Il punto di partenza per questa nota è un editoriale del BMJ, molto recente1, di cui è utile ri-proporre l’articolazione:
a. si ricorda che il paracetamolo è, da sempre ed ovunque, il farmaco di riferimento per i dolori lievi e moderati;
b. si sottolinea che questa indicazione preferenziale è ancor più netta per dolori muscolo-scheletrici, inclusi osteo-artrite e dolore spinale;
c. su questo sfondo di certezze e di tranquillità, si passa ad affermare, con lo stesso tono di ovvietà e di certezza, che tutto lo scenario è cambiato, e che le ragioni sono da trovare in un articolo nello stesso numero di BMJ2.
Al termine di un lavoro materializzatosi in una revisione sistematica e metanalisi, Machado e colleghi hanno concluso che “il paracetamolo è inefficace nel trattamento del mal di schiena e fornisce solo vantaggi minimi e di breve durata alle persone con osteoartrite” 2. E non si tratta di semplici conclusioni perché “questi risultati portano a riconsiderare le raccomandazioni sull’uso di paracetamolo per pazienti con dolori di schiena e osteoartrite del ginocchio o dell’anca”. Una conferma di questa “novità” in negativo, sembra ritrovarsi anche sulle pagine di Evidence Based Medicine che arrivano alla stessa conclusione commentando uno studio comparso sulle pagine di Lancet3. Anche se molte LG raccomandano il paracetamolo come farmaco di prima linea in caso di mal di schiena, incluso il NICE, “lo studio di Lancet mostra definitivamente che è inefficace”3. In modo appena un po’ distaccato lo studio di Lancet concludeva che “confrontato con il placebo, il paracetamolo non promuove la guarigione in caso di mal di schiena”4. Non è solo l’unica novità su questa molecola, da anni considerata sicura in ogni genere di terapia, non solo in quelle acute. Per esempio, dovendo indicare cosa scegliere tra paracetamolo e FANS in caso di terapie croniche, il Martindale scrive che entrambi “are suitable for use in acute or chronic pain”5. Ma il fatto è che i danni da paracetamolo nelle terapie a lungo termine potrebbero essere stati finora sottostimati, almeno secondo uno studio comparso su Annals of the Reheumatic Disease dove la conclusione è che “riteniamo che il vero rischio della prescrizione di paracetamolo per lunghi periodi come accade nel dolore cronico, sia maggiore di quanto percepito dalla comunità medica”6. Tutto molto nuovo e tutto, o almeno tanto, da cambiare dunque? Una verifica condotta su alcune delle fonti informative più frequentemente citate come guida per la pratica quotidiana7-9, permette di fatto di avere un quadro di riferimento più complessivo, che è “ovvio” per quanto riguarda le raccomandazioni generali, ma che è interessante soprattutto per le domande che permette di esplicitare, e le conseguenze operative che si possono trarre.
1. Nonostante la loro frequenza, e la loro rilevanza per una buona qualità di vita, i sintomi e le condizioni di dolore leggero-moderato, non hanno raccomandazioni farmacologiche riconducibili alla logica generale della EBM.
2. Il controllo del dolore è stato molto marginalmente oggetto di investimenti di ricerca adeguati, sia da parte del pubblico che del privato. Unica eccezione, molto importante e molto controversa, si può considerare la stagione dei trial sui Coxib. Questi avevano però come obiettivo (certo non raggiunto, anche per il confermarsi di un profilo B/R sfavorevole) il controllo di una patologia cronica, di cui il sintomo dolore, più o meno acuto o ricorrente, era un end-point surrogato-secondario.
3. Nella stragrande maggioranza, gli studi mirati al dolore acuto-subacuto non oncologico sono stati condotti con criteri che difficilmente possono essere considerati oggi affidabili nel produrre informazioni trasferibili nella pratica.
4. Mancano soprattutto informazioni che permettano di qualificare in modo meno generico le raccomandazioni sostanzialmente banali che sottolineano di essere prescrittori ben coscienti della variabilità individuale, della possibilità di una maggiore suscettibilità dell’età anziana agli effetti indesiderati (magari dimenticando però che gli anziani possono essere quelli che hanno più sintomi dolorosi da infiammazioni e degenerazioni), dell’importanza di non “esagerare” nel controllo “cronico” di sintomatologie acute-ricorrenti.
5. Mentre è certo –e ovvio– che molecole della stessa classe possono essere diverse nei loro profili di B/R, non ci sono studi che ne permettano scelte razionali e sistematiche. Nella pratica reale ci saranno sempre i “responders” preferenziali all’una o all’altra molecola o, simmetricamente, intolleranti ad un’altra ancora.
6. Di fatto un'epidemiologia affidabile dell’appropriatezza o meno di terapia per dolori leggeri-moderati non solo non esiste, ma non ha senso, se non è ben stratificata a priori per problemi, cui il sintomo dolore (più o meno acuto) è collegato, in termini causali o come sintomo da controllare. Una revisione della letteratura (scientifica e normativa) orientata per problemi10-14 dà lo stesso quadro di dispersione-scarsità-genericità di raccomandazioni che si è rilevato rivedendo le linee guida che avevano come denominatore comune e trasversale il sintomo dolore.
7. La raccomandazione certo più ragionevole (urgente? rilevante? scientificamente interessante? attenta al quotidiano delle persone? occasione per stabilire rapporti di cura più collaborativi con coloro che hanno più bisogni inevasi? ……..) rivolta soprattutto ai MMG e/o agli operatori che nei vari contesti assistono gli anziani, è quella di fare, con l’obiettivo di sorvegliare-valutare, un esercizio periodico di epidemiologia quanti-qualitativa del dolore controllato vs. quello non-controllato, del dolore evitabile con mezzi non farmacologici e/o con la loro combinazione. Ciò permetterebbe di riscrivere il capitolo terapeutico che è oggetto di questa nota - dalle sue poche evidenze, che sconfinano sostanzialmente nel senso comune, alle sue tante domande- a partire da dati reali e concreti (soggettivi e oggettivi) che verosimilmente sono più affidabili, perché più “rappresentativi”, di quelli infinitamente rimasticati nelle raccomandazioni da manuale. Attraverso dubbi ed evidenze su uno degli usi del paracetamolo, il problema è stato sollevato. Non si propongono peraltro risposte, se non quella, non entusiasmante, di trattare osteo-artrite e dolori muscolari con placebo? Ma proprio questo è il problema (non solo di questa categoria di farmaci e di sintomi). Se rispondono al paracetamolo come al placebo, è perché il paracetamolo è “inattivo”, o entrambi sono attivi parzialmente, perché accompagnano nel dolore, ed è con questo meccanismo che parzialmente, lo controllano? Ma quali sono, se ci sono, farmaci “certamente” o “meglio” attivi, per tutta la dispersione di problemi sopra ricordati? Benvenuto a chi risponde sul “che fare”, con studi epidemiolgici e/o di valutazione controllata quali-quantitativa.
Bibliografia