In questo ultimo numero dell'anno di Informazioni sui Farmaci, che raccoglie due numeri in uno per concludere l'annata, ci è parso bello ricordare Alessandro Liberati che, molto prematuramente, il 1° Gennaio 2012 ci ha lasciati dopo una dura ma serena lotta contro il mieloma. Anche se non è stato attivamente coinvolto nella nostra rivista, con molti della redazione ha avuto un fertile scambio di idee nel corso degli ultimi 20 anni o più. In particolare, gli editoriali di Gianni (Tognoni) erano motivo di appassionate discussioni (quantomeno tra noi due). Ad Alessandro dobbiamo l'introduzione in Italia del movimento della evidence-based medicine (EBM) e della evidence-based health care (EBHC) e più in particolare delle revisioni sistematiche/metanalisi e delle linee-guida, ma ritengo che questo sia forse riduttivo rispetto all'averci mostrato in molti seminari, workshop e nel sistema di relazioni costruito negli anni, che apparteniamo a una medesima comunità di ricercatori, anzi, a una comunità della ricerca che dovrebbe essere maggiormente consapevole del proprio ruolo e responsabile dei propri limiti e delle incertezze che non sempre contribuisce a ridurre e anche maggiormente in contatto con la cosiddetta società civile. Il grafico che abbiamo disegnato tenta una raffigurazione di tre diversi livelli di attività che hanno caratterizzato il lavoro di Alessandro in questi anni:
-al centro, il filone più legato all'evidence-based medicine ovvero gli studi clinici, le revisioni sistematiche e le linee-guida con alcune specifiche attenzioni: alle domande o aree grigie di partenza, alla trasparenza nella costituzione dei gruppi di lavoro più o meno multidisciplinari e alla importanza della implementazione e del contesto locale. Nella figura abbiamo elencato alcuni degli amici o ospiti stranieri (per non elencare i molti ricercatori e amici italiani) del movimento EBM più spesso coinvolti da Alessandro in corsi (i vari Master dell'Università di Modena in EBM prima e Governance della ricerca successivamente) e workshops (in particolare quelli annuali del Centro Cochrane Italiano): per primi ricordiamo Dave Sackett, Gordon Guyatt e Iain Chalmers veri e propri pensatori e iniziatori del movimento EBM con cui Alessandro riusciva ad avere un rapporto diretto e un confronto diretto sugli approcci metodologici suggeriti. Per restare nella Cochrane Collaboration, certamente Andy Oxman è stato un partner in molti progetti di ricerca cosi come Jeremy Grimshaw. Con altri come Trevor Sheldon c'è stata una vera e propria amicizia oltre che presenza a vari eventi. Tutti questi ricercatori sono stati più che semplici relatori invitati di volta in volta, ma sono diventati colleghi e amici sempre disponibili a rispondere prontamente a domande o richieste di diapo o di altro materiale.
-un secondo ambito "superiore", ciò che leggiamo e che di solito consideriamo come neutrale o già dato, riguarda come le riviste scientifiche internazionali hanno cercato in questi anni di migliorare la qualità delle conoscenze e degli studi pubblicati, principalmente riducendo il publication bias e migliorando l'accesso ai dati degli studi, spesso gravati da rilevanti conflitti di interesse che ne riducono fortemente la validità. Abbiamo citato alcuni dei ricercatori che hanno fatto fare passi avanti al sistema dei medical Journals nel corso degli ultimi 20 anni e che sono spesso stati coinvolti nei corsi e workshop organizzati da Alessandro. Kay Dickersin, presente alla inaugurazione del Centro Cochrane Italiano nel 1994 che ha documentato i danni del publication bias ovvero della mancata pubblicazione degli studi cosiddetti negativi e artificiosa amplificazione dei risultati positivi. Lisa Bero che, assieme a Marcia Angell, ha documentato i danni dei conflitti di interesse (CoI) in termini di conclusioni a favore del farmaco nuovo oggetto di sponsorizzazione e di come tentare di regolare le influenze negative dei CoI. Doug Altman, David Moher e anche il grande Drummond Rennie, che hanno fatto molto lavoro per migliorare gli standard di pubblicazione per i vari tipi di studi e migliorare la qualità e trasparenza complessiva del reporting (ovvero come sono scritti) dei lavori scientifici e spesso contribuito ai workshop e corsi di Alessandro: venivano sempre tutti volentieri e si mostravano generosamente e genuinamente interessati a partecipare e contribuire a quanto si cercava di fare a livello italiano.
-un terzo ambito riguarda l'orientamento della ricerca o meglio che cosa possono fare i sistemi sanitari e le agenzie che governano i fondi per la ricerca per ri-orientare la ricerca clinica verso ambiti più vicini ai bisogni informativi dei medici e soprattutto dei pazienti, che nella figura abbiamo definito quello che ci resta ancora da fare per una vera governance della ricerca, quindi come definire le priorità della ricerca più orientate ai bisogni reali dei pazienti, come coinvolgere i pazienti nelle cosiddette agende della ricerca, in particolare per quanto riguarda la scelta degli outcomes da valutare negli studi clinici, quali supporti metodologici organizzare per favorire e sostenere studi indipendenti, come andare oltre la semplice dichiarazione dei conflitti di interesse e altri temi legati appunto alla governance della ricerca nel suo insieme.
Come si vede nel grafico abbiamo messo solo gli amici e colleghi stranieri con cui ci si sentiva in contatto e parte di un gruppo per semplicità e forse maggiore leggibilità e non incorrere in colpevoli omissioni elencando solo alcuni dei molti italiani. Abbiamo infine pensato di affiancare questo ricordo alla traduzione dello stimolante editoriale sulla libertà clinica (citato da Tognoni nel precedente numero di ISF), scritto dal cardiologo inglese John Hampton, a distanza di quasi trent'anni da un precedente editoriale che IsF pubblicò nel 1983 dal titolo "La fine della libertà clinica" (vedi oltre). In quel primo editoriale si illustrava la necessità di utilizzare gli studi clinici randomizzati come strumento per la valutazione della efficacia dei nuovi trattamenti o interventi/ approcci sanitari mettendo da parte la libertà clinica come forma prevalente di approccio alle scelte cliniche. Nell'articolo, Hampton richiama il fatto di non avere avuto l'intuizione di catturare con un termine quel movimento che fu invece proposto come evidence-based medicine da Gordon Guyatt nel 1998 con evidente grande successo. Ci sono piaciute le cautele che Hampton richiama nel suo recente articolo che riflettono alcune riflessioni fatte anche con e da Alessandro: Hampton nelle sue conclusioni resuscita provocatoriamente la libertà clinica in nome di una ritrovata responsabilità dei clinici che le linee-guida rischiano di deresponsabilizzare e di indebolire anziché rafforzare nel loro ruolo. La posizione di Alessandro era da sempre contro le facili gerarchie o gerarchizzazioni degli studi ed era piuttosto per partire sempre dalle domande e di cercare di utilizzare al meglio le evidenze disponibili e discuterne la rilevanza, la pertinenza anche rispetto al contesto e ai diversi contesti cercando sempre di contribuire, quando possibile, a migliorarle. C'è stata chiara in Alessandro la consapevolezza di stare dentro un movimento forte e in qualche modo vincente come l'EBM e la Cochrane Collaboration, ma si è spesso speso per riportarlo alle sue premesse democratiche e partecipative con autentica passione civile. Quando i pozzi sono avvelenati inutile cercare nell'acqua la soluzione di tutti i nostri problemi: se gli studi pubblicati sono frutto di una distorsione complessivamente molto ampia e i dati sono a favore dei pochi finanziatori (ovvero l'industria farmaceutica) allora inutile nascondersi dietro le technicalities come la valutazione critica o la metanalisi che paradossalmente confermano o enfatizzano le distorsioni anziché smascherarle. Di qui l'invito spesso ripetuto di avere una visione più ampia per cogliere come a lui piaceva ripetere, "the big picture" ed evitare di "non vedere la foresta guardando i singoli alberi", una metafora leggera che a lui piaceva molto ... come molto gli piaceva la leggerezza di Giacometti e delle sue sculture ...
La necessità della libertà clinica
Adattato da: John Hampton. The need for clinical freedom. Int J Epidemiology 2011; 40: 849-852
"Nel 1983, la libertà clinica era il fondamento della professione medica: il medico aveva il dovere morale di fare ciò che credeva giusto per ogni singolo paziente, e i pazienti a loro volta erano felici di accettarne le raccomandazioni. Io sostenevo allora che non ci si potesse più permettere la spesa per l'acquisto dei nuovi farmaci, inevitabilmente più costosi dei precedenti, che la libertà clinica fosse un mito, un pretesto per l'ignoranza e che le terapie si dovessero basare sui risultati degli studi clinici. Ciò che auspicavo si è di fatto realizzato ma, a distanza di 27 anni, mi viene il sospetto che la libertà clinica debba essere reinventata. In quell'articolo non ho utilizzato la definizione "medicina basata sulle evidenze", che è entrata nella letteratura medica solo 9 anni più tardi, ma era proprio questo di cui stavo parlando. Il 1983 è stato l'anno che ha segnato la nascita degli studi clinici moderni, con un "prima" caratterizzato da studi per lo più inaccettabili secondo i canoni attuali e un "dopo" che ha visto una graduale evoluzione nel modo di progettare e condurre gli studi. Prima di quella data, persino i grandi progressi della medicina, come l'introduzione della penicillina, si erano basati su semplici studi osservazionali. Lo studio del Medical Research Council (MRC), che viene considerato una pietra miliare della medicina, aveva dimostrato l'efficacia della streptomicina nel trattamento della tubercolosi arruolando 100 pazienti, certo più per motivi economici che statistici; uno studio di confronto fra il trattamento ambulatoriale e quello ospedaliero dei pazienti con infarto miocardico, pubblicato sul British Medical Journal, era stato condotto su soli 260 pazienti; gli stessi studi realizzati sull'impiego dei beta-bloccanti nel post-infarto miocardico hanno coinvolto ciascuno tra i 100 e i 200 pazienti. Gli statistici erano ben consapevoli dell'importanza delle dimensioni degli studi, ma per qualche ragione fino ad allora non erano riusciti a farlo capire ai medici. Poi, nel 1986 sono arrivati lo studio ISIS-1 sull'atenololo nel post-infarto condotto su 16.000 pazienti e nel 1988 lo studio ISIS-2 sulla streptokinasi che ha arruolato 17.000 pazienti. In quegli anni, gli studi clinici venivano realizzati per lo più in Inghilterra, poiché negli Stati Uniti si pensava fosse impossibile condurre studi nell'ambito di un sistema sanitario privato stante la presumibile riluttanza dei medici a cedere il controllo dei loro pazienti ai ricercatori clinici. Quando, a partire dagli inizi degli anni '90, anche gli americani si sono convinti dell'importanza degli studi clinici, le dimensioni degli studi (con i loro acronimi a volte spiritosi) sono cresciute rapidamente.Nel 1996, Sackett ha dato questa definizione della medicina basata sull'evidenza: "l'uso giudizioso delle migliori evidenze disponibili per prendere decisioni sui singoli pazienti, ossia integrare la propria esperienza clinica con le migliori evidenze prodotte dalla ricerca sistematica". Per esperienza clinica si intende "la competenza e la capacità di giudizio che i medici acquisiscono nella loro pratica professionale gestendo con attenzione e coinvolgimento situazioni cliniche particolarmente complesse". La medicina si è orientata sempre di più verso la ricerca delle migliori evidenze disponibili perdendo però di vista l'enfasi che Sackett aveva voluto porre sulla "gestione dei singoli pazienti": lo studio randomizzato è diventato l'unico standard di riferimento per giudicare se un trattamento apporta più benefici che rischi. Gli studi clinici sono diventati così sempre più grandi e più costosi, quasi insostenibili economicamente dalle stesse industrie farmaceutiche. A quel punto è stato necessario escogitare il modo per ottenere risultati statisticamente significativi anche da piccoli studi: uno è stato, ad esempio, quello di usare misure di esito multiple e surrogate. Il problema degli endpoints surrogati, tuttavia, sta nel fatto che non sempre ciò che sembra avere senso è vero, come ha ben dimostrato nel 1989 lo studio CAST (Cardiac Arrhythmia Suppression Trial). Realizzato sull'ipotesi che eliminando l'aritmia, principale causa di morte nei pazienti con malattia coronarica, si sarebbe evitata la morte, lo studio ha in realtà dimostrato, come confermato da studi successivi, che gli antiaritmici anziché ridurla aumentano la mortalità. Altri farmaci, introdotti in commercio in base alla capacità di ridurre misure di esito surrogate, rivelatisi poi un fallimento, sono stati ad esempio la sibutramina, che si sperava riducesse gli infarti controllando l'obesità (mentre in realtà li aumentava) e il rosiglitazone, sviluppato e registrato per controllare gli effetti pericolosi del diabete di tipo 2. Tanto che anche il British Medical Journal ha pubblicato un editoriale dal titolo "Gli endpoints surrogati non sono sufficienti: benefici e i rischi devono fondarsi su solide evidenze", come se si trattasse di un concetto nuovo. Utilizzare misure di esito multiple per aumentare la potenza di uno studio si è rivelato altrettanto pericoloso, perché può esserci un effetto positivo su un endpoint e uno negativo su un altro.Si è andata quindi affermando l'idea che si dovesse utilizzare la mortalità come unico vero endpoint, aprendo subito il dibattito su quale tipo di morte includere nei risultati dello studio. Anche questa è sembrata una soluzione troppo semplicistica: diversi farmaci ad esempio, pur aumentando la mortalità, hanno dimostrato di migliorare i sintomi dell'insufficienza cardiaca e alcuni pazienti potrebbero preferire una vita più breve, ma qualitativamente migliore. Alla fine lo strumento elettivo per produrre evidenze è stato individuato nelle metanalisi: mettere insieme più studi può essere utile, a condizione che vengano inclusi studi con caratteristiche simili e che si possa arrivare a conclusioni intelligenti. Per esempio, le metanalisi condotte sugli antiaggreganti nei pazienti con malattia coronarica avevano messo in evidenza i vantaggi dell'inibizione piastrinica, ma ciò non si è poi rivelato utile nel trattamento del singolo paziente dal momento che le metanalisi avevano cumulato studi effettuati con farmaci diversi, somministrati a dosi diverse. Per il medico una cosa è sapere che un gruppo di farmaci è utile in linea di principio, altra cosa è sapere quale paziente trattare, con quale farmaco di un determinato gruppo e a quale dose. Effettuare una metanalisi mal impostata equivale a sommare mele e arance e attribuire gli effetti alla frutta! Le metanalisi possono risultare addirittura fuorvianti. Secondo una metanalisi condotta su diversi studi, magnesio e nitrati endovena riducevano la mortalità nei pazienti con infarto miocardico acuto. Uno studio importante di ampie dimensioni, l'ISIS-4, ha invece dimostrato in modo inequivocabile che entrambi i farmaci non sono efficaci in questa condizione. Inoltre, una revisione effettuata su 19 metanalisi ha dimostrato che, in assenza di studi appropriati di ampie dimensioni, il risultato delle metanalisi avrebbe portato all'adozione di un trattamento utile solo nel 30% dei casi, in un altro 30% all'adozione di un trattamento inefficace, e in un altro 30% a non adottare un trattamento in realtà utile. Come può il medico che cerca di attenersi alle evidenze scientifiche decidere quale studio clinico applicare al suo paziente? Gli studi clinici spesso escludono pazienti anziani e quelli con altre patologie. Ad esempio, dal registro di uno studio di confronto fra angioplastica e bypass coronarico in pazienti con angina è emerso che solo il 3% dei possibili pazienti era stato randomizzato. A questo punto viene proprio da pensare che forse dovremmo parlare più di medicina basata sull'opinione che di medicina basata sull'evidenza. Detto questo, è comunque vero che non si può prescindere dagli studi clinici; l'importante tuttavia è riconoscere i loro limiti. Gli studi clinici sono indispensabili, non solo per valutare se un farmaco è efficace, ma anche per scoprirne gli effetti indesiderati. Il farmaco anti-obesità rimonabant, ad esempio, è stato registrato in diversi paesi sulla base di una serie di piccoli studi che dimostravano la sua efficacia nel ridurre il peso e conseguentemente il rischio di malattia coronarica. Tuttavia un ampio studio (18.000 pazienti) disegnato per valutare l'efficacia del farmaco nel ridurre alcuni endpoints cardiovascolari è stato sospeso prematuramente poiché si è scoperto che causa effetti indesiderati psichiatrici e neuropsichiatrici, cosa che ha portato al suo ritiro dal mercato. Anche se nella capacità di definire l'efficacia e la sicurezza di un farmaco gli studi clinici non hanno alternative, le risposte che producono non aiutano a scegliere il trattamento migliore per il singolo paziente. Facciamo l'esempio del warfarin nei pazienti anziani con fibrillazione atriale. Il principale rischio della fibrillazione atriale è l'ictus. La maggior parte dei pazienti con fibrillazione atriale è anziana: ne soffre il 12% dei soggetti con più di 75 anni. Lo studio BAFTA (Birmingham Atrial Fibrillation Treatment of the Aged Study) ha randomizzato circa 1.000 pazienti con più di 75 anni al trattamento con warfarin o aspirina: la percentuale di ictus è risultata dimezzata (1,8 vs 3,8%) nel gruppo trattato col warfarin. Anche se altri studi hanno suggerito un rischio di sanguinamento significativo con warfarin, in questo studio il rischio di sanguinamento non è risultato molto differente tra i due gruppi. Come applicare alla generalità dei pazienti anziani i risultati dello studio BAFTA? Se da un lato è vero che gli anziani hanno patologie multiple che necessitano di politerapie, è vero anche che si muovono poco e questo può rendere difficile un controllo accurato del loro INR, rendendo l'uso del warfarin più pericoloso e potenzialmente meno benefico. L'unica possibilità che un medico ha di decidere come trattare un paziente anziano con fibrillazione atriale è usare il suo giudizio clinico (ovvero fare un respiro profondo e sperare di prenderci) in merito ai possibili rischi o benefici del warfarin. Quando ho scritto il primo articolo ero preoccupato dei costi crescenti dei nuovi trattamenti e "della limitatezza delle risorse in una economia che non poteva espandersi all'infinito", facendo un appello al bisogno di evidenze. Di evidenze ora ne abbiamo molte anche se non sempre facili da interpretare. La medicina ha costi sempre più elevati e i finanziamenti sono aumentati considerevolmente, ma l'affermazione generale rimane vera. Il quadro d'insieme tuttavia è più complesso. L'evidenza ha portato ad una molteplicità di linee guida e in Inghilterra alla nascita del NICE (National Institute for Health and Clinical Excellence). Le linee guida del NICE non sempre trovano il consenso degli specialisti inglesi, ma nello stesso tempo i clinici sono scettici ad utilizzare farmaci non approvati dal NICE. La maggior parte dei clinici ritiene che le linee guida servano per essere seguite ciecamente dagli sciocchi e per guidare i saggi. I trattamenti sono così diventati precisi protocolli e nel contesto di un servizio standardizzato i medici non hanno più il coraggio di impegnarsi sui singoli pazienti. La convergenza di tutte queste cose - linee guida per la prescrizione basate sull'evidenza (o dovremmo dire "sull'opinione"), comportamento dei medici e aspetti economici-quasi come una "tempesta perfetta", nella cultura medica ha determinato la rinuncia alla responsabilità nei confronti dei singoli pazienti. Abbiamo bisogno che la cultura medica cambi e che i medici usino la loro discrezionalità nel valutare le evidenze pubblicate per scegliere il miglior trattamento per ogni singolo paziente. Insomma, dobbiamo ritornare alla libertà clinica.