Pochi argomenti nella medicina pratica “di tutti i giorni“ riconoscono tante interpretazioni diverse come il ruolo della vitamina D: dalle funzioni fisiologiche all’impiego in terapia. Da semplice “vitamina” o “principio antirachitico” al riconoscimento di un vero e proprio ruolo ormonale con recettori diffusi in numerosi organi e tessuti: lo status del colecalciferolo è cambiato notevolmente in pochi anni. Con la diffusione delle metodiche di dosaggio dagli istituti di ricerca ai laboratori clinici, si sono posti numerosi problemi sull’appropriatezza della misurazione della vitamina D nella pratica clinica, sui criteri di normalità del dato, e sui provvedimenti da adottare in caso di risultati anomali. Su tutto, la consapevolezza di poter conseguire risultati clamorosi in alcuni “pazienti” selezionati a fronte di numerosi trattamenti non incisivi sul piano clinico, se non addirittura dannosi. Diviene pertanto essenziale per il clinico –a tutti i livelli– fissare alcuni punti fermi in attesa che, nelle aree di ricerca attiva dove esistono tuttora incertezze e contraddizioni, si giunga ad evidenze più consolidate di quelle attualmente disponibili.
Vitamina D: figlia del soleLa vitamina D (colecalciferolo) viene prodotta per effetto sulla cute dei raggi ultravioletti di tipo B (lunghezza d’onda 290 - 315 nm) che trasformano un precursore, il 7 deidrocolesterolo (la pro-vitamina D), in pre-vitamina D e successivamente in colecalciferolo: la vitamina D. La vitamina D può essere quindi depositata nel tessuto adiposo o trasformata a livello epatico in 25OH vitamina D (calcidiolo o calcifediolo) che, veicolata da una proteina vettrice estrogeno-dipendente, rappresenta il deposito circolante della vitamina D. Il livello ematico della 25OH vitamina D è ritenuto indicatore attendibile dello “status” di disponibilità di vitamina D nella popolazione generale (solo nei nefropatici gravi si preferisce il dosaggio del calcitriolo)1. Per esercitare la propria attività biologica il 25OH colecalciferolo deve essere trasformato in 1-25 (OH)2 colecalciferolo o calcitriolo, ligando naturale per il recettore della vitamina D. La sede principale della 1-idrossilasi è il rene ma questo enzima è presente anche nelle paratiroidi, ed in altri tessuti epiteliali come prostata, mammella e colon dove la 25OH vitamina D può essere trasformata localmente nel prodotto attivo. Il calcitriolo stimola l’assorbimento di calcio e fosforo e partecipa alla regolazione della trascrizione di numerosi geni in aree non correlate al metabolismo osseo: ne sono solo alcuni esempi la produzione di insulina, la contrazione miocardica e muscolare in genere, la funzione immunitaria o l’induzione all’apoptosi di diverse linee cellulari.
Sole: in quali forme e quali dosi?Le pagine mediche dei giornali sono divise tra effetti favorevoli della esposizione al sole e pericoli ad essa connessi: a volte i toni sono accesi come se si dovesse scegliere tra fratture e melanoma. Per essere efficaci i raggi solari devono essere diretti: il vetro blocca i raggi UV per cui la luce della finestra non porta a produzione di vitamina D. Allo stesso modo la cute trattata con filtri protettivi non produce vitamina D (il cosiddetto “fattore di protezione 15” blocca la maggior parte della produzione di vitamina D).
Il sole “che conta” alla nostre latitudini è solo quello tra le ore 10 e le 15. L’esposizione risulta scarsamente efficace se il cielo è nuvoloso o se la cute è fortemente pigmentata. In genere l’esposizione del viso e degli arti per 10-15 minuti due-tre volte alla settimana in estate induce una produzione sufficiente di vitamina D mentre in altre stagioni (con esposizione limitata del viso e dell’avambraccio - mano) sono necessari tempi di 20-30 minuti per 3-4 volte alla settimana2. L’esposizione in costume da bagno ad una dose che porti ad un lieve eritema equivale all'assunzione di circa 10.000-25.000 UI di vitamina D (40-100 gocce dei comuni preparati di colecalciferolo)3. Trascorrere più di una settimana in soggiorno marino è associato con un minore rischio di ipovitaminosi D. L’esposizione al sole non può causare ipervitaminosi perché la vitamina D prodotta in eccesso viene distrutta in loco. Con queste esposizioni non è stato registrato un incremento del rischio di tumori cutanei4. La vitamina D si deposita nei tessuti adiposi dai quali viene mobilizzata durante i periodi a bassa esposizione solare. Questa capacità si mantiene anche col passare degli anni anche se con una minore efficienza. Fattori socio-culturali come l’obbligo del velo o del burqa per le donne islamiche o gli abiti monastici per gli ordini religiosi possono determinare gravi carenze di vitamina D. Allo sviluppo di ipovitaminosi D contribuiscono anche per gli adulti il lavoro in ambienti chiusi anche se bene illuminati e per i bambini il passatempo in attività ludiche passive (dipendenza da televisore o giochi con computer o play-station) al posto della passeggiata nel parco o del giro in bicicletta. Svolgere una vita attiva (soprattutto all’aria aperta) ha un ruolo importante nel ridurre il rischio di ipovitaminosi D e di frattura.
Solo sole?Sull’impiego degli apparecchi a raggi UV, le cosiddette lampade abbronzanti, come sostituti alternativi dell'esposizione solare, non esiste ancora una posizione univoca. La maggior parte degli apparecchi a raggi UV emettono dal 2 al 6% di radiazione B UV e, secondo uno studio osservazionale, può rappresentare una sorgente alternativa di vitamina D se usati con moderazione con occhiali e con un filtro di protezione al volto per ridurre il rischio di tumori cutanei UV correlati5,6.
Tuttavia a fronte di un possibile effetto benefico sullo status vitaminico ed osseo, esistono numerosi dati che documentano un incremento del rischio a lungo termine di carcinoma basocellulare, spinocellulare e di melanoma invasivo7, e addirittura del rischio di morte per neoplasia in generale in soggetti esposti alle apparecchiature eroganti raggi UV8. L’argomento è stato oggetto di una importante controversia tra le aziende produttrici di apparecchi abbronzanti e le autorità sanitarie americane che in una serie di documenti supportati da numerose evidenze sostengono che per godere dei benefici della vitamina D è meglio ricorrere alle sorgenti alimentari o a supplementi orali, ma non alle lampade abbronzanti9.
Italia: Paese dd’o’ sole???I risultati di rilevazioni della vitamina D in Italia mostrano una elevata prevalenza di ipovitaminosi, in apparente contrasto con la diffusa credenza che fa dell’Italia il Paese del sole.
Una rilevazione su 870 determinazioni eseguite in un laboratorio dell’Emilia in una popolazione non selezionata per sesso o età, ha mostrato valori “sufficienti” solo nel 28% (escludendo i prelievi effettuati per controllo). Uno studio rivolto alla popolazione femminile anziana (60-80 anni) afferente a centri per l’osteoporosi di tutta Italia ha mostrato che il 76% delle donne presentava livelli sierici di 25OH vitamina D inferiori a 12 ng/mL. Il dato peggiore è stato rilevato in Italia centrale (nonostante il numero di giorni soleggiati/anno superiore rispetto alle rilevazioni effettuate nell’Italia settentrionale) e nelle donne fumatrici o di livello culturale inferiore10. Nell’interpretazione del dato va considerato che la latitudine dell’Italia (che corrisponde a quella del sud del Canada) consente solo poche ore di esposizione ad una lunghezza d’onda UV efficace per la sintesi della vitamina D. Per questi motivi la popolazione italiana, soprattutto anziana, diventa potenziale candidata ad accertamento ed eventualmente terapia sostitutiva.
Bibliografia
1. Pérez-López FR, Brincat M, Erel CT et al. EMAS position statement: Vitamin D and postmenopausal health. Maturitas 2012; 71:83-88.