L’influenza è una delle patologie di più esclusiva competenza dei medici di famiglia. La letteratura medica in proposito è piuttosto scarsa, se si escludono i numerosi studi e revisioni critiche sull’efficacia del vaccino. A distanza di qualche mese dalla fine dell’epidemia influenzale, vale forse la pena raccogliere, sia pure in forma aneddotica, alcune riflessioni sulla sua gestione nella medicina generale.
La vaccinazione
La vaccinazione antiinfluenzale è divenuta da molto tempo quasi un rituale medico del tardo periodo autunnale, negli ultimi anni in abbinamento al vaccino antipneumococcico, meglio noto tra i pazienti con l’ottimistica e del tutto infondata definizione di “vaccino contro la polmonite”. Se si chiedesse ai medici di medicina generale un’opinione sull’efficacia dell’antiinfluenzale, si avrebbero probabilmente pareri discordanti da un estremo all’altro. Ovviamente il giudizio basato su impressioni personali non fa testo, tuttavia le prove di efficacia della vaccinazione ottenute da studi metodologicamente più affidabili (oltre che i pareri di esperti) non sono meno discordanti. Stando alle revisioni disponibili, l’efficacia nella popolazione anziana non istituzionalizzata, cioè il target abituale dei medici di medicina generale, è tutt’altro che entusiasmante. La vaccinazione viene però raccomandata dal Ministero della salute e dalle maggiori istituzioni internazionali, forse perché su grandi numeri anche piccoli vantaggi meritano di essere perseguiti, e tanto basta per non metterla in discussione come indicazione di sanità pubblica. Negli ultimi anni c’è stata tuttavia una proporzionalità inversa tra l’intensità delle raccomandazioni istituzionali, veicolate anche da campagne pubblicitarie, e il numero di vaccinati: emblematico e clamoroso il caso del 2009, che ha messo a dura prova la credibilità persino dell’OMS o quantomeno della possibilità di fare previsioni attendibili sulla gravità della malattia. Difficile dire se questa correlazione inversa sia espressione, in Italia, della scarsa fiducia nelle istituzioni in generale, come qualcuno sostiene con un’ipotesi che però non spiega molto nello specifico. In generale le persone sembrano temere i vaccini a volte più di quanto non temano i farmaci, e l’ago della bilancia nel decidere se vaccinarsi o meno può essere facilmente spostato, di volta in volta, a seconda di quanto rumore facciano spinte contrarie o eventi critici contingenti. Se l’irragionevole propaganda di chi è contrario alle vaccinazioni per principio impatta probabilmente molto più – e con esiti più preoccupanti – su quelle infantili che sull’antiinfluenzale, certamente quest’anno la notizia di un decesso (uno?!) occorso dopo la vaccinazione ha avuto un effetto devastante, sia per il clamore, sia per il profilo giudiziario con cui l’evento è stato assai discutibilmente gestito. Chi è del mestiere ha capito subito la casualità dell’evento, normale ed atteso per l’ampiezza dei numeri (decessi mensili tra le persone anziane e numero di vaccinati, quasi tutti nel mese di novembre), ma la differenza non la fanno i calcoli statistici degli epidemiologi né l’autorità delle prove scientifiche, la fanno le storie che vengono raccontate al pubblico e i dubbi che sono in grado di suscitare in ciascuno. Per il singolo individuo che deve decidere, e che vede contrapporsi fin troppo vigorosamente le raccomandazioni istituzionali a coloro che paventano i rischi del vaccino se non misteriosi complotti, la possibilità di beccarsi l’influenza, eventualità di esperienza comune, finisce per risultare, tutto sommato, abbastanza serenamente sopportabile. “L’influenza fa parte della vita più che delle malattie” mi diceva un paziente rifiutando di vaccinarsi nel novembre scorso, con un’osservazione suggestiva e più condivisibile di altre, quali “Io non ho mai preso l’influenza”, oppure “Ho fatto il vaccino l’anno scorso e l’ho presa lo stesso”. Affermazioni a cui pure bisogna saper rispondere, spesso mescolando in modo comprensibile minimali informazioni scientifiche e inviti personalizzati: “Il vaccino protegge al 70%, non è mica come l’antipolio”; “Ci sono diversi tipi di influenza; il vaccino copre la più brutta, non tutti i raffreddori e i mal di gola”; “Certo, se si ammala non succede niente di grave, ma come fa da sola? Le tocca chiamare sua figlia per farle da mangiare, fare la spesa, portare fuori il cane…”. Nelle decisioni sulla prevenzione, la “normalità” della scelta è vincente sull’enfasi dei rischi della malattia, e dovrebbe esserlo anche nella comunicazione con cui si raccomanda la vaccinazione, perché la paura è un terreno in cui giocano in troppi e su cui non si costruisce mai nulla di buono. Sarebbe interessante verificare se c’è differenza nel numero di vaccinati in assenza di una promozione istituzionale, lasciando fare i medici di medicina generale, specialisti della parola, che potrebbero cavarsela abbastanza bene da soli con i loro assistiti. Del resto, quando si parla di “fiducia”, in medicina generale, non si fa retorica. Dopo l’evento mortale avvenuto in Sicilia, e l’indagine a carico anche del medico che aveva praticato il vaccino, quest’anno ne potrebbe risentire la propensione dei medici di medicina generale ad impegnarsi come sempre in un’attività onerosa che potrebbe essere percepita come foriera di imprevedibili rischi professionali, rari, ma da cui è aleatorio pensare di cautelarsi. Nella medicina generale è pochissimo usata la pratica di far firmare un “consenso informato”: l’elencazione di ipotetici (rarissimi) rischi, e la richiesta, con la firma, di una assunzione di responsabilità da parte del paziente, è certamente idonea, in linea di principio, più a suscitare dubbi che ad assicurare scelte consapevoli, e quindi può tendere a ridurre il numero dei vaccinati, se non altro perché di regola l’informazione messa (anche) per iscritto è più centrata sul vaccino che non sui variabili bisogni specifici dei singoli. La decisione del paziente “informato” è sovrana e insindacabile quale che sia, ma si dovrebbe tenere conto anche del significato che viene percepito quando una pratica è inusuale: se la medicina generale è il luogo della condivisione tra medico e paziente, certamente non è il luogo del consenso informato scritto, che le è estraneo per tradizione e per coerenza con le caratteristiche negoziali e di condivisione specifiche della professione. Una piccola nota, giusto per concludere il discorso sulla vaccinazione: “Anche da noi in questo periodo si fanno le vaccinazioni per l’influenza, ma noi mandiamo le infermiere: non ci possiamo mica permettere di farle fare ai medici”, mi diceva la nuora inglese di una mia paziente che ero andato a vaccinare a domicilio. Ma gli ultimi dati disponibili, risalenti al 2005, riportano che in Italia il rapporto tra medici di medicina generale e infermiere nei loro studi medici è di 39:1. Meglio non parlarne.
La malattia
Se si considera l’ampiezza dell’impatto che ha nella popolazione, l’influenza come evento clinico è un caso eclatante di gap tra conoscenze e pratica clinica. Certamente non avrebbe senso una prova sperimentale che sancisse come “evidence-based” ogni minimo comportamento professionale, ma sta di fatto che ogni anno 45.000 medici di medicina generale (più i pediatri) trattano qualche milione di pazienti in base a opinioni, convenienze ed esperienze professionali personali, che nessuno ha neppure mai tentato seriamente di descrivere, tantomeno di condividerle, e figuriamoci di dimostrarne l’utilità. Del resto, più che essere un oggetto di competenza medico-scientifica, l’epidemia influenzale è un ambito in cui un problema, semplice da affrontare sul piano strettamente clinico, si presenta (non sempre, ma spesso) con una complessità gestionale in cui giocano un ruolo rilevante la soggettività del paziente, le sue credenze ed esperienze precedenti, le informazioni dei media, la rete di riferimento profano e quant’altro. Sicuramente alcuni pazienti se la cavano benissimo senza neppure avvisare il medico, e allora lo si viene a sapere solo a posteriori (“Sì, ho avuto l’influenza, ma che vuole che sia… passa da sola!”), ma nei casi in cui si viene consultati (a volte solo telefonicamente, a volte chiamati per una visita a domicilio), l’evento influenzale è un terreno di intensa negoziazione, per la cui gestione non basta il (piccolo) bagaglio di conoscenze tecniche disponibili, secondo cui, in sintesi, meno si fa e meglio è.
L’esordio dell’epidemia, per esperienza comune dei medici di medicina generale, è classico: un bel giorno, all’improvviso, tante telefonate con i sintomi tipici: ci siamo, sta iniziando l’influenza. Di fronte al singolo caso, bisogna innanzitutto capire con che cosa si ha a che fare. La diagnosi è già di per sé empirica: febbre con sintomi influenzali, in corso di epidemia, in assenza di ipotesi alternative plausibili e - va ricordato - anche in assenza di sintomi inusuali nell’influenza, da ricercare sempre perché una diagnosi con criteri epidemiologici si deve innanzitutto mettere alla prova di possibili smentite, in particolare quando non viene effettuata una visita domiciliare e si deve fare affidamento solo sui sintomi riferiti. Ogni medico ha in proposito delle belle storie da raccontare: dal caso di malaria a quello di meningite, dalla oramai infrequente polmonite lobare alla più comune pielonefrite; casi che insegnano l’esercizio della cautela prima di attribuire alla malattia influenzale qualunque febbre in corso di epidemia. I sintomi non permettono comunque di distinguere tra la vera influenza e le cosiddette ILI, influenza-like illness, mentre l’affidabilità (e l’utilità) dei test sierologici al letto del malato con kit in commercio non è stata studiata abbastanza sul campo, ad esempio per decidere, quando eventualmente indicato, il ricorso agli antivirali, il cui uso in Italia da parte dei medici di medicina generale è trascurabile, né è chiaro se andrebbe incentivato o meno e in quali condizioni. Nelle malattie virali acute, la regola è che la terapia è solo sintomatica e “di supporto”, per lo meno se non vi sono antivirali specifici o non sono indicati. Le indicazioni sintomatiche e di supporto utili non si basano su prove scientifiche, ma sul buon senso individuale, del medico e del paziente. Tuttavia la febbre, di regola alta, impaurisce molto alcuni pazienti, e allora ci si sforza di rassicurare, di raccomandare di non “correre dietro alla febbre” con gli antipiretici, impegnandosi tramite metafore ben sedimentate nel proprio bagaglio professionale a far passare l’idea (sarà vera?) del significato “protettivo” dell’iperpiressia (“il virus viene d’inverno quando è freddo, perché muore al caldo, perciò la febbre lo elimina”), concetto abbastanza coerente con l’idea diffusa dei pazienti secondo cui, se la febbre è alta, l’influenza durerà meno (“meglio lasciarla sfogare”, è infatti opinione comune). Non è sempre facile, così come è curioso vedere pazienti extracomunitari, specie africani, che dicono di avere la febbre alta, ma spesso non l’hanno neppure misurata, perché per loro la febbre non è qualcosa che si misura, ma un’esperienza più complessiva di malessere generale. Può darsi che approfondire la variabilità delle pratiche in questo campo rientri più nella sociologia dei fatti di costume che non nella scienza, ma potrebbe interessare almeno come descrizione e riflessione sulla effettiva natura di una parte del lavoro dei medici di medicina generale. Diversa è invece l’importanza della terapia antibiotica, che alcuni usano quasi sistematicamente e altri tentano giustamente di prescrivere il meno possibile. Qualunque medico, di fronte ad un quiz in cui si chiedesse se nell’influenza gli antibiotici vanno usati o no, darebbe la risposta giusta, e naturalmente non si può escludere che faccia anche la cosa giusta abbastanza spesso: è facile, se non si ha di fronte un paziente in carne ed ossa. Ma per quanto si possa far leva sulla fiducia e sull’autorevolezza conquistata in anni di assistenza, la domanda del paziente non può mai essere del tutto ininfluente in un contesto negoziale come la medicina generale; è una domanda motivata da esperienze precedenti arbitrariamente generalizzate (“l’anno scorso ho avuto la polmonite”), dalla percezione di gravità della malattia (basata essenzialmente sull’entità della febbre), o anche dal comportamento abituale del proprio medico, per non dimenticare le situazioni occasionali in cui non si può mancare ad un impegno (la settimana bianca, l’esame all’università…), che spingono a richiedere l’antibiotico che, si sa, di solito non serve, ma magari vale la pena prenderlo solo questa volta “per sicurezza”, perché non si può rischiare. Talvolta qualche paziente ha già iniziato ad assumere un antibiotico – uno qualunque disponibile in casa propria o in quella del vicino – quando chiama il medico. Del resto, per il paziente, virus o batteri sono un argomento come un altro, di per sé non decisivo. L’impatto della domanda e delle aspettative del paziente nella decisione medica, piccolo o grande che sia, va poi moltiplicato per i numeri di una epidemia, e il risultato complessivo può divenire pesante. Di certo l’influenza cessa di essere un fatto banale nei diabetici, nei pazienti con scompenso o con una seria BPCO: rimane da definire se in qualche caso, in pazienti fragili a forte rischio, un trattamento antibiotico profilattico, rivolto a prevenire complicanze batteriche polmonari, potrebbe risultare utile, atteso che una diagnosi “tempestiva” di complicanza broncopneumonica si dovrebbe basare su un monitoraggio clinico tanto stretto quanto impraticabile, e peraltro notoriamente non del tutto affidabile senza conferma radiografica, a volte molto complicata da ottenere in un paziente in precarie condizioni e con difficoltà di spostamento. Il timing dell’insorgenza di complicanze, in particolare le broncopolmoniti, non è noto: può darsi che un’influenza che si protragga oltre 4-5 giorni senza segni di miglioramento, oppure che abbia un peggioramento (in particolare un rialzo febbrile) dopo 4-5 giorni si associ ad una probabilità maggiore di broncopolmonite, ma non c’è alcun dato a supporto di questa ipotesi, e peraltro non ci sono neppure dati sulla frequenza delle complicanze osservate nella medicina generale, né sulla possibilità di avere segni clinici predittivi di qualche rilevanza, quali ad esempio reperti auscultatori polmonari, andamento della febbre o altro. Per definizione, una complicanza è successiva all’evento patologico che la origina, ma in Italia i medici di medicina generale sono costretti a visitare i pazienti il primo giorno di malattia, se hanno bisogno di un certificato per l’astensione dal lavoro, come avviene di regola in quelli in età lavorativa, cioè la maggior parte dei colpiti dall’influenza. Se il dovere di effettuare una visita per poter redigere un certificato è ovvio sul piano giuridico, sul piano clinico visitare (spesso a domicilio) un paziente in età lavorativa (spesso giovane e non a rischio) sin dall’inizio della sindrome influenzale, rappresenta una cattiva e dispendiosa pratica professionale, la cui smisurata entità è documentata dai milioni di certificati redatti nel corso delle epidemie. Molto più utile sarebbe una visita, in assenza di miglioramento, dopo 3-4 giorni di malattia, per poter cogliere eventuali complicanze in fase iniziale, evitando la medicalizzazione di un problema solitamente banale, con il corollario di prescrizioni incongrue che si porta dietro. Ma purtroppo la bulimia burocratica prevale sulla appropriatezza clinica, assieme all’ipocrisia di pretendere visite sin dal primo giorno di malattia, per giunta in periodi epidemici, supponendo che si riduca così l’assenteismo.
Per concludere
L’unico specialista dell’influenza è il medico di medicina generale. Non si può negare che l’influenza sia un possibile oggetto di ricerca: sta quindi alla medicina generale produrre la conoscenza di cui ha eventualmente bisogno e che, in questo caso, non può essere prodotta da nessun altro. Certamente ci sono ambiti più rilevanti di cui occuparsi, e si può lecitamente ritenere che qualsiasi ricerca o indagine descrittiva in questo campo non produrrebbe scoperte rivoluzionarie, tuttavia ci sono molti aspetti della pratica clinica che andrebbero verificati o che sarebbe almeno interessante descrivere.
Ringrazio il dott. Vittorio Caimi per le utili osservazioni fornite nella stesura di questo articolo.