Fausto Roila Divisione di Oncologia Medica, Policlinico Perugia
Enzo Ballatori Unità di Statistica Medica, Dipartimento di Medicina Interna e Sanità Pubblica Università degli studi L'Aquila
Di recente, sempre più spesso compaiono nella letteratura medica editoriali che dovrebbero costituire l'esca per appassionate discussioni sulla ricerca clinica e che, invece, hanno un modesto impatto per abitudini e interessi consolidati. Tuttavia, seppure con oscillazioni, crediamo che si vada sempre più verso la legittimazione della ricerca clinica come ricerca scientifica e, quindi, verso la normalizzazione rispetto agli altri settori di ricerca dei rapporti tra le figure comprimarie di tale settore di attività, cioè verso la massima trasparenza.
Prendendo spunto da un editoriale apparso di recente (Lancet 2001; 358: 854-856), torniamo ad occuparci dell'argomento, per stimolare un dibattito o, almeno, per accendere una riflessione. La ricerca clinica, oggi necessariamente interdisciplinare, è caratterizzata da almeno quattro figure:
il paziente, sia quello che partecipa al processo di ricerca, sia il paziente futuro, principale beneficiario dei risultati della ricerca clinica. L'interesse del primo non può in alcun modo essere sacrificato a quello del paziente futuro, se non per aspetti di marginale rilevanza per la sua salute di cui, comunque, deve essere ben consapevole; da qui l'esigenza del suo massimo coinvolgimento nella ricerca, il che oggi si sta sempre più verificando anche grazie all'obbligatorietà del consenso informato. Il secondo è potenzialmente ogni membro della società e, quindi, la sua tutela ricade in quella generale dell'interesse della società;
il ricercatore, sia il clinico, che progetta lo studio, esegue la rilevazione dei dati, interpreta i risultati e provvede alla stesura del report finale, sia il metodologo che collabora con il clinico nelle fasi di programmazione della ricerca, di analisi e di interpretazione dei risultati e nella stesura del report finale della ricerca. Il vantaggio che deriva a entrambi dalla loro attività di ricerca è molteplice: di natura economica (spesso), in termini di prestigio e di notorietà per i risultati pubblicati, di affinamento professionale e, non ultimo, di soddisfazione personale per aver appagato una curiosità professionale e scientifica;
lo sponsor, che finanzia la ricerca e trae utili, non necessariamente solo economici, dai risultati della ricerca;
la società, che valuta criticamente i risultati della ricerca e li utilizza per modificare la politica della spesa sanitaria.
Una tale struttura del processo di ricerca sarebbe trasparente, normale rispetto alla ricerca svolta in altri settori disciplinari, almeno per quanto concerne le figure che vi prendono parte, le loro aspettative, i loro obblighi, i loro rapporti.
Ciò che finora ha sostanzialmente alterato tale quadro è stata una confusione di ruoli dovuta non solo a un conflitto di interessi, spesso più contingente che di lungo periodo, ma anche all'affermarsi di una scala di valori basati essenzialmente sul profitto che mal si conciliano con quelli propri di una società che fondava nella ricerca scientifica molte speranze per il proprio progresso.
Spesso lo sponsor, in quanto finanziatore della ricerca, ne decide l'argomento, ne controlla l'intero processo, imponendo lo staff che provvede al data management e perfino un suo metodologo che non si interfaccia più con il ricercatore clinico se non (poco) all'inizio e alla fine (e non sempre) del lavoro di ricerca, acquisisce la proprietà del dato rendendolo indisponibile al ricercatore stesso.
Talvolta può anche giungere a orientare l'interpretazione dei risultati e conseguentemente la filosofia della pubblicazione, giungendo, in qualche caso, perfino a impedirla se i risultati in essa contenuti minacciano di ledere i propri interessi commerciali. In tal modo, il ricercatore clinico si trasforma in una figura simile a quella libero-professionale, mentre il biostatistico è relegato a un semplice ruolo tecnico dipendente dallo sponsor stesso. Il fatto che lo sponsor decida esattamente i contenuti della ricerca può essere giustificato dalla spesa che egli sostiene per l'intero processo. La sua rilevanza può anche essere considerata di modesta entità a condizione che vi sia un sostanziale e sistematico intervento pubblico nella ricerca clinica. Purtroppo, però, a tutt'oggi tale intervento è debole; anzi, la presenza di soggetti interessati a promuovere la ricerca clinica (le case farmaceutiche) sembra quasi costituire un alibi per la carenza dell'intervento pubblico in tale settore. Ha esiti potenzialmente più gravi, invece, l'intervento dello sponsor nel processo di ricerca. E proprio contro la mancanza di indipendenza del ricercatore è diretto il suddetto editoriale. Nel settembre 2001 i direttori delle maggiori riviste mediche internazionali, tra cui Annals of Internal Medicine, JAMA, The New England Journal of Medicine, The Lancet, Canadian Medical Association Journal, New Zealand Medical Journal e Medical Journal of Australia hanno pubblicato in contemporanea un editoriale dal titolo "Sponsorship, authorship, and accountability" con il quale rivolgono un appello ai ricercatori di tutto il mondo per una ricerca più indipendente e di qualità, libera dai vincoli di pubblicazione degli sponsor.
Tale editoriale, che prende le mosse dai conflitti di interesse presenti nella ricerca clinica, ampiamente evidenziati e già discussi (Roila F, Ballatori E. Ricerca clinica, ricercatori e industria farmaceutica."Técne" 2000; 4: 117-20), dà l'opportunità ai ricercatori di svincolarsi dai legami che spesso impediscono di svolgere un ruolo determinante nella ricerca.
Infatti, si riconosce come troppo spesso i ricercatori abbiano un ruolo scarso o del tutto assente nel disegno dello studio, nessun accesso ai dati grezzi e una limitata partecipazione all'interpretazione dei risultati. Nonostante ciò, tali protocolli di ricerca vengono ugualmente accettati dai ricercatori (se un centro non partecipa, può certamente essere sostituito con un altro), anche quando si stabilisce che è lo sponsor a decidere la politica editoriale riservandosi il diritto di pubblicare o meno i risultati. Con l'editoriale di settembre 2001 si pone fine a questo stato di cose: essere autori significa assumersi, oltre agli oneri, anche le responsabilità e dichiarare l'indipendenza circa l'analisi dei risultati dello studio e la loro pubblicazione. Un lavoro sottoposto per la pubblicazione a una rivista non può essere considerato proprietà esclusiva dello sponsor che lo ha finanziato, ma è proprietà intellettuale degli autori ed è anche proprietà sia dei pazienti, senza il cui contributo in termini di rischio la ricerca non sarebbe stata possibile, sia del sistema sanitario pubblico, che ha reso disponibili le proprie strutture. Bisogna quindi trovare un accordo che, per quanto sopra esposto, non può che condurre a una normalizzazione della ricerca clinica rispetto agli altri settori della ricerca scientifica. Pertanto le riviste più importanti non pubblicheranno più lavori in cui lo sponsor abbia il controllo assoluto dei dati o nel cui protocollo siano contemplate clausole circa la decisione unilaterale di pubblicazione dei risultati. Non è certamente la soluzione del problema, ma un passo avanti di indubbia importanza. Una presa di posizione in tal senso di tutti i comitati etici (autorizzazioni solo alle ricerche i cui protocolli accettino tali condizioni) potrebbe rappresentare un ulteriore contributo all'indipendenza della ricerca clinica dallo sponsor, restituendo così serenità ai ricercatori e ai pazienti. Altri due importanti contributi pubblicati recentemente riguardano lo scenario regolatorio internazionale sui farmaci antitumorali (McVie JG. Are European cancer patients getting a fair deal? Ann Oncol 2001; 12: 1033-5; Garattini S, Bertelè V. Adjusting Europe's drug regulation to public health needs. Lancet 2001; 358: 64-7). La politica della FDA sui farmaci antitumorali è chiara: con la giustificazione di accelerare il processo di approvazione dei nuovi farmaci e di rendere accessibili ai pazienti americani i farmaci sperimentali già in uso in altri Paesi come l'Europa, dal 1996 la FDA ha approvato nuovi farmaci solo sulla base dell'effetto sul tumore cioè sul riscontro dell'induzione anche solo di risposte parziali. Ovviamente la FDA si riserva di chiedere al produttore di eseguire ulteriori studi sul farmaco, dopo la sua introduzione in commercio, al fine di meglio definirne la vera utilità e cioè l'impatto sulla sopravvivenza e sulla qualità di vita dei pazienti.
Tanto per dare un'idea più precisa ai lettori, i farmaci approvati dalla FDA con procedura accelerata in base alla dimostrazione che inducevano risposte parziali sono: capecitabina nel carcinoma della mammella resistente al paclitaxel e a regimi contenenti antracicline; docetaxel nel carcinoma della mammella resistente alla chemioterapia con antracicline; irinotecan nel carcinoma del colon-retto metastatico che ha recidivato o progredito dopo fluorouracile; temozolomide nell'astrocitoma anaplastico che ha recidivato o in progressione dopo nitrosourea; gemtuzumab nella leucemia mieloide cronica in prima ricaduta in pazienti non candidati alla chemioterapia; imatinib nella terapia di tutte le fasi della leucemia mieloide cronica. Con procedura standard sono stati invece approvati altri farmaci tra i quali trastuzumab per il carcinoma della mammella resistente alla chemioterapia o in prima linea associato a paclitaxel; topotecan per il carcinoma ovarico metastatico dopo il fallimento della chemioterapia con il cisplatino + paclitaxel; valrubicina per il trattamento endovescicale del carcinoma in situ della vescica resistente al BCG e non operabile; bexarotene nel trattamento dei linfomi cutanei a cellule T in pazienti resistenti a una precedente terapia e rituximab nei linfomi non-Hodgkin a basso grado di malignità recidivato o resistente alla chemioterapia. Nel primo dei due articoli sopra citati, Gordon McVie, approvando in pieno la politica della FDA, sferra un duro attacco alla politica dell'EMEA accusandola di "far correre il rischio ai pazienti europei di privarli di efficaci opzioni terapeutiche che sono disponibili in altri Paesi". Di fatto, l'EMEA, a differenza della FDA, non accetta endpoint surrogati per l'approvazione dei farmaci antitumorali se non in circostanze eccezionali: la gravità della malattia, l'assenza di una terapia appropriata e l'anticipazione di un alto indice terapeutico (finora solo due farmaci antitumorali sono stati così approvati). E' ovvio che l'industria farmaceutica preme per ottenere l'approvazione dei farmaci dopo la fase II, adducendo la necessità di non privare i pazienti di farmaci che possano dare loro un vantaggio. Però, dopo la commercializzazione possono insorgere difficoltà nell'eseguire studi controllati, in quanto si rischia che il nuovo farmaco diventi quello di confronto per altri nuovi farmaci antitumorali, o addirittura di considerare innovativo un farmaco anche in assenza di prove sufficienti di efficacia (Garattini S. A proposito della politica della FDA e dell'EMEA sui farmaci antitumorali. "Técne" 1999; 3: 224). Per quanto riguarda l'approvazione dei farmaci oncologici, la FDA ha una Divisione (Division of Oncology Drug Products) che valuta le richieste di approvazione e il cui staff ha esperienza in oncologia. Il tempo mediano di approvazione di un nuovo farmaco nel 1999 è stato di 12 mesi e dal giugno 1996 al giugno 2000 sono state 43 le nuove approvazioni (di cui 6 accelerate). Per quanto riguarda invece l'EMEA, la pratica per l'approvazione è sottoposta da rapporteurs di cui, in genere, uno suggerito dall'industria farmaceutica, del Committee for Proprietary Medicinal Products (CPMP), che possono o meno avere esperienza in oncologia; il tempo mediano per l'approvazione dei farmaci oncologici nel 1999 è stato di 16,3 mesi e dal 1995 al 1999 sono stati approvati 15 farmaci oncologici. E' chiaro, quindi, come tra i due enti ci siano state differenze importanti nell'approvazione dei farmaci antitumorali; ma a parte i tempi di approvazione, che vanno ovviamente migliorati a livello europeo, il non aver immesso sul mercato farmaci di non documentata efficacia (la risposta parziale come endpoint surrogato è fortemente discussa; si veda Ballatori E. Endpoint composti ed endopoint surrogati nella ricerca clinica oncologica. "Técne" 2001; 5: 12-3) ha veramente privato i pazienti di valide opzioni terapeutiche, come sostiene McVie? Ed è giusto che il sistema sanitario nazionale debba pagare farmaci di non documentata efficacia? (Ovviamente negli Stati Uniti le assicurazioni aumentano i premi e tali farmaci vengono rimborsati senza problemi). Vediamo adesso altre differenze tra la FDA e l'EMEA su cui si è soffermato McVie.
Primo, il coinvolgimento dei pazienti o delle loro associazioni nel processo di approvazione dei farmaci. La FDA ha un Cancer Liaison Program per informare i pazienti e i familiari su:
le terapie per il cancro;
l'approvazione dei farmaci oncologici; gli studi clinici sulle neoplasie;
l'accesso alle terapie sperimentali.
La FDA inserisce pazienti nel FDA Oncology Drug Advisory Committee (ODAC) che dà suggerimenti sui farmaci alla Division of Oncology Drug Products. L'attuale legislazione dell'EMEA invece non prevede che pazienti neoplastici o loro organizzazioni siano consultati o partecipino alle riunioni del CPMP.
Secondo, lo sviluppo dei farmaci antitumorali: la FDA deve approvare lo sviluppo di tutti i nuovi farmaci e stimola incontri con l'industria produttrice durante gli studi clinici con lo scopo di conoscere precocemente i problemi che si hanno con il farmaco. Invece, nel caso dell'EMEA, lo sviluppo dei nuovi farmaci non deve essere approvato dal CPMP; tra il 1995 e il 1999 solo 13 di 224 farmaci di cui è stata richiesta l'approvazione avevano preventivamente ottenuto il parere del CPMP. Garattini e Bertelè sostengono che non è corretto che soggetti della stessa organizzazione (EMEA) diano consulenza all'industria sul modo migliore di sviluppare i farmaci e decidano poi sull'approvazione degli stessi. Anzi, questa consulenza scientifica non dovrebbe essere un'attività sistematica dell'EMEA e dovrebbe essere fatta più su iniziativa del CPMP che a richiesta dell'industria farmaceutica.
Terzo, la disponibilità dei farmaci approvati: mentre per la FDA un farmaco approvato è immediatamente disponibile per i pazienti, nel caso dell'EMEA, purtroppo, dato che il prezzo dei farmaci approvati centralmente è stabilito dai governi locali, i pazienti non hanno immediatamente a disposizione tali farmaci, ma addirittura si calcola un ritardo medio, assolutamente ingiustificabile, di circa 2 anni.
Quarto, la trasparenza delle procedure: nel caso della FDA ogni meeting è aperto al pubblico e le relazioni presentate sui nuovi farmaci sono disponibili sul sito web; nel caso dell'EMEA tutti i meeting sono chiusi al pubblico ed è difficile conoscere chi vi ha partecipato e ottenere informazioni circa i problemi discussi.
Quinto e ultimo aspetto, la collaborazione con esperti: nel caso della FDA, alle riunioni dell'ODAC possono partecipare esperti, le cui raccomandazioni sono di norma riportate dai media; nel caso dell'EMEA, il CPMP non è obbligato a ottenere il parere di esperti sui farmaci da approvare anche se può utilizzare esperti nominati dalle agenzie regolatorie nazionali.
L'articolo di Garattini e Bertelè sottolinea il grande vantaggio di avere da 5 anni una procedura centralizzata per ottenere l'approvazione dei farmaci: una politica omogenea che comporta un notevole risparmio di energie e di tempo per le industrie produttrici. L'articolo sottolinea però due importanti preoccupazioni.
La prima dovuta al fatto che molti studi presentati per autorizzare al commercio nuovi farmaci riguardano farmaci me-too e questi sono studi di equivalenza (o di non inferiorità) più che studi tesi a dimostrare la superiorità di un farmaco rispetto ad un altro, e, com'è ben noto, gli studi di equivalenza pongono problemi etici. Infatti, la randomizzazione assegna una parte dei pazienti ai rischi del nuovo trattamento senza che questo offra potenziali maggiori benefici in termini di efficacia del trattamento alternativo. Perciò tali studi dovrebbero essere programmati ove il nuovo farmaco offra vantaggi in termini di tollerabilità, facilità d'uso o minor costo rispetto alle alternative già disponibili. La pianificazione di studi di equivalenza dovrebbe considerare la maggiore casistica necessaria rispetto a studi di superiorità per essere abbastanza certi di non ottenere risultati falsamente negativi.
La seconda preoccupazione riguarda le fonti di finanziamento dell'EMEA: un grant dalla Comunità Europea e l'industria farmaceutica che paga per la valutazione dei dossiers sui farmaci. La richiesta degli autori è ovviamente di avere sempre più fondi pubblici per permettere che l'agenzia sia sempre più libera e indipendente nei propri giudizi. Ciò permetterebbe all'EMEA di pianificare anche una propria ricerca farmacologica sull'utilizzo e sull'efficacia dei farmaci nella pratica clinica. Il problema dei fondi di finanziamento delle agenzie regolatorie è stato recentemente oggetto di forte conflitto tra Richard Horton, l'editore del Lancet, e la FDA che è stata accusata di essere al servizio dell'industria farmaceutica. Secondo Horton, la dipendenza è economica in quanto la FDA vive soprattutto grazie ai fondi che provengono dall'industria (Horton R. Lotronex and the FDA: a fatal erosion of integrity. Lancet 2001; 357: 1544-5; The FDA and The Lancet: an exchange. Lancet 2001; 358: 415-8).
Infine, poniamo all'attenzione dei lettori i risultati di uno studio che ha analizzato le priorità con cui si è deciso di rimborsare 14 nuovi (costosi) farmaci antitumorali da parte del servizio sanitario canadese (Martin DK, Pater JL, Singer PA. Priority-setting decisions for new cancer drugs: a qualitative case study. Lancet 2001; 358: 1676-81). Lo studio evidenzia che le analisi costo-efficacia non sono alla base di tali priorità, proprio in quanto spesso non sono disponibili. Anzi, la commissione composta da amministratori, oncologi, ricercatori, un farmacista, un esperto di bioetica e rappresentanti dei malati e del pubblico ha basato le proprie scelte sul beneficio clinico indotto ai pazienti da ogni nuovo farmaco, ponendo ai primi posti la possibilità di guarire o di prolungare la sopravvivenza, di migliorare la qualità di vita, e, nel caso di espansione del budget, anche di ottenere una riduzione delle dimensioni del tumore o della tossicità. Oltre l'efficacia dei trattamenti, sono stati considerati anche altri fattori, quali la disponibilità di alternative terapeutiche, la comodità della loro somministrazione, e così via.
Un editoriale di presentazione di questo lavoro scritto da un oncologo irlandese (Crown J. A "bureausceptic" view of cancer drug rationing. Lancet 2001; 358: 1660) commenta la scelta di buon senso della commissione canadese accusando il sistema sanitario inglese "di aver fatto soffrire inutilmente i pazienti e di averli fatti morire prematuramente a causa dei ritardi con cui sono stati approvati e rimborsati i nuovi farmaci antitumorali". Vi risulta che le indicazioni con cui i farmaci sopra riportati sono stati approvati dalla FDA possano ridurre la mortalità per cancro? Sono purtroppo solo terapie palliative il cui rimborso da parte di un sistema sanitario pubblico è giustificato quando dimostrino un beneficio reale per il paziente (vedi irinotecan, in combinazione con acido folinico e fluorouracile, in prima linea nel carcinoma del colon-retto metastatico).
Questo articolo, con qualche modifica, è stato tratto da "Técne" 2002, vol.6, n. 1. Si ringraziano il Dr. Fausto Roila e Dr. Enzo Ballatori per la gentile collaborazione.