La fibrillazione atriale (FA) è l'aritmia più frequente nella popolazione generale. La sua prevalenza, pari al 2,2% negli uomini e all'1,7% nelle donne, cresce con l'età: passa da 0-0,5% nei soggetti di 25-35 anni, al 5% in quelli con più di 69 anni, fino ad arrivare al 12% nella fascia di età oltre i 75 anni1.
I pazienti con FA associata a malattia valvolare reumatica corrono un rischio di ischemia cerebrale di origine embolica 18 volte più grande rispetto ad una analoga popolazione di controllo2. In questi pazienti gli anticoagulanti orali si sono dimostrati molto efficaci nella prevenzione degli ictus ischemici e sono diventati una pratica clinica consolidata1-4. Nei pazienti con FA senza una valvulopatia concomitante il rischio di ictus risulta da 5 a 7 volte superiore ad un gruppo di popolazione privo di aritmia e comparabile per età, sesso e livelli di pressione arteriosa1,4.
Alcuni studi epidemiologici "storici"5-7 hanno evidenziato che nei pazienti con FA l'incidenza su base annua di ictus è nell'ordine del 3-4%, del 5% secondo uno studio più recente8. Includendo gli attacchi transitori, l'incidenza globale sale al 7%/anno e a questa vanno aggiunti gli eventi clinicamente silenti o con quadri poco specifici, come alterazione della personalità e compromissione intellettiva, svelati come infarti cerebrali alla TAC o alla RMN9.
Il carattere temporale della FA, da parossistica a permanente, viene oggi considerato poco rilevante ai fini della valutazione del rischio tromboembolico cerebrale. Questo sia per ragioni nosologiche e fisiopatologiche (presenza di forme intermedie di FA e di transizione, distribuzione non omogenea degli eventi embolici, ruolo della disfunzione contrattile atriale), sia grazie all'evidenza clinica raggiunta con metanalisi molto ampie10. Pertanto, le considerazioni che verranno fatte nell'articolo possono essere indifferentemente riferite alle diverse forme temporali dell'aritmia.
Lo spettro dei fattori di rischio è molto eterogeneo ed è stato documentato attraverso studi clinici ed epidemiologici condotti in tempi e con metodologie diverse. Per un primo orientamento è utile considerare la Tabella 1 che favorisce una visione complessiva e valutativa dello stato delle nostre conoscenze.
Patologia cardiovascolare e condizioni di compenso
La presenza di una cardiopatia (ischemica, ipertensiva, dilatativa, metabolica) predispone ad un aumentato rischio sia di FA che di ictus. L'interazione fra l'aritmia e la malattia cardiaca di base può rendere più complesso differenziare l'eventuale contributo autonomo della cardiopatia e delle sue manifestazioni cliniche all'occorrenza degli attacchi ischemici. Vari fattori inerenti le condizioni cardiovascolari di base, quali malattia coronarica, angina, pregresso infarto miocardico, ipertrofia miocardica, dilatazione ventricolare sinistra ed antecedente di scompenso cardiaco manifesto (tutte associate ad una maggiore incidenza di FA), presi in esame isolatamente in diversi studi clinici hanno dimostrato una significativa capacità di aggravare il rischio di accidenti ischemici cerebrali quando accompagnano l'aritmia1,11-16. Peraltro, la metanalisi10 condotta sui cinque grandi studi sulla profilassi della tromboembolia nella FA11,13,15-17, ha evidenziato che l'unica condizione cardiovascolare dotata di capacità predittiva indipendente è l'ipertensione arteriosa, mentre tutte le altre, pur comportando un aumento di rischio, soprattutto nel caso dell'angina, del pregresso infarto e dello scompenso cardiaco, ne sono sprovviste.
Pregressi eventi ischemici
Il dato anamnestico di eventi ischemici cerebrali rappresenta un fattore predittivo indipendente di recidive individuato da varie ricerche di prevenzione nella FA14,18,19 e confermato anche da una metanalisi10. Uno studio randomizzato "storico" sull'ictus aveva dimostrato un rischio precoce (entro due settimane) di recidiva del 15%19, mentre l'unico studio randomizzato di prevenzione secondaria in soggetti con storia di eventi ischemici transitori o ictus minori ha documentato una incidenza annuale di recidive totali di ictus pari al 12%20.
Età e sesso
L'età avanzata costituisce un altro fattore predittivo di ictus risultando i livelli di rischio bassi sotto i 65 anni e nettamente più elevati sopra i 75 anni. Le incidenze di FA e di eventi cardioembolici aumentano in modo significativo e parallelo con l'età21. I pazienti con meno di 65 anni, senza fattori di rischio, sono da collocare nella fascia a bassa incidenza di eventi ischemici cerebrali pari all'1% all'anno. Nei pazienti oltre i 75 anni con uno o più fattori principali l'incidenza di ictus sale all'8%/anno15. Il sesso femminile è stato associato ad un aumento del rischio, soprattutto nell'età avanzata, ma solo in uno studio22.
Malattie endocrinometaboliche
Tra i fattori sistemici variamente associati agli accidenti ischemici cerebrali, solo il diabete mellito costituisce una variabile predittiva indipendente10.
La tireotossicosi è stata oggetto di conclusioni discordanti. Mentre uno studio23 dimostra che fra i pazienti con ipertiroidismo solo l'età rappresenta un fattore di rischio significativo, un altro evidenzia un alto rischio di ictus nei soggetti con tireotossicosi e FA 24. Peraltro, poiché la malattia tiroidea può associarsi a fattori di rischio embolico cerebrovascolare quali ipertensione arteriosa, coronaropatia e scompenso, dal punto di vista pratico viene consigliata l'adozione della terapia profilattica25.
Indici ecocardiografici
Con l'avvento dell'ecocardiografia, per l'individuazione del rischio tromboembolico in pazienti con FA sono stati proposti diversi parametri strumentali. Alcuni, quali la presenza di trombosi intraatriale e di ecocontrasto spontaneo in auricola, sono di grande importanza per le strategie di ripristino del ritmo sinusale e molto specifici per l'alto rischio ma relativamente poco sensibili e di predittività negativa non ottimale8. Altri parametri ecocardiografici, come la disfunzione sistolica del ventricolo sinistro, la presenza di calcificazioni della valvola mitrale e la dilatazione atriale sinistra 8,13,15, sono stati associati in singoli studi ad un aumento netto del rischio. Mentre gli ultimi due indici necessitano di più ampie conferme, recentemente una metanalisi di tre studi26 ha dimostrato che fra gli indici ecocardiografici, la disfunzione contrattile del ventricolo sinistro di grado da moderato a grave rappresenta un fattore predittivo indipendente. Ciò sarebbe di particolare utilità nei pazienti con normalità dei parametri clinici valutati nei sottocapitoli precedenti e garantirebbe una migliore accuratezza nella stratificazione del rischio27.
Fibrillazione atriale isolata
La FA isolata è un'entità clinica definita dall'assenza di ogni alterazione concomitante, cardiaca ed extracardiaca. Sul piano clinico, ne deriva che nella FA isolata l'incidenza di tromboembolia dipende dai criteri classificativi impiegati. Infatti, mentre due studi15,28 prevedevano una definizione semplificata dell'assenza di patologia e soprattutto di cardiopatia, con il risultato di rilevare nel gruppo delle FA isolate un rischio di eventi cardioembolici superiore alla popolazione di controllo, altri studi13, 29, impiegando criteri diagnostici più completi, hanno identificato un rischio assai basso. La già citata metanalisi10, usando criteri selettivi per identificare la FA isolata, ha evidenziato che il rischio embolico sembra alla fine più fortemente legato all'età che all'aritmia di per sé. Questo suggerirebbe un impiego ridotto del trattamento profilattico antitromboembolico nei soggetti affetti da FA isolata identificata secondo criteri restrittivi e con una età inferiore ai 65 anni30.
In conclusione, i fattori di rischio maggiore sono cinque: età, ipertensione arteriosa, pregresso evento ischemico cerebrale, diabete mellito, disfunzione contrattile del ventricolo sinistro rilevata all'ecocardiografia. I pazienti con meno di 65 anni, senza fattori di rischio, sono da collocare nella fascia a bassa incidenza di eventi ischemici cerebrali, pari all'1% all'anno.
All'estremo opposto dello spettro del rischio stanno i pazienti oltre i 75 anni con uno o più fattori principali, nei quali l'incidenza di ictus sale all'8%/anno15.
Va rilevato che rimangono in una "zona grigia" parametri clinici importanti, quali il pregresso infarto, l'antecedente di scompenso cardiaco, la storia di angina e alcuni indici ecocardiografici come le anomalie dell'apparato mitralico e la dilatazione atriale sinistra. Benché questi non rappresentino variabili indipendenti, viene suggerita una loro inclusione nella valutazione del rischio, soprattutto in assenza di fattori principali.
Profilassi con anticoagulanti
Cinque studi randomizzati di grandi dimensioni hanno valutato l'efficacia del warfarin nella prevenzione del rischio tromboembolico nei pazienti con FA. La metanalisi dei loro risultati10 dimostra che gli anticoagulantiriducono del 68% il rischio di ictus e del 33% la mortalità. In tutti i sottogruppi dei pazienti trattati col dicumarolico l'incidenza annuale di ictus è stata inferiore al 2%. Tali risultati possono peraltro sottostimare la reale efficacia dell'anticoagulante per vari motivi:
1. più di un terzo dei pazienti in terapia anticoagulante che hanno presentato ischemia cerebrale non assumeva dosi adeguate del farmaco o lo aveva sospeso all'epoca dell'evento;
2. non sono stati presi in considerazione gli ictus con quadro clinico silente;
3. non è stata valutata la incidenza di embolia polmonare.
Livelli di scoagulazione
In generale, l'efficacia terapeutica del warfarin si è manifestata in un range di valori di INR compresi tra 1,4 e 4,5 e non emerge una correlazione diretta fra intensità di scoagulazione e riduzione degli eventi embolici10,13-16. Resta aperto il problema della identificazione di un livello minimo ottimale di protezione, dal momento che nei pazienti trattati col dicumarolico l'incidenza di emorragie totali, e segnatamente di emorragia cerebrale, è risultata superiore, anche se in termini statisticamente non significativi, a quella dei pazienti non trattati: 1,3%/anno e 0,3%/anno versus 1% e 0,1%10. I pazienti anziani, tuttavia, hanno presentato un rischio emorragico molto più accentuato, soprattutto per valori spinti di scoagulazione: con un INR di 3,5-3,7 l'incidenza di emorragie intracraniche è stata dell'1,8% all'anno27,31. Uno studio osservazionale su casistiche "territoriali" ampie ha mostrato che neppure livelli modesti di scoagulazione, con INR stabilmente inferiore a 2, proteggono dalle complicanze emorragiche, anche se queste, paradossalmente più elevate nei pazienti con ridotta scoagulazione, sono da addebitare ad uno stato generale più compromesso che condiziona una preselezione dei casi verso la scoagulazione parziale32. Dai dati emerge comunque che, oltre all'anticoagulante, altri fattori concorrono ad aumentare il rischio emorragico: i farmaci associati, la vasculopatia, l'ipertensione, di cui è necessario tenere conto nelle decisioni cliniche30,31. Sul problema del livello minimo di scoagulazione utile nei pazienti anziani i dati sono insufficienti e per ora non favorevoli: rimane in particolare da investigare sulla possibilità di scendere sotto INR uguale a 2 in sottogruppi selezionati.
Le conclusioni pratiche, suffragate anche da recenti studi27, indicano che nei pazienti ad alto rischio, identificati dalla presenza di età avanzata e di almeno uno degli altri fattori maggiori, il livello ottimale di INR, in grado di coniugare la protezione massima col minor rischio di complicanze, è compreso fra 2 e 310,33,34. Per graduare la posologia del warfarin è necessario un monitoraggio laboratoristico periodico, poiché altri regimi di somministrazione come quelli che prevedono la dose fissa senza monitoraggio, anche in associazione con aspirina, non sembrano proteggere dal rischio embolico pur senza ridurre il rischio emorragico32,33. Resta ancora da determinare il livello di scoagulazione consigliabile per i pazienti non ad alto rischio, in cui esiste anche il problema della opportunità o meno di intraprendere il trattamento dicumarolico. Una volta deciso in questo senso, il bilancio costo/beneficio suggerisce di adottare, in prima istanza, una identica condotta terapeutica34,35.
Nei pazienti di età inferiore a 65 anni che presentino almeno un fattore di rischio ed in quelli di età superiore ai 65 anni anche in assenza di tali fattori, l'orientamento attuale è quello di impiegare la scoagulazione con le stesse modalità operative stabilite per la categoria a rischio tromboembolico elevato. Nei soggetti di età superiore a 75 anni è consigliabile restare su valori più prossimi a INR 2. Fatta salva la identificazione dei fattori indipendenti di rischio, in loro assenza viene consigliato di includere nella valutazione le altre variabili cliniche ed ecocardiografiche, quali la storia di angina, di pregresso infarto miocardico e di scompenso cardiaco, e le anomalie dell'apparato mitralico35, 36.
Profilassi con antiaggreganti piastrinici
L'impiego degli antiaggreganti piastrinici nella prevenzione degli ictus in corso di FA è fondato su un razionale fisiopatologico, quale la documentazione di un intervento delle piastrine nella trombogenesi cardiaca, sulla dimostrazione della loro efficacia in condizioni ischemiche cardiovascolari (infarto miocardico, aterosclerosi carotidea, cerebrale e periferica) e su motivi pratici legati alla disponibilità di un trattamento alternativo nei pazienti con controindicazioni o con dubbio rapporto rischio/beneficio per il trattamento anticoagulante.
Quattro studi comparativi diretti tra warfarin e ASA, due in prevenzione primaria11,22, uno in prevenzione secondaria20 e uno di confronto tra ASA più warfarin a dosaggio fisso e warfarin a dosaggio guidato dai controlli dell'INR33, hanno dimostrato la netta superiorità del dicumarolico nella prevenzione degli eventi embolici cerebrali nei pazienti con FA, in parte controbilanciata dalla minore incidenza di effetti collaterali dell'ASA.
L'efficacia dell'ASA nei confronti del placebo è stata valutata in due studi di prevenzione primaria e in uno di prevenzione secondaria. I primi due, impiegando dosaggi diversi, rispettivamente 75 e 325 mg/die, hanno rilevato una riduzione del rischio relativo del 18% l'uno, del 42% l'altro11,13. Solo nel secondo studio la riduzione è però risultata statisticamente significativa. La disparità dei risultati potrebbe derivare dalla minore età media dei pazienti reclutati nel secondo studio (67 vs 75 anni), causa di una riduzione del rischio per sé, e dalla maggiore incidenza di scompenso di circolo dei pazienti arruolati nel primo studio, presumibilmente responsabile del prevalere della tromboembolia relata alla stasi atriale e ventricolare, su cui l'ASA è notoriamente poco attivo. La metanalisi dei due studi indica come il beneficio ottenibile con l'uso dell'ASA, in termini di riduzione del rischio di ictus, sia evidente soprattutto nei pazienti con ipertensione arteriosa10. Nello studio sulla prevenzione secondaria, l'ASA, somministrato al dosaggio di 300 mg al giorno, ha ridotto del 25% l'incidenza annua di eventi cardiovascolari fatali, di ictus non mortali, di infarti cardiaci o episodi tromboembolici sistemici nei pazienti con FA e recente ischemia cerebrale (40 eventi in meno per 1.000 pazienti trattati per anno)20. La riduzione del rischio, statisticamente non significativa, è risultata di entità sovrapponibile a quella rilevata globalmente negli studi sulle patologie ischemiche vascolari37.
Dalla metanalisi condotta su questi tre studi38 risulta che l'ASA possiede una discreta utilità nella prevenzione delle tromboembolie cerebrali, comportando una riduzione media degli eventi, statisticamente significativa, del 21%; l'analisi per sottogruppi tende però a restringere tale beneficio ai soli soggetti ipertesi (in virtù della inferenza dei dati di uno studio). Una seconda revisione sistematica che ha analizzato i risultati degli stessi tre studi con una metodologia giudicata più corretta, non ha invece confermato la significatività statistica del beneficio ottenibile con l'ASA39. A ciò si aggiunge che una subanalisi del secondo studio di prevenzione primaria ha messo in evidenza come l'ASA sarebbe significativamente più efficace nella prevenzione degli eventi ischemici cerebrali su base vascolare non cardiogena rispetto a quelli cardioembolici associati a FA40.
Nella prevenzione secondaria di recente è stato valutato un altro antiaggregante, l'indobufene, precedentemente dimostratosi efficace nella profilassi della tromboembolia nei pazienti con patologia cardiaca41. L'indobufene è stato confrontato col warfarin a dosaggio variabile, mantenendo l'INR fra 2 e 3,5 in soggetti con recente evento ischemico cerebrale minore e FA non valvolare, di età media 72 anni42. Nei due gruppi di pazienti, l'incidenza degli eventi vascolari globali è risultata simile, 10,6% vs 9%, anche dopo aggiustamento per i fattori prognostici maggiori, mentre si sono registrati più ictus fatali e non fatali, 5% vs 4%, nei soggetti trattati con indobufene, senza differenze statisticamente significative, ed un eccesso di sanguinamenti cerebrali e non cerebrali nel gruppo warfarin e di ictus non invalidanti nel gruppo indobufene.
Dai pochi studi randomizzati sin qui effettuati sulla prevenzione secondaria risulta che gli antiaggreganti sembrano più efficaci nel ridurre la morbilità e la mortalità totale per gli eventi ischemici globali, ove raggiungono i livelli osservati in studi analoghi sulla popolazione globale senza FA37, mentre risultano di modesta utilità nel prevenire le recidive ischemiche cerebrali. Al momento non vi sono invece elementi in favore di un'analoga differenziazione dell'efficacia nella prevenzione primaria.
Allo stato attuale delle conoscenze, nella prevenzione primaria e secondaria della tromboembolia cerebrale cardiogena relata a FA è consigliabile considerare l'ASA e l'indobufene, alle posologie testate di 300-325 mg/die e 200-400 mg/die rispettivamente, come farmaci di seconda scelta, da riservare ai soggetti con controindicazioni al trattamento con dicumarolici ed eventualmente ai soggetti con FA isolata di età inferiore a 65 anni per cui si ritenga opportuno intraprendere terapia profilattica. Non è giustificato il loro impiego di prima scelta ed ubiquitario nei soggetti anziani, nei quali il rapporto rischio/beneficio dei dicumarolici è vantaggioso anche tenuto conto delle complicanze emorragiche. E' presumibile un maggiore uso degli antiaggreganti laddove vi siano elevato rischio emorragico, pregresse complicanze da anticoagulanti e difficoltà personali o sociali che riducano in maniera non accettabile i margini di sicurezza con dicumarolici.
Le indicazioni operative
Il trattamento anticoagulante riduce di 2/3 il rischio di ictus tromboembolico sia nei maschi che nelle femmine con fibrillazione atriale (FA) non reumatica persistente o parossistica. Per prevenire un ictus all'anno è necessario trattare con warfarin 31 pazienti. Nei pazienti con FA che hanno già avuto un ictus o un TIA il trattamento anticoagulante previene un secondo ictus all'anno ogni 11 pazienti trattati. Il raggiungimento di un beneficio pieno dipende da un attento monitoraggio laboratoristico (mantenere l'INR tra 2 e 3, vicino a 2 negli ultra75enni) e da una buona compliance da parte del paziente. I pazienti con FA isolata con meno di 65 anni corrono un rischio molto basso di eventi ischemici cerebrali e non vanno sottoposti a trattamento anticoagulante.
Nei soggetti nei quali il warfarin sia controindicato, l'aspirina, al dosaggio di 325 mg al giorno rappresenta la possibile alternativa. Per la prevenzione secondaria può essere proposto in alternativa anche l'indobufene, al dosaggio di 200-400 mg al giorno.
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