La pubblicazione di uno studio clinico randomizzato di grandi dimensioni che abbia prodotto risultati significativi comporta in genere una pausa di riflessione, necessaria ad interpretarne e trasferirne le implicazioni nella pratica clinica in modo corretto. E' questo il caso dello studio CURE, apparso su un numero di agosto 2001 del New England Journal of Medicine1, che, insieme al suo sottoprogetto PCI-CURE, pubblicato pure in agosto 2001 su Lancet2, impone alcune riconsiderazioni riguardo alla terapia di una parte importante delle Sindromi Coronariche Acute (ACS), l'angina instabile e l'infarto miocardico senza sopraslivellamento del tratto ST (ACS non ST). Per un inquadramento diagnostico nell'ambito delle sindromi coronariche (vedi figura 1). In realtà questo gruppo di ACS è stato e continua ad essere un campo di ricerca clinica piuttosto affollato, con una produzione di studi clinici di grandi dimensioni (anche se non sempre con risultati chiari) superiore a qualsiasi altro settore della medicina negli ultimi anni. Tant'è che i maggiori esperti, sulla base di quanto pubblicato nel corso dell'ultimo anno, di recente si sono sentiti in dovere di dare indicazioni per l'aggiornamento delle linee-guida diagnostico-terapeutiche delle ACS non ST3, che le più prestigiose società scientifiche cardiologiche, quali l'American College of Cardiology, l'American Heart Association, e la European Society of Cardiology avevano da poco messo a punto 4-6.
La terapia medica delle ACS non ST
Dal punto di vista epidemiologico l'angina instabile e l'infarto miocardico senza sopraslivellamento del tratto ST sono manifestazioni cliniche della malattia coronarica importanti quanto l'infarto miocardico ST e l'angina stabile. Il forte grado di attenzione clinica al problema è certamente legato al "mercato" sanitario creato dalla consapevolezza che la malattia coronarica rappresenta la prima causa di morte nei paesi occidentali ed è in forte crescita nei paesi emergenti. Una terapia complessiva accessibile e di costi contenuti è pertanto auspicabile. In vero, il nucleo terapeutico raccomandato da tutte le linee-guida ha queste caratteristiche, prevedendo, accanto a betabloccanti e nitrati come misure aggiuntive, l'impiego di un antiaggregante e di un anticoagulante come misure di base ben ratificate. Aspirina ed eparina erano e rimangono quindi la base terapeutica raccomandata.
Da qui la ricerca clinica si è sviluppata, focalizzandosi sulla possibilità di migliorare i risultati cIinici attraverso l'impiego di antiaggreganti e anticoagulanti sempre più potenti ed efficaci, ma ovviamente sempre più costosi.
Per quanto riguarda la terapia anticoagulante si sono fatti strada gli inibitori diretti della trombina (irulog e irudina, che hanno prodotto risultati interessanti, ma non abbastanza da rimpiazzare l'eparina, visti anche i costi elevati) e le eparine a basso peso molecolare che per quanto dimostratesi superiori al placebo, hanno ottenuto risultati contraddittori negli studi di confronto con l'eparina non frazionata: un discreto beneficio sugli outcome ischemici a 1-2 settimane dall'evento è stato evidenziato solo per l'enoxaparina, mentre dalteparina e nadroparina hanno prodotto risultati sovrapponibili all'eparina non frazionata. L'effetto antitrombinico maggiore, il minore effetto di stimolazione delle piastrine e la maggiore facilità d'uso, senza necessità di monitoraggio, sono vantaggi sostanziali delle eparine a basso peso molecolare. Il costo, senza dubbio più alto, è lo svantaggio principale, ma va considerato alla luce dal fatto che per la maggior parte dei pazienti il periodo di trattamento va da due a otto giorni dall'episodio acuto.
La terapia antiaggregante piastrinica si è evoluta verso le tienopiridine (ticlopidina, usata soprattutto nei protocolli di terapia post-angioplastica e clopidogrel, oggetto dello studio CURE) e gli antagonisti della glicoproteina llb/llla, gli antiaggreganti più potenti oggi disponibili. Dati i loro consistenti benefici, sono oggi raccomandati in aggiunta all'aspirina e all'eparina nei pazienti ad alto rischio (per la definizione del livello di rischio, vedi tabella 1). Sono approvati per questa indicazione tirofiban ed eptifibatide, mentre le evidenze disponibili per l'abciximab sono circoscritte a pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica. L'utilizzo di un antagonista della glicoproteina llb/llla è d'altra parte raccomandato in questo tipo di intervento. Ma chi va sottoposto all'intervento? E quando?
Approccio invasivo o approccio conservativo?
Se adottare sistematicamente un approccio invasivo (coronarografia al più presto, seguita, se possibile, da angioplastica con applicazione di stent) o un approccio conservativo (terapia medica iniziale per tutti e successivamente coronarografia solo nei pazienti refrattari alla terapia) è stato ed è tuttora oggetto di discussione e di valutazione da parte di studi clinici. Il CURE è stato impostato per valutare un approccio di tipo "conservativo", quindi con terapia medica, scegliendo di includere nella rete dei centri partecipanti preferenzialmente cardiologie non orientate ad eseguire precocemente angiografia e rivascolarizzazione coronarica. Dato che il numero di cardiologie che si orientano ad una strategia invasiva precoce è in crescita nel mondo occidentale, i risultati del CURE hanno suscitato qualche perplessità in relazione ad una presunta scarsa trasferibilità dei risultati dello studio nella pratica clinica7. In realtà l'approccio conservativo è ancora la pratica più comune nella maggior parte dei casi, date le implicazioni economico-organizzative dell'approccio invasivo. Inoltre la sua superiorità non è dimostrata almeno nella fascia dei pazienti a rischio medio-basso. Tant'è che, in generale, l'atteggiamento più condiviso tra gli esperti è quello che prevede un approccio invasivo nei pazienti ad alto rischio (veditabella 1) e in quelli refrattari alla terapia medica. In Italia è oggi in corso lo studio multicentrico randomizzato Avoid-PTCA, che si propone di valutare se l'utilizzo di angioplastica entro 72 ore dai sintomi è superiore alla terapia medica nel ridurre gli eventi clinici a distanza di un anno in pazienti a rischio medio-basso8.
I risultati dello studio CURE
Lo studio CURE ha valutato l'efficacia di un trattamento a lungo termine con clopidogrel, antiaggregante piastrinico della famiglia delle tienopiridine, antagonisti del recettore dell'ADP, in aggiunta al trattamento standard con aspirina nei pazienti con angina instabile e infarto miocardico senza sopraslivellamento del tratto ST, nel ridurre l'incidenza di un end-point complessivo comprendente mortalità cardiovascolare, infarto miocardico non fatale e ictus1. Il razionale dell'associare clopidogrel ad aspirina risiede nei diversi meccanismi d'azione dei due farmaci nel bloccare l'aggregazione piastrinica e quindi nella loro possibile sinergia. Lo studio ha incluso 12.562 pazienti in 482 centri di 28 paesi che sono stati randomizzati entro 24 ore dall'inizio dei sintomi a ricevere in doppio cieco una dose di carico di 300mg di clopidogrel in prima giornata, seguita da una dose giornaliera di 75mg per i 12 mesi successivi, oppure a ricevere un placebo. I pazienti sono stati trattati in media per un periodo di 9 mesi.
Gli aspetti innovativi dei risultati del CURE sono così riassumibili:
E' il primo studio che documenta un beneficio clinico di lungo periodo e di entità rilevante sul piano clinico di un trattamento antitrombotico nelle ACS non ST. La somministrazione di clopidogrel ha infatti prodotto un effetto precoce, significativo già dopo il primo giorno di trattamento, che si è mantenuto stabile dopo un anno di tempo, con una riduzione del rischio relativo dell'endpoint complessivo del 20%. Le curve di sopravvivenza relative ai primi 30 giorni di trattamento (figura 2) e ai 12 mesi di follow-up (figura 3), mostrano che le curve divergono già dall'inizio e continuano a divergere fino al termine del periodo di osservazione.
La riduzione dell'end-point, notevole se si considera che tutti i pazienti erano comunque trattati con aspirina, ha la stessa direzione per tutti gli eventi che compongono l'end-point complessivo: singolarmente, il rischio di infarto miocardico è risultato ridotto del 23%, la mortalità cardiovascolare del 7%, e l'ictus del 14% (veditabella 2).
Il beneficio prodotto dal trattamento con clopidogrel nella popolazione generale è consistente in tutti i sottogruppi di pazienti considerati. Si è riprodotto infatti con direzione ed entità simili in tutti i tipi di pazienti considerati, con una riduzione dell'end-point complessivo intorno al 20%, indipendentemente dal sesso, dall'età, dalla presenza/assenza di modifiche elettrocardiografiche del tratto ST, di diabete, di rivascolarizzazione pregressa o dopo arruolamento nello studio, dalla presenza o meno di movimento enzimatico, e dal livello di rischio del paziente, alto, medio o basso che fosse.
Il beneficio è stato accompagnato da un aumento significativo del rischio di emorragie minori (che sono risultate circa il doppio nel gruppo trattato con dopidogrel) e di emorragie maggiori (definite come tali se richiedenti una trasfusione di 2 o più unità di sangue e per le quali è stato evidenziato un rischio relativo aumentato del 30%), ma non minacciose per la vita. Ciò equivale a 6 pazienti in più da trasfondere ogni 1.000 pazienti trattati con clopidogrel. Il potenziale emorragico del trattamento con clopidogrel (associato all'aspirina per molti mesi e all'eparina, almeno nel primo periodo) ha suscitato parecchie discussioni. I "detrattori" dello studio hanno enfatizzato l'aumento di incidenza di emorragie, mentre gli autori dello stesso hanno posto l'accento sul fatto che molto dipende dalla maggiore restrittività dei criteri da loro applicati nella definizione delle emorragie stesse; applicando ad esempio agli stessi eventi i criteri dello studio GUSTO, le differenze tra i due gruppi di pazienti vengono azzerate. E in ogni caso nessuna classificazione ha messo in evidenza un possibile aumento delle emorragie fatali, cerebrali e non, nel gruppo dei pazienti trattati con clopidogrel (veditabella 3).
Lo studio PCI-CURE
Circa un quinto dei pazienti del CURE sono stati sottoposti ad angioplastica coronarica, eseguita a qualsiasi tempo nel corso dello studio (2.568 per la precisione, di cui 1.313 randomizzati a clopidogrel e 1.345 a placebo). Questo gruppo è stato oggetto di uno studio prospettico ad hoc, il PCI-CURE2. Parallelamente allo studio principale, l'obiettivo era di valutare se, in aggiunta all'aspirina, un trattamento con clopidogrel prima dell'angioplastica, seguito da una terapia a lungo termine, riducesse l'incidenza dell'end-point combinato (costituito in questo caso da morte cardiovascolare, infarto miocardico e rivascolarizzazione d'urgenza) rispetto a una strategia comprendente la sola angioplastica. I risultati hanno indicato una riduzione significativa del 30% dell'end-point nel gruppo randomizzato a clopidogrel, senza differenze significative in termini di emorragie maggiori. E' un risultato notevole, se si considera anche il fatto che l'80% dei pazienti in entrambi i gruppi aveva ricevuto 4 settimane di terapia con una tienopiridina in aperto dopo l'angioplastica (con un possibile effetto di "diluizione" dell'efficacia del clopidogrel).
Il potenziale impatto clinico dei risultati del CURE
La pubblicazione dei risultati del CURE ha aperto molti punti di discussione. Il primo riguarda il tipo di pazienti che dovrebbero essere trattati con clopidogrel. Dato che il CURE era stato disegnato per valutare l'efficacia del clopidogrel nel contesto di un approccio conservativo, i risultati dello studio sono stati commentati inizialmente come trasferibili solo a quei centri di cardiologia senza laboratorio di emodinamica, e quindi senza la possibilità di avviare i pazienti ad una rivascolarizzazione precoce7: in realtà i risultati del PCI-CURE hanno invece indicato che anche i pazienti sottoposti ad angioplastica possono trarre benefici importanti dal clopidogrel. Quindi, data anche la coerenza e l'uniformità dei risultati ottenuti nell'analisi dei sottogruppi, sembra di poter commentare che non ci sono gli estremi per escludere nessuno dal trattamento. D'altra parte è riconosciuto che le analisi per sottogruppi di pazienti vanno viste come un momento di verifica della coerenza dei risultati complessivi di uno studio, ma non vanno utilizzati come elemento di decisione sull'efficacia di un trattamento in un sottogruppo rispetto ad un altro. Un secondo punto è relativo al tempo per il quale si dovrebbe protrarre il trattamento con clopidogrel per ottenere il massimo beneficio. Il limite principale che gli studi clinici randomizzati e con risultati positivi sulle ACS non ST hanno messo in evidenza è stato quello di non riuscire ad estendere gli eventuali benefici al di là della fase acuta. In pratica le curve degli eventi tendono a riconvergere entro le prime settimane dall'evento acuto. Nello studio CURE le curve si mantengono ben separate nel tempo, fino a dodici mesi, in conseguenza ad un trattamento protratto per un tempo medio di 9 mesi nei pazienti assegnati a clopidogrel. E' impossibile poter decidere se un trattamento più breve, ad esempio di tre mesi, possa comunque produrre benefici che si mantengano a distanza, dopo la sospensione del trattamento. E' altrettanto impossibile decidere se prolungare il trattamento oltre l'anno di follow-up possa ulteriormente prolungare il beneficio: da un punto di vista prettamente metodologico, il corretto trasferimento dei risultati di un trial nella pratica clinica comporta il trasferimento dello stesso contesto e delle stesse modalità (dosaggi, tempi di trattamento, tipo di pazienti, ecc.) con cui questi risultati sono stati prodotti. In conclusione, sulla base dei risultati del CURE, un trattamento con clopidogrel iniziato precocemente e protratto per almeno 9 mesi dovrebbe rientrare tra i trattamenti raccomandati per tutti i pazienti con sindromi coronariche acute senza sopraslivellamento del tratto ST, o almeno per quelli per i quali non venga pianificato un intervento precoce. Tuttavia, sulla base dei risultati del PCI-CURE, anche i pazienti sottoposti ad angioplastica traggono beneficio sul lungo periodo da questo trattamento. Rimane da affrontare il problema del costo del clopidogrel, decisamente elevato e per il momento a totale carico dei pazienti. Bibliografia 1. The Clopidogrel in Unstable Angina to Prevent Recurrent Events trial investigators. Effects of dopidogrel in addition to aspirin in patients with acute coronary syndromes without ST-segment elevation. N Engl J Med 2001;345: 494-502. 2. Mehta SR, Yusuf S, Peters RJG, et al. Effects of pretreatment with clopidogrel and aspirin followed by Iong-term therapy in patients undergoing percutaneous coronary intervention: the PCI-CURE study. Lancet 2001;358: 527-33. 3. Hamm CW, Bertrand M, Braunwald E. Acute coronary syndrome without SI elevation: implementation of new guidelines. Lancet 2001; 35:1533-38. 4. Bertrand ME, Simoons ML, Fox KAA, et al. Management of acute coronary syndromes: acute coronary syndromes without persistent ST segment elevation. Eur Heart J 2000; 21: 1406-32. 5. Braunwald E, Antman EM, Beasley JW, et al. ACC/AHA Guidelines far the management of patients with unstable angina and non-ST-segment elevation myocardial infarction: executive summary and recommendations. J Am Coll Cardiol 2000 36: 970-1062. 6. Braunwald E, Antman EM, Beasley JW, et al. ACC/ AHA Guidelines for the management of patients with unstable angina and non-ST-segment elevation myocardial infarction: executive summary and recommendations.Circulation 2000; 102:1193- 209. 7. Stables RH. Clopidogrel in invasive management of non-ST-elevation ACS. Lancet 2001; 358: 520-21. 8. Steffenino G, Dellavalle A, De Servi S, et al. Una messa a punto sul trattamento più o meno precocemente inavsivo dei pazienti con angina instabile/infarto non Q. G Ital Cardiol 1999; 29: 1233-38.