento degli indici della qualità di vita (inclusi il livello di energia, la capacità di compiere le attività quotidiane e l'affaticamento) stimata attraverso varie scale. Altri studi hanno dimostrato che il miglioramento della qualità di vita non sembra correlato con la risposta tumorale alla terapia ottenendo un miglioramento statisticamente significativo anche in pazienti in progressione di malattia3. In un recente studio multicentrico, condotto in aperto su oltre 3.000 pazienti, è stata utilizzata una unica dose settimanale di EPO di 40.000 UI (da aumentare a 60.000 UI, qualora dopo 4 settimane fosse stato evidenziato un incremento di Hb <1g/dl). Questa dose sembrerebbe in grado di stimolare una risposta emopoietica e di indurre un miglioramento della qualità della vita simile a quello osservato nell'esperienza storica del dosaggio trisettimanale8. In uno studio si è cercato di identificare il livello di emoglobina necessario per ottenere una qualità di vita ottimale attraverso un metodo di analisi incrementale, valutando una coorte di oltre 4.300 pazienti anemici sottoposti a chemioterapia e trattati con EPO. Dallo studio è emerso un dato molto interessante e che stimola riflessioni su cui torneremo più tardi: l'uso di EPO ha determinato globalmente un incremento significativo dei valori medi di emoglobina e conseguentemente un miglioramento della qualità di vita (stimata con LASA e con FACT-An), ma il miglioramento è stato più consistente per ogni grammo di incremento di emoglobina che si otteneva a partire da 11 g/dl (range 11-13 g/dl). Questo dato è stato confermato anche dopo analisi multivariata che teneva conto di vari fattori prognostici10. Recentemente sono stati pubblicati i risultati di una metanalisi di 22 studi controllati con l'arruolamento di 1.927 pazienti11.
L'obiettivo di tutti gli studi era quello di confrontare gli outcome della gestione dell'anemia con EPO verso le sole trasfusioni di sangue, in pazienti neoplastici sottoposti a chemioterapia. Diciotto studi erano randomizzati (1.698 pazienti) e di questi 7 erano controllati contro placebo e in doppio cieco (853 pazienti). Su 1.838 pazienti valutabili la metanalisi ha evidenziato una odds ratio a favore dell'EPO di 0,38 (IC al 95%, 0,28 - 0,51) nel ridurre il rischio di trasfusione rispetto ai pazienti gestiti senza EPO.
Il numero di pazienti che è necessario trattare (NNT, ovvero l'inverso della riduzione assoluta del rischio) con EPO perché un paziente eviti la trasfusione è di 4,4 (IC al 95%, 3,6 - 6,1), il che suggerisce che 4 o 5 pazienti devono essere trattati con EPO per poter evitare a uno di essere sottoposto a trasfusione. Attraverso l'analisi di sensibilità è risultato che negli studi di alta qualità la riduzione del rischio era minore; in questi studi l'NNT è di 5,2 (IC al 95%, 3,8- 8,4) contro 2,6 (IC al 95%, 2,1 -3,8) degli studi di bassa qualità. Nella stessa metanalisi non è stato rilevato nessun dato di laboratorio in grado di predire o permettere una precoce identificazione dei pazienti responsivi all'EPO, in particolare né il livello sierico di eritropoietina basale né O/P ratio (rapporto dei logaritmi dei valori di EPO endogena osservata e quella prevista) hanno predetto la risposta all'EPO11. I dati disponibili sono perciò sicuramente incoraggianti, ma sebbene l'EPO rappresenti un ottimo candidato per rimpiazzare le trasfusioni, la sua somministrazione a pazienti neoplastici a scopo di prevenire o migliorare l'anemia è un'opzione decisamente costosa. Non sono stati condotti studi farmaco-economici ad hoc per l'EPO anche se esistono alcune valutazioni condotte in maniera retrospettiva. Riprendendo i risultati di uno studio2 sono stati confrontati il profilo di costo-efficacia (cost-effectiveness) dell'EPO verso l'uso delle sole trasfusioni tramite un'analisi decisionale. Trasferendo i dati nella realtà italiana, il costo dell'uso profilattico di EPO per 4 cicli di chemioterapia alla dose raccomandata di 150 UI/kg (10.000 UI) 3 volte la settimana è stimato in circa 4.400 dollari per paziente, mentre il costo stimato di un supporto trasfusionale nello stesso paziente è di circa 200 dollari. Al fine di ridurre la probabilità di trasfusione dal 21,9% al 10,4% e il numero di sacche trasfuse da 0,55 a 0,29, il costo incrementale è stato stimato in circa 190.000 dollari per QALY (qualità di vita aggiustato per anno). Questi valori sono ben superiori rispetto a quelli che definiscono un farmaco come costo-efficace (< 50.000 dollari e, secondo altri, < 30.000 dollari per QALY)12-13. Quanto sarebbero disposti a pagare i pazienti per poter fare un uso profilattico dell'EPO? Al quesito si è cercato di rispondere attraverso una analisi di tipo costo-beneficio coinvolgendo 100 pazienti neoplastici e 50 soggetti selezionati dalla popolazione generale (abitanti di Toronto). Dopo aver ottenuto dai ricercatori tutte le informazioni circa il rischio di trasfusione in pazienti sottoposti a chemioterapia contenente o meno cisplatino, i pazienti erano disposti a pagare in media 587 dollari e rispettivamente 613 dollari, contro un costo effettivo per un trattamento di 3 mesi di 3530 dollari e 3563 dollari. I soggetti non malati erano disposti a pagare rispettivamente 800 e 680 dollari. Solo il 4% degli intervistati si diceva pronto a spendere l'intero ammontare della spesa farmaceutica (oltre 3500 dollari)14.
In sintesi l'EPO funziona, ma non è costo-efficace! Peraltro, non tutti i pazienti rispondono all'EPO e non tutti i pazienti sottoposti a chemioterapia avranno bisogno di trasfusioni. È vero, da un lato, che la scelta di usare l'EPO non dovrebbe essere solo una scelta economica, ma come è noto molti pazienti in trattamento chemioterapico per malattia avanzata, specie con cisplatino presentano progressione della malattia e sospendono la chemioterapia dopo 2 o 3 cicli. In questo caso l'uso dell'EPO per due-tre mesi risulterebbe inopportuno o superfluo, in altre parole solo un costo aggiuntivo. È pertanto necessario che siano eseguiti ulteriori studi che consentano di selezionare i pazienti che abbiano la possibilità di rispondere al trattamento con EPO e quelli in cui la sua somministrazione preventiva sia inutile, prima che l'EPO diventi una moda a caro prezzo nella pratica clinica.
Nonostante la mancanza di linee-guida per l'uso dell'EPO, già vengono pubblicati dati su nuove molecole quali la NESP (darbepoietina alfa) che avrebbero il vantaggio di un intervallo di somministrazione ancora più lungo (21 giorni) accanto a una probabile maggiore efficacia (e sicuro maggior costo) rispetto all'EPO15,16.
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