Il MMG, tra certezze (poche) e dubbi (molti), è abituato a mediare, modulare la propria azione tenendo conto del contesto e dei diversi valori in gioco, individuali e collettivi. Spesso il suo compito è complicato da indicazioni e limitazioni che, nate per agevolare il suo lavoro, in pratica lo rendono ancor più difficoltoso. Un esempio è la recente rivisitazione della nota 13 AIFA, la cui formulazione imperativa determina possibili conseguenze pesanti in ambito medico legale e relazionale. Nella nota viene confermato un concetto ormai acquisito: l'approccio treat- to- target. Soprattutto in prevenzione secondaria, ma non solo, si ritiene che sia possibile ottenere un grande beneficio clinico riducendo il colesterolo LDL a valori molto bassi. Ciò significa anche un utilizzo del farmaco svincolato da concetti evidentemente "superati" come quello di ipercolesterolemia e anche una difficile sintesi tra teorica riduzione massimale dei rischi e sua realizzabilità terapeutica nella real life.
Per raggiungere i target proposti in prevenzione secondaria è infatti indispensabile un approccio intensivo, dato che la terapia standard, con i farmaci efficaci su end point clinici, ottiene i livelli raccomandati in circa il 50% dei pazienti. Raggiungere livelli di LDL ancora minori richiede un aumento del dosaggio o l'aggiunta di un secondo farmaco, obiettivi non facilmente realizzabili, soprattutto negli anziani, in presenza di politerapie. Tali raccomandazioni non sono peraltro esenti da criticità "di fondo", ad esempio l'assenza di studi disegnati per stabilire il livello target: in quelli esistenti infatti la randomizzazione ha riguardato la terapia, non i livelli di LDL, e l' associazione tra riduzione del colesterolo LDL e rischio CV deriva da analisi osservazionali estrapolate, post-hoc. Lo stesso apparentemente indiscutibile concetto del colesterolo LDL come target principale è messo in discussione, tanto che autorevoli esperti hanno inviato una lettera aperta agli estensori del prossimo aggiornamento delle linee guida americane (ATP IV), appartenenti ai National Institutes of Health, invitandoli ad abbandonare tale strategia.
I valori target in prevenzione primaria sono più facilmente raggiungibili, ma in questo caso sono inevitabili riflessioni di tipo diverso. La nota in oggetto si allinea alla tendenza attuale a realizzare una sorta di fusione delle strategie di prevenzione cardiovascolare basate sul basso e alto rischio, in particolare quando propone target di colesterolo LDL molto bassi in soggetti a rischio moderato-basso, con rischio di sovratrattamento. Tale approccio si basa infatti su assunti non dimostrati e su obiettivi spesso incoerenti e confusi. Nonostante molte metanalisi e singoli trial, esiste di fatto una sostanziale incertezza sull'efficacia delle statine sulla mortalità totale nei pazienti in prevenzione primaria,. L'unica metanalisi che ha completamente escluso i pazienti con anamnesi positiva per pregressi eventi cardiovascolari non ha dimostrato un rapporto significativo tra riduzione della colesterolemia e mortalità, ritenuta da molti l'evento più affidabile per valutare l'efficacia clinica di un farmaco in ambito cardiovascolare in quanto meno soggetta a distorsioni, ad esempio da "perdita di cecità". D'altro canto gli eventi non fatali hanno un impatto notevole sulla qualità di vita e sul burden assistenziale che ne consegue. Purtroppo se neppure per un parametro come la mortalità globale sono disponibili dati certi, per gli eventi non fatali la situazione è ancora più confusa. La mancanza di prove sulla efficacia delle statine in prevenzione primaria nei soggetti a rischio medio-basso dovrebbe stimolare ad investire maggiormente in strategie di popolazione, multifattoriali, non farmacologiche, anziché continuare ad abbassare le soglie di "tollerabilità" del rischio. L'efficacia clinica di alcuni dei farmaci proposti, ad esempio l'ezetimibe, non è peraltro ancora dimostrata, come anche la sicurezza. Recenti studi evidenziano un effetto diabetogeno classe-specifico per le stesse statine, tanto che, soprattutto in prevenzione primaria e in soggetti ad alto rischio di sviluppare diabete, al loro utilizzo sembra associato un rapporto benefici/rischi sfavorevole. L'attuale formulazione della nota 13 si basa sul punteggio SCORE, proposto dalle linee guida ESC/ASC, che stima il rischio di eventi cardiovascolari fatali a 10 anni su popolazioni a basso rischio. Sicuramente positiva la ricomparsa della valutazione probabilistica anziché "sommatoria", come nella precedente edizione della nota in oggetto, per la possibilità di graduare il livello di rischio. Peraltro, è difficile comprendere l'utilizzo di carte diverse da quelle del progetto CUORE, adoperate da anni e sviluppate sulla base di dati ottenuti sulla nostra popolazione. La revisione viene giustificata dalla necessità di adeguamento alle ultime linee guida ESC/ASC ma poi queste non vengono seguite in molti punti, ad esempio dove ricordano l'importanza della flessibilità nella stratificazione, considerando fattori quali deprivazione, sedentarietà, obesità centrale. La mancata considerazione di tali parametri ha diverse giustificazioni, ad esempio la correlazione della obesità con altri fattori di rischio, le difficoltà di standardizzare il livello di attività fisica, però una maggiore attenzione a tali fattori sarebbe utile, soprattutto quando si enfatizzano altri come i trigliceridi, non menzionati nelle tabelle di rischio, o le apoB, di cui non si conoscono i target di riferimento. Non viene inoltre tenuto conto della possibile sopravvalutazione del rischio cardiovascolare negli anziani e della sottovalutazione nei giovani mentre nelle stesse linee guida europee si propongono tabelle ad hoc per la valutazione del rischio relativo. La lettura della nota evidenzia inoltre altre criticità, alcune delle quali si presume vengano rapidamente individuate e corrette, ad esempio esistono ambiguità nella definizione e gestione del rischio "medio" (SCORE 1-5%), non contemplato nelle linee guida europee. In alcuni punti si propone il target LDL < 130, in altri sembra sia indicata solo la modifica dello stile di vita e la rivalutazione a 6 mesi. Le dislipidemie familiari vengono definite a volte a rischio moderato, alto in altre parti. Vengono utilizzati valori diversi rispetto alle linee guida ESC/EAS per la stratificazione del rischio in alto/ molto alto (10-14% e >= 15% versus 5-10% e >= 10%).
Conclusioni
Queste considerazioni pongono seri dubbi sull'utilizzo "allargato" delle statine in prevenzione primaria indotto dalla nota e richiamano la necessità di soppesare con particolare attenzione reali benefici e possibili effetti indesiderati, anche culturali, quali la tendenza alla medicalizzazione e l'idea implicita che con una pillola si possa risolvere il problema del rischio cardiovascolare senza particolare impegno nel modificare lo stile di vita. Tale incertezza decisionale provoca ulteriori criticità nella comunicazione con il paziente, in un ambito, quello cardiovascolare, il cui linguaggio è difficilmente condivisibile tra medico e paziente, perché basato su numeri mentre la maggioranza dei pazienti presenta un livello di alfabetizzazione matematica e statistica molto basso. Inoltre, mentre le persone malate richiedono in genere un intervento medico, nel caso di una condizione di rischio in prevenzione primaria l'intervento è in genere non sollecitato. Deve pertanto essere condiviso, ancora più che in presenza di malattia, con il paziente, correttamente informato.
Bibliografia di riferimento
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Data di Redazione 12/2012