La sostenibilità è la caratteristica di un processo o di una condizione che possa essere mantenuta indefinitamente.
Dal punto di vista della società, la sostenibilità sta ad indicare un equilibrio tra il soddisfacimento delle esigenze presenti e quello delle future generazioni. Dalla prospettiva del Servizio Sanitario Nazionale, in cui esiste un tetto di spesa fissato dal potere politico, la sostenibilità va ricercata nella teoria del costo/opportunità, per cui il maggior impiego di risorse in un settore della medicina va pagato con una riduzione di spesa in altri settori.
Nella ricerca di questo delicato equilibrio,ovunque nel mondo occidentale,l'oncologia gode di un certo margine di tolleranza a suo favore,anche grazie all'impatto emotivo che la parola "cancro" evoca nell'opinione pubblica;ma,chiaramente, questo vantaggio non può andare oltre un certo limite.
L'innovazione, ossia l'implementazione in un processo di un prodotto nuovo o sostanzialmente migliorato, sebbene sia una causa assai importante del maggior impiego di risorse in ogni settore della Medicina, è tra i principali responsabili dell'accelerazione di spesa in oncologia. Quindi, il costo elevato dei nuovi farmaci antitumorali, soprattutto considerando le innumerevoli molecole oggi in fase II-III di sperimentazione, non solo desta viva preoccupazione nell'ambiente oncologico, ma induce ad un urgente ripensamento sia della strategia valutativa dell'efficacia/tollerabilità dei nuovi farmaci, sia del loro impiego nella pratica clinica.
Se è vero che non spetta agli oncologi preoccuparsi delle analisi farmacoeconomiche, è pur sempre necessario che essi valutino quale sia la reale portata innovativa delle nuove terapie proposte dall'industria sulla base dei risultati di studi clinici e che si preoccupino dell'appropriatezza prescrittiva, che è la più importante cerniera che riesca ad articolare l'innovazione con la sostenibilità. Iniziamo con i risultati della ricerca.
Gli endpoint
Com'è noto, la FDA e l'EMEA approvano la maggior parte dei farmaci oncologici sulla base di dati di attività, quindi senza dati di efficacia e di tossicità a lungo termine. Ciò è dimostrato da alcuni studi che hanno analizzato i criteri con cui gli enti regolatori hanno approvato i farmaci antitumorali: dal 1990 al 2002 la FDA ha approvato 71 farmaci di cui solo 18 (meno di 1/3) con dati di efficacia. Tra il 1995 e il 2004 l'EMEA ha approvato con dati di efficacia solo 2 su 27 indicazioni dei 14 farmaci registrati. Peraltro, l'approvazione sulla base di endpoint surrogati [come la risposta obiettiva, la sopravvivenza libera da progressione (PFS) e così via] è dimostrato che ritarda l'esecuzione da parte dell'industria di studi controllati di efficacia (come richiesto dalla FDA): per 8 farmaci così approvati gli studi di conferma saranno completati in circa 10 anni (Mitka M et al. JAMA 2003; 289: 3227-9).
D'altronde, c'è da chiedersi se vi siano anche ragioni etiche e di consenso informato in tali ritardi. Facciamo un esempio. Il farmaco A è trovato superiore a B nel prolungare la PFS. Sembra quindi, non etico trattare nuovi pazienti con B, dati i positivi risultati conseguiti da A e, comunque, saranno relativamente pochi i pazienti che esprimeranno il loro consenso a partecipare ad uno studio clinico in cui A sia di nuovo paragonato a B. Poiché i pazienti che hanno avuto un più lungo periodo di PFS potrebbero anche avere i periodi tra progressione e morte mediamente più brevi degli altri, la conclusione è che non sapremo mai se la terapia A sia più efficace di B, nel senso che incida realmente sulla sopravvivenza, o se lo sapremo sarà un dato di puro interesse storico, in quanto, nel lungo periodo necessario per avere i risultati di uno studio di efficacia, saranno stati certamente introdotti altri farmaci verosimilmente più efficaci di A e B.
Quindi, la prima richiesta è che gli studi sui nuovi farmaci abbiano come endpoint principale la sopravvivenza e/o la qualità di vita, mentre gli endpoint surrogati siano analizzati come endpoint secondari.
Le analisi ad interim
La letteratura sui nuovi farmaci abbonda di analisi ad interim che, com'è noto, sono correttamente pianificate solo a condizione di diminuire il livello di significatività del test statistico in funzione del numero delle analisi condotte. Questo è il prezzo pagato nello studio di confronto tra sorafenib e placebo nei pazienti con carcinoma renale metastatico resistente alla terapia standard (Escudier B et al. New Engl J Med 2007; 356:125-34). La sopravvivenza complessiva (Overall Survival, OS) era stata correttamente assunta come endpoint principale e, alla prima analisi ad interim, OS risultò superiore nel braccio contenente il farmaco attivo (p < 0,02), ma tale risultato non fu significativo, proprio perché si trattava di un'analisi ad interim. Invece, la PFS fu significativamente superiore nel gruppo di pazienti trattati con sorafenib. Si decise allora, per motivi etici, di consentire ai pazienti del gruppo placebo di ricevere sorafenib, con il risultato che non sapremo mai se il sorafenib prolunga realmente la sopravvivenza dei pazienti in tali condizioni. Analoga situazione si è presentata nello studio di confronto tra il sunitinib e interferone alfa nella prima linea di trattamento del carcinoma renale metastatico (Motzer RJ et al. New Engl J Med 2007; 356:115-24). Alla prima analisi ad interim, la PFS, assunta come endpoint principale, è risultata significativamente superiore nel gruppo di pazienti trattati con sunitinib. Si decise allora di concedere ai pazienti trattati con la terapia standard la possibilità di ricevere il sunitinib, con il risultato che, nemmeno in questa situazione si proverà mai la superiore efficacia di sunitinib in termini di OS.
La seconda richiesta è di non condurre analisi ad interim, o comunque, di pianificarle correttamente. In ogni caso mai dovrebbero essere eseguite su un endpoint diverso da quello di efficacia, che è la sopravvivenza complessiva.
I farmaci di confronto
Non sempre il trattamento di confronto è realmente il migliore esistente in termini di efficacia/tossicità. E' ovvio che se la scelta del comparator è sub-ottimale, può emergere una differenza significativa che potrebbe non produrre alcun beneficio nella pratica clinica.
Particolare attenzione va riservata agli studi in cui si sperimenta verso placebo, quando esistono alternative standard già presenti sul mercato.
E' questo il caso di molti farmaci utilizzati per la terapia di supporto/palliativa quali ad esempio gli antiemetici, i difosfonati, i fattori di crescita granulocitari ed eritrocitari, gli analgesici, e così via. Purtroppo tali farmaci sono stati studiati come se fossimo in una specie di vuoto terapeutico, per cui il trattamento di confronto non poteva essere altro che il placebo. Anche alcuni farmaci biologici sono stati studiati versus placebo (erlotinib e gefitinib) in seconda/terza linea di chemioterapia del carcinoma polmonare non microcitoma. L'erlotinib ha dimostrato di essere superiore al placebo in termini di sopravvivenza globale e di controllo dei sintomi. Purtroppo non è stato confrontato con il farmaco di riferimento per le seconde linee di terapia del carcinoma non microcitoma del polmone che era il docetaxel. Se è comprensibile il tentativo di fare uno studio doppio-cieco per valutare l'impatto del trattamento su endpoint soft quali la qualità di vita o i sintomi riferiti dai pazienti (impatto, peraltro, raramente valutabile in cieco, dato che quasi sempre si intuisce chi riceve il placebo e chi il trattamento antitumorale), non si comprende poi perché gli enti regolatori che pianificano con l'industria il disegno dello studio non accettino la necessità di approvare farmaci solo dopo averne dimostrato la superiorità in confronto al trattamento standard.
La terza richiesta è, quindi, di porre molta attenzione nel valutare l'appropriatezza della scelta del trattamento di confronto.
Gli studi di non inferiorità
Gli studi di non inferiorità (o quelli di equivalenza) sono discutibili sotto molti profili, in quanto già in fase di pianificazione stabiliscono di non voler dimostrare una maggiore efficacia del nuovo farmaco o della nuova indicazione di un farmaco già in commercio, ma solo di verificare che non sono inferiori rispetto ad una terapia standard. Soprattutto, però, attestano implicitamente la negazione di ogni portata innovativa del nuovo farmaco.
Ad esempio, il pemetrexed in associazione al cisplatino è stato testato in uno studio di non inferiorità rispetto alla gemcitabina + cisplatino (trattamento standard) come prima linea di chemioterapia in pazienti con carcinoma non microcitoma del polmone. In 1.727 pazienti il pemetrexed ha fornito una sopravvivenza globale mediana sovrapponibile alla gemcitabina (10,3 versus 10,3 mesi) (Scagliotti V et al. J Clin Oncol 2008; 26: 3543-51). Un'analisi per sottogruppi, però, ha suggerito che il pemetrexed fosse più efficace della gemcitabina negli adenocarcinomi o carcinomi a grandi cellule e meno efficace nei carcinomi epidermoidali. L'analisi per sottogruppi di uno studio non può essere utilizzata immediatamente per mutare indicazioni terapeutiche, ma solo per suggerire possibili ulteriori studi controllati su quei sottogruppi di pazienti in cui sono state riscontrate differenze, non solo perché la potenza relativa ad un'analisi di sottocollettivi è limitata, ma soprattutto perché è noto che per la disuguaglianza di Bonferroni, assoggettando lo stesso materiale sperimentale ad una pluralità di test statistici, qualcuno di loro risulta inevitabilmente significativo, anche quando in realtà i trattamenti hanno la stessa efficacia. Stranamente EMEA ha approvato il pemetrexed associato al cisplatino solo per i carcinomi non epidermoidi.
La quarta richiesta è dinon eseguire studi di non inferiorità, a meno che non vi siano serie ragioni per verificare solo una differente tossicità. Inoltre, è discutibile che i risultati di tali studi possano realmente dimostrare la superiorità di un trattamento sull'altro, e comunque, mai la pratica clinica dovrebbe essere sistematicamente mutata solo sulla base di analisi di sottogruppi.
Le vere novità
All'oncologo non solo è richiesto un esame critico degli studi sui nuovi farmaci, ma anche lavalutazione della loro reale portata innovativa, indipendentemente dalla registrazione. Ad esempio, il bevacizumab è stato registrato in combinazione con carboplatino e paclitaxel per il NSCLC (non epidermoide) metastatico o localmente avanzato (stadi IIIB e IV). Lo studio registrativo ha presentato i risultati ottenuti in 878 pazienti, trattati con questa combinazione rispetto a quelli ottenuti con il solo carboplatino e paclitaxel (Sandler A et al. New Engl J Med2006; 355:2540-50). L'aggiunta del bevacizumab otteneva un significativo miglioramento della sopravvivenza libera da progressione (PFS: 6,2 vs 4,5 mesi) e della sopravvivenza globale (12,3 vs 10,3 mesi). L'efficacia dell'aggiunta del bevacizumab alla chemioterapia non è stata però confermata dallo studio europeo in cui il bevacizumab, utilizzato a due livelli di dose (7,5 e 15 mg/kg), associato a cisplatino e gemcitabina, veniva confrontato con la chemioterapia da sola in 1.050 pazienti (Manegold C et al. Ann Oncol 2008; 19 (Suppl 8):viii1, abstr. LBA1). Mentre la sopravvivenza libera da progressione risultava significativamente superiore con il bevacizumab (6,8 vs 6,6 vs 6,2 mesi), la sopravvivenza globale mediana era simile tra i tre bracci (13,6 vs 13,4vs 13,1 mesi, rispettivamente). Pertanto, la logica conclusione è che l'efficacia del bevacizumab nel carcinoma del polmone non microcitoma è dubbia e sarebbero opportuni ulteriori studi per definirla.
Ancora più discutibili sono i risultati dell'unico studio che ha valutato il bevacizumab nel carcinoma metastatico della mammella in cui il farmaco era associato al paclitaxel come prima linea di chemioterapia (Miller K et al. New Engl J Med 2007; 357:2666-76). In questo studio eseguito in 722 pazienti, il bevacizumab ha determinato un rilevante aumento della mediana di sopravvivenza libera da progressione (da 5,9 a 11 mesi, differenza statisticamente significativa), ma sia la sopravvivenza globale mediana (26,7 vs 25,2 mesi, rispettivamente), sia l'impatto dei trattamenti sulla qualità di vita sono stati simili. Si sarebbe potuto affermare che la non dimostrata superiorità del bevacizumab in termini di sopravvivenza globale poteva essere imputata al fatto che le pazienti avrebbero potuto ricevere il bevacizumab alla progressione, oltre che ai differenti trattamenti utilizzati nelle linee di chemioterapia successive alla prima. Invece, in questo caso, correttamente, l'industria farmaceutica non ha permesso alle pazienti in progressione di utilizzare il bevacizumab.
Gli effetti dell'innovazione apportata dai nuovi farmaci sembrano complessivamente modesti, per non dire deludenti. Gli studi sono generalmente condotti su ampi campioni di pazienti, per cui anche una modesta differenza risulta statisticamente significativa. Ciò impone all'oncologo di valutare se una tale differenza di efficacia, anche alla luce della tossicità aggiuntiva, sia anche clinicamente rilevante.
Emblematico è il caso dell'erlotinib nel carcinoma metastatico del pancreas (Moore MJ et al. J Clin Oncol 2007;25:1960-66). In uno studio doppio cieco condotto in 569 pazienti è stata confrontata la gemcitabina da sola rispetto alla gemcitabina più erlotinib. La differenze in sopravvivenza mediana globale (5,9 vs 6,2 mesi), endopint primario dello studio, e in sopravvivenza ad un anno (17% vs 23%, rispettivamente) sono entrambe risultate statisticamente significative, ma appaiono clinicamente irrilevanti anche considerando la non trascurabile tossicità cutanea dell'erlotinib.
Ci sembra rientrino in questo particolare gruppo di farmaci anche il cetuximab ed il panitumomab, approvati per il trattamento del carcinoma del colonretto metastatico. Il cetuximab è un anticorpo monoclonale che è stato approvato in combinazione con irinotecan dopo fallimento di irinotecan per pazienti il cui tumore esprimeva il recettore per l'epidermal growth factor (EGFR). Lo studio registrativo, di fase II, è stato condotto su 329 pazienti randomizzati 2:1 a ricevere la combinazione (218 pazienti) o il cetuximab da solo (111 pazienti). In tale studio il cetuximab associato all'irinotecan è risultato significativamente superiore in termini di percentuale di risposte (22,9% vs 10,8%) e di tempo alla progressione (Cunningham D et al. New Engl J Med 2004; 351:337-45).
Recentemente sono stati pubblicati i risultati di studi di fase III nelle varie linee di chemioterapia per il trattamento del carcinoma del colon retto metastatico. Lo studio CRYSTAL è stato eseguito in 1.217 pazienti ed ha confrontato FOLFIRI + cetuximab versus FOLFIRI come prima linea di chemioterapia. Il cetuximab ha determinato un aumento statisticamente significativo della sopravvivenza libera da progressione (8,9 vs 8,0 mesi, endpoint principale). Nessuna differenza è stata riscontrata in termini di sopravvivenza globale (Van Cutsem E et al. Proc. ASCO 2007; 25: 164s).
Lo studio di fase III EPIC, eseguito in 1.298 pazienti già trattati con fluoropirimidine + oxaliplatino ha confrontato irinotecan + cetuximab versus irinotecan da solo come seconda linea di chemioterapia (Sobrero A et al. J Clin Oncol 2008; 26:2311-9). La sopravvivenza globale mediana, endpoint principale dello studio, non è risultata significativamente differente (10,7 vs 10,0 mesi) mentre la sopravvivenza libera da progressione (4,0 vs 2,6 mesi) e la qualità di vita sono stati significativamente superiori con il cetuximab.
Infine lo studio di fase III eseguito su 572 pazienti dopo chemioterapia con oxaliplatino, irinotecan e fluoropirimidine ha confrontato cetuximab versus terapia di supporto come terza linea di trattamento. La sopravvivenza a 1 anno (endpoint primario su cui era stato calcolato il campione di pazienti da inserire nello studio, considerando una differenza di almeno il 10% come clinicamente rilevante) è stata del 21% vs 16% e la sopravvivenza mediana globale è stata di 6,1 vs 4,6 mesi, differenze entrambe statisticamente significative (Jonker DJ et al. New Engl J Med 2007; 357:2040-8).
In conclusione i tre studi randomizzati sul cetuximab hanno dimostrato un aumento statisticamente significativo della sopravvivenza libera da progressione o della sopravvivenza globale rispetto ai trattamenti di controllo, ma tali risultati sembrano clinicamente poco rilevanti.
Non molto diversi sono i risultati, sempre nel carcinoma del colonretto metastatico, dell'uso del panitumomab, altro anticorpo monoclonale che inibisce il recettore dell'epidermal growth factor (EGFR). Il farmaco è stato approvato sulla base dei risultati di uno studio di fase III in 463 pazienti in 3a-4a linea di chemioterapia che ha confrontato il panitumomab con la terapia di supporto (Van Cutsem E et al. J Clin Oncol 2007; 25:1658-64). In questo studio la sopravvivenza libera da progressione (endpoint primario dello studio) è stata trovata significativamente superiore con panitumomab (8,0 vs 7,3 settimane, cioè 5 giorni), mentre la sopravvivenza mediana globale è stata simile nei due gruppi.
Vorremmo terminare la lista dei farmaci che hanno dimostrato una superiorità statisticamente significativa, ma clinicamente irrilevante, rispetto ai trattamenti standard discutendo ancora del cetuximab associato a cisplatino e vinorelbina rispetto alla sola chemioterapia nel carcinoma del polmone non microcitoma. In uno studio di fase III eseguito in 1.125 pazienti, il cetuximab ha determinato una identica sopravvivenza libera da progressione (4,8 vs4,8 mesi) ed una sopravvivenza mediana globale significativamente superiore (11,3 vs 10,1 mesi, cioè 5 settimane) (Pirker R et al. J Clin Oncol 2008; 26: 6s).
Conclusioni
In conclusione, lo scenario scientifico-culturale in cui sono tumultuosamente introdotti i nuovi farmaci è dissestato anche perché il rigore che caratterizzava le scelte delle autorità regolatorie era ferreo: in passato occorreva non solo dimostrare l'efficacia di un nuovo farmaco con uno studio controllato, ma anche confermarne i risultati con almeno un altro studio controllato.
In tale contesto, non resta all'oncologo che esaminare gli studi che hanno portato un nuovo farmaco alla registrazione, in ordine alla correttezza metodologica e, soprattutto, valutare l'impatto dei risultati ottenuti sulla pratica clinica, chiedendosi se la differenza riscontrata sia non solo statisticamente significativa, ma anche clinicamente rilevante. In altre parole, si chiede all'oncologo la valutazione della reale portata innovativa del nuovo farmaco.
In secondo luogo, molta attenzione deve essere posta all'appropriatezza prescrittiva. Infatti, nell'attuale caotico contesto registrativo, sociale ed economico, occorre esercitare molta prudenza per una serie di ragioni:
Estendere le indicazioni ad altre patologie sarebbe problematico per il Servizio Sanitario Nazionale considerando soprattutto che i farmaci vengono approvati per specifiche indicazioni, spesso in assenza di dati di efficacia e di tossicità a lungo termine.
Oggi i trattamenti antitumorali vengono implementati nella pratica clinica non più solo dopo la pubblicazione di almeno uno studio su un'importante rivista peer reviewed, ma vengono talora prescritti già dopo la presentazione dei risultati in forma di abstracts ad un convegno.
E' noto che il rischio di ottenere risultati fortemente discordanti tra l'efficacia dimostrata negli studi clinici controllati e l'effectiveness nella pratica clinica è elevato.
Mancano confronti testa-a-testa tra i nuovi farmaci che consentirebbero una scelta terapeutica consapevole. In assenza di tali studi, data la pluralità di nuovi farmaci che affollano ogni situazione clinica (ad es., linea di terapia), si corre il rischio di dilapidare risorse senza la ragionevole certezza del beneficio per il paziente.
Il costo dei trattamenti antitumorali innovativi è rilevante e non giustificato dai costi per lo sviluppo dei nuovi farmaci. Molti sostengono che il prezzo di un nuovo farmaco sia una variabile indipendente dal costo che viene fissato semplicemente in base a quanto le industrie farmaceutiche reputino che il mercato possa sopportare.
L'uso generalizzato dei nuovi farmaci darebbe luogo ad un costo non sostenibile da alcun servizio sanitario nazionale.