Il Ministero della salute ha intenzione di porre limitazioni alle prescrizioni diagnostiche, per limitarne l’abuso in nome dell’appropriatezza prescrittiva. Da quanto riportato finora in modo molto sommario su organi di stampa, sembrerebbe che l’attenzione sia puntata su indagini normalmente decise in ambito specialistico, ma c’è qualcosa che riguarda anche i medici di medicina generale, che pare prescrivano troppe colesterolemie. Su questo sarebbe difficile trovare materia per un serio commento; più utile, forse, tentare una disamina complessiva. Il termine appropriatezza non dovrebbe avere avversari, condividendo con altri termini (ad esempio “qualità” o “prevenzione”) un’indeterminazione ed una vaghezza sufficienti a far sì che ognuno possa riempirlo dei contenuti che preferisce per rendere meglio presentabili i propri obiettivi. Per la verità i medici usano poco il termine appropriatezza, più tipico del linguaggio politico e burocratico, anche se vi sono differenze tra clinici, funzionari o epidemiologi, in rapporto a diversi valori e riferimenti di fondo: la pratica consolidata, l’organizzazione e funzionalità dei servizi o le prove di efficacia.
Sentir parlare di appropriatezza suscita una certa preoccupazione, perché lascia sospettare l’intenzione di tagli alla spesa sanitaria, controlli e possibili sanzioni, motivati da compatibilità economiche e basati su regole stabilite non si sa bene da chi, né su quali dati reali. Posto che non ci si debba (pre)occupare di quante volte si può dosare il colesterolo (e perché non i trigliceridi?) che, comunque la si rigiri, non è il massimo in termini di praticabilità, risparmio, né di possibilità di controllo, è legittimo sentire puzza di bruciato. Tuttavia manca un punto di vista non meramente difensivo da parte dei medici, quasi non avessero una propria concezione, ragionevolmente condivisibile, che parta dalla propria esperienza clinica e di presa in carico del paziente. Definire l’appropriatezza in positivo sarebbe inevitabilmente astratto e generico, tuttavia basterebbe una autonoma obiettiva riflessione almeno su pratiche di scarso beneficio per i pazienti, che ci si potrebbe proporre progressivamente di limitare e abbandonare, nella dovuta consapevolezza che la sostenibilità economica è il principale problema di tutti i sistemi sanitari. Dell’uso appropriato dei farmaci si parla da sempre, forse fin troppo: è più facile, almeno in teoria, perché ciascun farmaco ha le sue indicazioni e controindicazioni, e vi sono oramai numerose linee guida sul trattamento di pressoché qualsiasi condizione clinica, comune e non. Inoltre, prima la CUF e poi l’AIFA hanno prodotto le famose (o famigerate, secondo i punti di vista) “note” limitative, con un’esperienza che, nel complesso e a distanza di anni, si può considerare sostanzialmente fallita per molti motivi, per lo più indipendenti dalla pratica dei medici di medicina generale a cui erano di fatto rivolte, e che dovrebbe invitare i decisori istituzionali a qualche riflessione per non ripetere i medesimi errori.
È invece molto più complicato pensare ad un sistema di controlli dell’appropriatezza prescrittiva riguardante gli esami diagnostici (di laboratorio o strumentali), tanto più se – come sempre – le regole di riferimento dovessero seguire una logica top-down (sia pure con l’ovvio contributo di esperti). Non che se ci fosse un coinvolgimento più rilevante dei medici in un progetto di questo tipo le cose migliorerebbero di molto: solitamente chi è coinvolto nello sviluppo delle eventuali regole prescrittive non è rappresentativo della media dei clinici, ma soprattutto è arduo dare delle regole generali a cui la pratica clinica debba conformarsi, ignorando la singolarità del “caso clinico”, le numerose variabili che entrano in gioco e anche lo stile professionale e l’esperienza di ciascun medico. In questo contesto ogni controllo sarebbe poi impossibile e tutta l’operazione risulterebbe velleitaria e destinata ad un sicuro fallimento. Però l’eccesso di esami diagnostici (con costi importanti a carico del Servizio sanitario e quindi dei pazienti stessi) esiste, e la questione non può essere liquidata opponendo una serie di impossibilità. A prescindere dalla vera e propria malpractice, si spera rara e di cui non serve parlare, l’abuso è legato in parte a pratiche di medicina difensiva, in parte a consuetudini consolidate, ed in parte è anche legato alla domanda dei pazienti (peraltro in gran parte determinata dai medici), che non può essere considerata ininfluente e non è sempre facile da fronteggiare. Manca poi una adeguata gestione informatica dei referti di ciascun paziente, che li renda agevolmente consultabili da ciascun medico curante, anche temporaneo, con la conseguente inutile ripetizione di esami, specialmente di laboratorio. C’è quindi un intreccio di motivazioni soggettive ed oggettive quasi inestricabile, che rende impossibile immaginare una soluzione unica e semplice.
Medicina difensiva La medicina difensiva si basa su un equivoco: l’idea che l’accuratezza e la scrupolosità delle decisioni diagnostico-terapeutiche sia in qualche modo dipendente, magari quasi proporzionale, alla quantità di accertamenti eseguiti, cioè di dati raccolti. Quantità e qualità sembrano così equivalenti e sovrapposte. L’atteggiamento difensivo può tuttavia funzionare solo se si accompagna all’incompetenza di chi è poi deputato a valutare e giudicare la responsabilità dei medici nel caso di eventi critici da cui sia scaturito un danno per i pazienti, il che significa che ha discrete probabilità di non funzionare nemmeno. Ma poiché nessun eccesso “diagnostico” è formalmente perseguibile per legge, mentre lo può essere evidentemente una inaccurata valutazione delle condizioni del paziente, la prescrizione di esami strumentali e di laboratorio sostanzialmente inutili nel caso specifico viene automaticamente percepita dai medici come forma di possibile autotutela.
Nella medicina generale, checché se ne pensi, le pratiche difensive non sono così diffuse; per lo più si limitano all’eccesso di delega agli specialisti (per sgravarsi di responsabilità o almeno condividerle), ma questo determina comunque conseguenze negative, perché tutto ciò che può essere gestito nell’ambito delle cure primarie non dovrebbe essere delegato, sia perché ognuno deve fare il proprio lavoro, sia perché la cultura e la formazione degli specialisti è giustamente più centrata sull’alto rischio o sulla complessità tecnica dei casi clinici, e di conseguenza è appropriata per quel tipo di pazienti e non per tutti. Se non si rispetta questo principio, l’intervento specialistico può perfino ridurre, anziché migliorarla, l’appropriatezza prescrittiva. È inevitabile – al di là di ogni riferimento a linee guida – che il valore attribuito per esempio ad una colesterolemia o ad una pressione arteriosa lievemente elevate sia diverso per un medico di medicina generale rispetto ad un cardiologo che vede pazienti in unità coronarica; ne derivano sicuramente differenze di atteggiamento nelle decisioni diagnostiche, terapeutiche e di follow up. Inoltre la consuetudine alla delega determina nei pazienti la convinzione che si tratti di prassi normale, quindi in qualche modo dovuta, con tutto ciò che ne consegue per i medici di medicina generale, in termini di immagine professionale, di ruolo riconosciuto (da decisori a meri esecutori) e anche di competenze che finiscono per perdersi, dequalificando la professione generalista, ma minacciando con ciò in definitiva la qualità di tutto il sistema che è ovviamente interdipendente.
Consuetudini consolidate Quando l’obiettivo è di giungere ad una diagnosi in presenza di sintomi, qualsiasi riferimento a piani diagnostici standard non riesce a tenere completamente conto del singolo caso clinico, della storia del paziente e dei possibili ragionamenti clinici alla base dello specifico problem solving, anche se a volte si rileva una preoccupante tendenza a fare “tutto quello che esiste” attorno al sintomo (o alla sua localizzazione anatomica), senza articolare una o più ipotesi che indirizzino in modo selettivo le indagini da effettuare. Tuttavia l’ambito che andrebbe maggiormente esplorato è quello dei follow up di patologie croniche o condizioni di rischio. Sono queste che determinano il più vasto carico di esami e che allungano le liste di attesa, in cui magari confluiscono appuntamenti sia per la diagnostica, sia per i follow up, cosicché molti pazienti finiscono per effettuare privatamente e a loro carico esami strumentali, specie di diagnostica per immagini. Qualcuno pensa che le liste di attesa servano di fatto a calmierare le richieste, e quindi che non ci sia una reale volontà di ridurne troppo i tempi di attesa, ma questo implica ovviamente l’emergere e l’aggravarsi di diseguaglianze basate sulle condizioni socioeconomiche e culturali dei singoli pazienti.
In teoria il medico potrebbe distinguere diversi gradi di priorità per alcuni esami, ma si tratta di procedure non attivate ovunque, spesso definite con l’elaborazione (unilaterale) di una casistica nosografica di cui è complicato tenere conto nella pratica quotidiana e che non lascia sufficiente discrezionalità. Bisognerebbe semplicemente chiedersi che cosa è effettivamente utile nel monitoraggio di queste condizioni, che cosa impatta sulla prognosi e qual è il valore aggiunto di ciascun ulteriore dato clinico. I follow up che influiscono di più sono quelli oncologici e cardiologici, e, in minor misura, delle patologie respiratorie. In questi ambiti, le prove di un impatto sulla prognosi dei controlli periodici di laboratorio e strumentali in pazienti stabili o asintomatici, spesso mancano o sono piuttosto deboli, quando addirittura non smentiscano l’esistenza di correlazioni. Se certamente monitorare la risposta ad una chemioterapia antineoplastica è indispensabile, siamo sicuri che una diagnosi preclinica di recidiva tumorale impatti sulla prognosi di pazienti asintomatici in modo tale da giustificare la meticolosa ricerca di cattive notizie, spesso per molti anni, dopo un trattamento con intento radicale? E se ci sono prove, valgono per tutti i tumori? E in ambito cardiovascolare, qual è l’impatto del follow up con prove da sforzo, ecocardiografie e visite cardiologiche di un paziente del tutto asintomatico con un pregresso infarto cardiaco?
Certamente chi ha avuto una patologia importante va seguito nel tempo. Ma come in molti altri casi, la sorveglianza clinica attiva e sistematica dà il massimo valore aggiunto: un colloquio mirato (anche basato su questionari standardizzabili) ed un semplice esame clinico hanno il valore aggiunto maggiore in termini di costo-efficacia, mentre il beneficio marginale di ulteriori indagini progressivamente diminuisce fino a divenire praticamente irrilevabile quando si supera una certa soglia. Una sorveglianza clinica attiva sarebbe fattibile nell’ambito delle cure primarie (cui spetterebbe per logica competenza in una appropriata valorizzazione delle professioni) se non fossero prive di risorse, in particolare di collaboratori di studio e di personale infermieristico appositamente formati, gli uni ad organizzare e gestire i richiami, gli altri alla raccolta di dati significativi per cogliere variazioni o instabilizzazioni del quadro clinico, informazioni sull’adesione alla terapia e sulle abitudini di vita importanti in termini di prevenzione secondaria. Fatte salve le condizioni di rischio elevato di alcuni pazienti più critici, numerose altre condizioni frequenti, dalla BPCO all’ipotiroidismo, dal diabete al rischio cardiovascolare variamente caratterizzato, potrebbero essere seguite analogamente, limitandosi ad indagini essenziali e soprattutto stabilendo una collaborazione col paziente, che se è già il maggiore esperto di se stesso, può diventare anche sufficientemente esperto della sua patologia da poter essere affidabilmente capace di sapersi gestire e saper valutare opportunamente i casi in cui ricorrere tempestivamente al medico o ai suoi collaboratori. Se ci fossero le condizioni, anche su questo sarebbe utile immaginare ricerche mirate, con l’intenzione di verificare se, oltre alla riduzione di esami non necessari, migliorano anche la qualità della vita dei pazienti, e magari gli esiti: non è inverosimile. L’investimento in appropriatezza va fatto quindi in primis sul corretto utilizzo delle competenze del personale che a vario titolo opera nel sistema sanitario - a partire dalle cure primarie nelle quali bisognerebbe credere ed investire di più - e a partire dai pazienti che, se responsabilizzati e coinvolti nella propria cura, non sentiranno la mancanza di esami che vengono interpretati come forma di “prevenzione”, fuori dal loro controllo, mentre rappresentano semplicemente il fotogramma delle condizioni cliniche attuali, senza impatto su quelle successive se manca una efficace e vera prevenzione che è invece sempre, almeno in gran parte, nelle mani del paziente stesso, specie se adeguatamente informato.
La domanda del paziente La domanda del paziente viene spesso addotta come causa di prescrizioni diagnostiche (e terapeutiche) inappropriate, tuttavia i pazienti imparano dai medici (curanti o divulgatori) ad associare alla sintomatologia i corrispondenti esami diagnostici (o certi farmaci), in una sorta di automatismo. Come ogni medico di medicina generale sa bene, la casistica è ricca di luoghi comuni difficili da sradicare, perché quando un comportamento professionale diviene prassi comune, è progressivamente sempre più faticoso, anche per chi non lo condivide, andare controcorrente. Le consuetudini divengono così contagiose, indipendentemente dal fatto che siano corrette o meno. Tipico il caso delle patologie articolari che sono causa di richieste di risonanza magnetica, ma gli esempi sarebbero molti, tanto nell’ambito diagnostico quanto in quello terapeutico. Se è fastidioso per il medico che un paziente lo consulti richiedendo un esame (o un farmaco) anziché per sottoporgli un problema di salute, tuttavia la richiesta non può e non deve mettere il medico con le spalle al muro: proprio perché è una eventualità comune, si deve riconoscere che è in qualche misura divenuto “normale”, fa parte del gioco, e quindi bisogna farsene carico con metodo e professionalità, se necessario anche con una formazione specifica che parta nel definire questo fatto come un problema oggettivabile, di normale competenza professionale, quindi affrontabile e potenzialmente, almeno in teoria, superabile. È falso che i pazienti siano “impazienti”: lo divengono se percepiscono che non ci si sta facendo carico del loro problema, e allora cercano di farsene carico a modo loro. Non è un invito ad un purtroppo ingiustificato ottimismo: le situazioni sono complesse e le variabili in gioco (inclusa la cultura dei medici e dei pazienti) sono molte. Di certo non si sarà sempre convincenti né si avrà sempre successo nonostante le migliori intenzioni, proprio perché abitudini consolidate richiedono tempo per essere cambiate. Quello che conta è evitare atteggiamenti rinunciatari che finiscono per perpetuare gli automatismi dall’una e dall’altra parte.
Per concludere Poche parole chiave sono alla base di un miglioramento dell’appropriatezza prescrittiva, intesa come riduzione di inutili prescrizioni diagnostiche e terapeutiche: miglioramento delle condizioni di lavoro dei medici, liberando risorse e fornendone di nuove, che è compito del sistema sanitario; presa in carico con professionalità e metodo dei problemi dei pazienti, anche quelli “minori”, che è compito di ciascun medico. Regole imposte, che si sovrappongano a pratiche ritenute immutabili e ad atteggiamenti meramente difensivi, non risolveranno alcun problema.
Data di Redazione 06/2015