Cenni clinici
Il Clostridium difficile è un bacillo Gram-positivo, anaerobio, sporigeno, opportunista. Manifesta l’azione patogena tramite la produzione di tossine: la tossina A e la tossina B. I ceppi non tossigeni non sono responsabili di sintomatologia clinica. Da alcuni anni è segnalata la presenza di un ceppo particolarmente virulento, denominato BI/NAP1/027, produttore di grandi quantità di entrambe le tossine e quindi responsabile di epidemie molto gravi, che tuttavia non hanno colpito il nostro paese. Ha un periodo di incubazione variabile, di cui è noto il minimo (1-2 giorni), ma non il massimo, convenzionalmente (e artificiosamente) considerato attorno alle 12 settimane. La trasmissione è interumana, feco-orale; i pazienti in fase diarroica sono estremamente contagiosi; la contagiosità si riduce in modo drastico alla scomparsa della diarrea. Il C. difficile è presente in parte della popolazione sana (si stima il 2-3% degli adulti sani), ma la sua prevalenza aumenta negli anziani, specie se ospiti di strutture residenziali. L’infezione da C. difficile (CDI) può avere molteplici espressioni cliniche, di diversa gravità: dalla semplice diarrea, alla colite, alla colite pseudomembranosa, fino alle complicanze più gravi come il megacolon tossico, la perforazione, la sepsi. La diarrea, spesso associata a dolori addominali e febbre, può presentarsi con poche o moltissime scariche giornaliere; le feci sono particolarmente e caratteristicamente maleodoranti, come accade per altre infezioni da anaerobi.
Un’epidemiologia in rapida evoluzione
La CDI fu identificata alla fine degli anni ’70, quando ancora le manifestazioni cliniche erano relativamente rare. E’ però dai primi anni 2000, e in Italia in particolare negli ultimi 4-5 anni, che nei Paesi industrializzati la sua diffusione ha assunto una dimensione crescente e di grandi proporzioni, fino a portare la CDI ad essere oggi la prima causa di diarrea infettiva correlata all’uso di antibiotici e tra le infezioni più frequenti correlate all’assistenza. L’ascesa negli ultimi due-tre anni è stata talmente rapida che i sistemi di sorveglianza tradizionali, come quello italiano, che includono la CDI genericamente tra le diarree di origine infettiva “non da salmonelle”, non sono al momento adeguati per fornire dati significativi, né in ambiente ospedaliero né in comunità. I dati di diversi Paesi industrializzati mostrano comunque nell’ultimo decennio una crescita dell’incidenza di circa dieci volte. Nel Regno Unito, ad esempio, dati recenti documentano un’incidenza annuale di oltre 20 casi per 100.000 abitanti. Benché anche pubblicazioni recenti descrivano la CDI come patologia epidemica nosocomiale e soltanto di eccezionale riscontro nel territorio, osservazioni dirette degli ultimi mesi forniscono uno scenario epidemiologico locale in rapida evoluzione, verso il quadro osservato già da qualche anno negli Stati Uniti e in altri paesi europei. In sostanza, potremmo tracciare oggi quattro profili epidemiologici fondamentali dei casi di CDI:
1. casi che si manifestano in ospedale o in struttura socio-assistenziale dopo almeno 1-2 giorni dal ricovero in ospedale, considerati di origine nosocomiale certa;
2. focolai epidemici in ambito nosocomiale o in strutture socio-assistenziali, sempre più rari e via via di minor impatto dopo l’implementazione delle complesse e impegnative misure di controllo;
3. casi che esordiscono in comunità (cioè nel territorio), in pazienti che hanno avuto un recente ricovero in ospedale (entro 12 settimane precedenti l’esordio dei sintomi), in deciso aumento;
4. casi comunitari, in pazienti che non hanno in anamnesi un recente ricovero in ospedale.
I casi di cui ai punti 3 e 4 costituiscono una vera emergenza epidemiologica, in rapida espansione; in molte casistiche internazionali costituiscono ormai circa la metà di tutti casi di CDI. In un recente lavoro condotto in Gran Bretagna, in meno della metà dei 1200 casi di CDI osservati il genoma di C. difficile correlava con altri casi, probabilmente a suggerire che la trasmissione avviene oggi più raramente da pazienti sintomatici e che la diffusione della CDI deve ormai considerarsi non più sporadica con saltuarie manifestazioni epidemiche, bensì endemica. I pazienti indicati al punto 4 sono mediamente più giovani (età media 50 anni, rispetto agli oltre 70 dei ricoverati), hanno minore comorbilità, generalmente manifestazioni meno gravi e l’associazione con una terapia antibiotica in atto o pregressa è tendenzialmente meno frequente. In generale, la CDI compare comunque nella gran parte dei casi in presenza di fattori di rischio (Tabella 1), per quanto siano descritti anche casi che non ne presentano alcuno.
I primi tre fattori evidenziati sono i più rilevanti. In particolare, per un soggetto semplicemente colonizzato - cioè asintomatico - la terapia antibiotica (specie con alcuni principi attivi come le cefalosporine di 2° o 3° generazione e i fluorochinoloni), aumenta il rischio di CDI di circa 5 volte, e la terapia con PPI la raddoppia. (Non è forse superfluo rammentare in questa sede che antibiotici e PPI hanno attualmente una diffusione molto superiore rispetto a quanto scientificamente giustificato, e che fra le conseguenze del loro abuso rientrano anche numerosi altri problemi. Riguardo ai PPI in particolare, vi sono ad esempio recenti e inquietanti segnalazioni inerenti alla loro influenza negativa sull’aspettativa di vita per i pazienti anziani). In sostanza, la CDI diviene più frequente nelle situazioni nelle quali sia sovvertita la normale flora microbica, che possono quindi lasciar spazio nell’ecosistema intestinale a patogeni opportunisti come il C. difficile. Da notare che gli stessi fattori di rischio del primo episodio di CDI influiscono pesantemente anche sulla probabilità di recidiva, purtroppo già di base significativa.
La diagnostica ovvero quando sospettare una CDI, quali accertamenti effettuare e quali no
Occorre considerare la diagnosi di Diarrea Associata a C. difficile (CDAD) in caso di comparsa di diarrea, specie se con feci tipicamente maleodoranti. Il sospetto deve essere ancora più forte in presenza di uno o più dei fattori di rischio descritti. La conferma diagnostica si può avere con la ricerca nelle feci dell’antigene (Ag) e delle tossine di C. difficile. La ricerca deve essere eseguita soltanto su feci liquide (in pratica, che assumono la forma del contenitore). Non deve essere invece eseguita su feci formate né su tampone rettale.
Raccolta e conservazione del campione di feci per ricerca di C. difficile:
Fattori di rischio per CDI |
Recente terapia antibiotica, specie con fluorochinoloni, cefalosporine, penicilline, clindamicina, e se protratta per almeno 6-8 settimane |
Assunzione di inibitori di pompa protonica (PPI) |
Età > 65 anni |
Precedenti interventi di chirurgia gastrointestinale |
Sondino nasogastrico o gastrostomia |
Permanenza in ospedale (>7 giorni) o in strutture residenziali |
Recente episodio di CDI (possibile recidiva) |
Recente esposizione a casi di CDI |
Presenza di gravi patologie di base |
Immunodepressione, anche iatrogena (cortisonici, chemioterapia antiblastica, ecc.) |
I test disponibili sul mercato sono molti e ci limitiamo in questa sede a considerazioni generali.
In molti laboratori si usano test rapidi che rilevano l’antigene (glutammato deidrogenasi) di C. difficile e le sue due tossine A e B (senza distinguerle) in campioni di feci, con valori predittivi positivo e negativo superiori al 97%.
NB. Il test non va mai richiesto:
Risultati | Interpretazione | |
Ricerca Ag | Ricerca tossine A e B | |
Negativa | Negativa | Indica l’assenza dell’Ag e delle tossine nel campione in esame, o la presenza di entrambi al di sotto della concentrazione rilevabile dal test. |
Positiva | Negativa | Indica la presenza dell’antigene di C. difficile, ma non delle tossine in concentrazioni rilevabili dal test, nel campione in esame. In questo caso, se il quadro clinico persiste, si consiglia di eseguire il test su un nuovo campione per escludere la falsa negatività dovuta a condizioni di conservazione non adeguate. |
Positiva | Positiva | Indica la presenza sia dell’Ag che delle tossine nel campione in esame. |
Non interpretabile o indeterminato | Non interpretabile o indeterminato | Si consiglia di ripetere il test su un campione fresco di feci per escludere fattori interferenti dovuti a inadeguate condizioni di conservazione del campione o a particolari condizioni del paziente. |
Campione non idoneo | Campione non idoneo | FECI FORMATE, campione non idoneo per ricerca Ag e tossine di C.difficile. |
Terapia
Vi è ampio accordo in letteratura sui punti fondamentali del trattamento della CDI, che di seguito si espongono. La sospensione immediata della terapia antibiotica (somministrata per altro motivo), quando possibile, è la prima misura che si impone. Se ciò non è possibile, alcuni Autori suggeriscono di valutare la sostituzione con un antibiotico a minore rischio di favorire la CDI, come ad es. amoxicillina, macrolidi, cotrimossazolo, aminoglicosidi. I farmaci antiperistaltici e gli oppiacei dovrebbero essere evitati. Ovviamente, si impone anche una rivalutazione dell’appropriatezza della terapia con PPI, se in uso in quel paziente, con l’immediata sospensione in caso di indicazione “incerta” sia essa, come spesso avviene in questa fascia di età, la prevenzione del sanguinamento gastrointestinale da FANS (vedi Box) o come può essere in situazioni più limitate, il trattamento sintomatico di problemi gastrici.
Indicazioni documentate dei PPI |
Trattamento dell’ulcera gastrica/duodenale |
Malattia da reflusso gastroesofageo |
Prevenzione delle gravi complicanze del tratto gastrointestinale superiore in pazienti in terapia antiaggregante con ASA o in trattamento cronico con FANS, di età ≥70 anni e • con pregresse emorragie GI o • Contenitore_Sottotitoli-box-foto CharOverride-28">in trattamento con anticoagulanti o cortisonici |
Nei casi con sintomatologia moderata e senza complicanze l’antibiotico di prima scelta è rappresentato dal metronidazolo per via orale, alla posologia di 500 mg tre volte al dì per 10 giorni. Nei casi in cui sia impossibile l’assunzione per via orale, il metronidazolo va somministrato per infusione endovenosa (classe H/Osp), alle stesse dosi. Richiede cautela nei pazienti con epatopatia grave e insufficienza renale grave. Se la clearance della creatinina è <10ml/min, deve essere somministrata metà della dose. La vancomicina è di seconda scelta. La posologia raccomandata in letteratura è di 125mg per os, quattro volte al giorno, per 10-14 giorni. In Italia, la sola disponibilità delle capsule da 250mg rende di fatto obbligatoria la somministrazione di 1g al giorno, ma senza rischi particolari: la vancomicina per via orale non viene assorbita a livello sistemico e ha l’obiettivo di raggiungere elevate concentrazioni nel colon. Viceversa, se somministrata per via endovenosa non ha effetto sulla CDI, perché non raggiunge concentrazioni efficaci nel colon. Nei casi più impegnativi (ad esempio per età avanzata del paziente, numero di scariche, dolore addominale, febbre >38°C), ma non di gravità tale da orientare per il ricovero ospedaliero, la vancomicina va utilizzata in prima linea, al dosaggio sopra indicato. Nei casi più gravi o con complicanze che abbiano richiesto il ricovero in ospedale, la vancomicina rimane di prima scelta, ma potrebbero rendersi necessari schemi terapeutici più complessi (ad es. dosaggi maggiori, aggiunta di metronidazolo e clisteri con la vancomicina), che richiedono un livello di dettaglio che esula dall’obiettivo di questo articolo. Le prove di efficacia riguardanti l’uso di probiotici sia per la terapia che per la prevenzione della CDI sono al momento scarse, in genere ritenute insufficienti nelle Linee Guida.
Recidive
La recidiva compare in circa il 25% dei pazienti trattati con successo; di questi, il 35-45% avrà una seconda recidiva; di questi ultimi, oltre il 50% avrà un’ulteriore episodio. Per la prima recidiva è consigliato il trattamento con gli stessi criteri del primo episodio, poiché la recidiva non è dovuta alla resistenza antibiotica al primo farmaco utilizzato. Alcuni Autori raccomandano comunque la vancomicina per os per la prima recidiva. Per la seconda recidiva, è indicato il trattamento pulsante con vancomicina per os, con diversi schemi suggeriti, come il seguente:
Probabilmente nel prossimo futuro, per il trattamento delle situazioni più impegnative, saranno disponibili anche in Italia un antibiotico (la fidaxomicina) e la possibilità di effettuare il cosiddetto trapianto di feci, per via duodenale o rettale.
Prevenzione nei conviventi
Anche nei conviventi devono essere sospesi i trattamenti antibiotici e con PPI per i quali non vi sia un’indicazione certa. Non solo è obbligatorio, ma è anche molto utile per definire le azioni di protezione dei conviventi notificare tempestivamente il caso diagnosticato al Servizio Igiene e Sanità Pubblica. I conviventi senza fattori di rischio hanno una probabilità di ammalarsi estremamente bassa. Diversamente (il caso più frequente è quello delle coppie di anziani), sarebbe bene valutare le misure più opportune per prevenire la CDI nel convivente: educazione sanitaria, trattamento farmacologico precoce, possibilità di adottare misure di isolamento, ecc.
Conclusioni
A fronte di questo nuovo e complesso problema, in Emilia-Romagna diverse Aziende sanitarie hanno adottato o stanno adottando sistemi di risposta integrata tra Direzioni Sanitarie, Dipartimenti di Sanità Pubblica, Dipartimenti Cure Primarie (Medici di medicina generale e Servizi di assistenza infermieristica domiciliare), Laboratori di Microbiologia, Strutture di Malattie infettive. Come sottolineato da tutte le Linee Guida, il primo punto per la prevenzione della CDI consiste in un’oculata politica di contenimento dell’utilizzo di antibiotici e PPI. Anche questo è a sua volta un tema complesso, che richiede sinergie e impegno di tutto il Servizio Sanitario.
Bibliografia di riferimento
- CDC. Vital Signs: Preventing Clostridium difficile infections. MMWR 2012; 61:157-62 - Cohen SH et al. SHEA‐IDSA Guideline