Non c’è dubbio che protagonista di questo numero è il contributo evocato nel titolo dell’editoriale, con un tono vagamente impositivo. La centralità non è certo dovuta alla lunghezza – che rischierebbe anzi di essere per tante/i un motivo di non lettura –, ma ai contenuti, che sono un vero e proprio specchio-indicatore globale di quanto si sta vivendo nella medicina, al suo interno, e nei suoi rapporti con la società. I punti che seguono non sono dunque altro che un elenco delle ragioni per le quali un testo rigorosamente specialistico – e di una disciplina, od area culturale, come la psichiatria, che condivide da sempre l’ambivalenza perfetta di essere, allo stesso tempo, centrale e periferica, nell’immaginario, nella pratica, nel mercato della medicina/sanità/società,– “deve” essere di interesse generale.
1. Un primo motivo è strettamente fattuale: il DSM-5 è la documentazione, resa sistematica e globale, di un’operazione, condotta lungo anni, che è comune a tutte le specialità della medicina: la ridefinizione dei propri contenuti è espressione – concettuale, conoscitiva, operativa – di quello che si è, e perciò si propone, perché diventi visibile, praticabile, giustificabile, rimborsabile. L’averlo fatto in modo sistematico da parte di “una” società scientifica – quella americana – ne esprime certo i limiti, rispetto ad esempio alle operazioni universali-globali come l’International Classification of Diseases (ICD), ma per altri versi è esplicitazione della permanente pressione (e, alla fine, accettazione? e/o imposizione, attraverso il filtrostrumento del “valore di mercato”?) a considerare ciò che succede negli USA come riferimento autorevole se non imprescindibile (imposto? desiderato? conveniente?: ad ognuno la sua scelta).
2. Questo “esercizio” ri-classificatorio apparentemente specialistico coincide con un altro dato (una fattualità? una evidenza? una manipolazione?): tutte le branche della medicina “scoprono” che lo star bene o lo star male hanno anche – si sospetta addirittura soprattutto!! – a che fare con la vita, quella che si è e si esperimenta in quanto umani: dalla cardiologia, alla cronicità, alla fragilità, all’oncologia, alla medicina generale, ...: si scopre la qualità della vita, l’ansia, il disagio del vivere, l’agitazione, i difficili rapporti con i contesti personali e collettivi, collegati o meno con l’una o l’altra crisi. E tutta la letteratura “scopre” la co-morbidità psichiatrica. Non la prende troppo sul serio. La descrive. La associa ai farmaci: non preoccupandosi se fanno bene, o male, o nulla. La “parabola” della “associazione” (la aspecificità del termine perfettamente non scientifico, è d’obbligo, se si considera la letteratura, infinita, che si continua a pubblicare) tra patologie cardiovascolari e depressione è assolutamente esemplare. Così come “l’epidemia” delle situazioni che “richiedono” – solo perché non si sa che altro fare – antipsicotici (± antidepressivi) negli anziani. Ripresentare uno dei grafici dei numeri precedenti è forse utile: nella “complessità” (di cui nessuno oserebbe negare l’esistenza-importanza-modernità) gli “antipsicotici” sono espressione o causa di problemi, trattamenti o accompagnatori, indicatori di importanza o generatori di prognosi, specialistici o assolutamente aspecifici, segnali di richiesta di attenzione o misura della perdita di interesse per le/i pazienti, che ne hanno bisogno o alle/ai quali semplicemente si danno, per più o meno tempo, a dosi più o meno alte, alla faccia di linee guida rigorosamente basate sulle nonevidenze...: non si periodo con uno o tanti?, o con una scelta casuale tra ;, ;,... Ognuna/o è libero di scegliere, o di dichiararsi in accordo o meno. Gli antidepressivi e gli antipsicotici sono “lì”, tranquilli: e crescono.
3. Il DSM-5 (ed è importante per questo leggere il contributo ...) ha fatto propria – con molta solennità e dottrina – la “scoperta” che la medicina ha a che fare con la vita, e ha provato a dare a questa “interazione” permanente ed inevitabile nomi e definizioni. Seguendo tutte le regole e tutti i bias – le due condizioni sono imprescindibili in tutte le discipline – che hanno accompagnato lo sviluppo della medicina negli ultimi 15-20 anni: • dalla combinazione delle evidenze-evidenti con quelle un-po’-meno, o per-nulla, ma che sono inevitabili, perché la variabilità è un dato di fatto, e c’è, da sempre, un “horror vacui”; • al disease-mongering, che, in fondo, dà un nome, se non un senso, a ciò che ancora non lo ha; • ai conflitti di interesse, materiali ed intellettuali, singoli e collettivi; • ai sintomi o ai sospetti che desiderano tanto divenire qualcosa di più serio, ad esempio un rischio quantificato, o una pre-malattia, o una situazione da sottoporre a screening o a controlli periodici.
4. La documentazione del come tutto ciò è successo nel DSM-5 è bene illustrata nella bibliografia citata nel contributo. È importante però a questo punto essere certi che non si parla più solo né principalmente di “psichiatria”. È un ripasso metodologico che diventa obbligatorio per tutte/i coloro che vogliono vivere nella medicina con il disincanto necessario per non essere finti ingenui. Che si tratti di lavorare nella più avanzata specialità tecnologicamente qualificabile, o nella incertezza-impotenza diagnostico-terapeutica di situazioni neurodegenerative-autoimmuni-rare... I meccanismi di bias-interazione sono sempre gli stessi.
5. Forse una bibliografia “laica”, che riguarda cose non mediche, fa capire meglio che cosa significa, riassume, propone la pretesa di “nominare” tutto del DSM-5. E come specchiarsi – in senso opposto – nello “specchio delle brame” per sapere chi è “la più bella del reame” della vecchia favola. Si suggeriscono: • Gli “spifferai magici ed i cani di Kant” di Barbara Spinelli (Repubblica, 30/10/2013) a proposito di disclosure, datagate, Snowden, sicurezza, Merkel...: lo “stupore”, lo “scandalo”, la “cronaca”, di spiare ed essere spiati come strumenti ideali per giocare ad una guerra che non è altro che la traduzione di ciò che già si sa in uno dei giochi ufficiali di potere, per alfabetizzare tutte/i ad essere spettatori rassegnati di un talk-show globale. • “Il male dell’alluvione legislativa”, di Guido Rossi (Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2013): con i bei richiami – nella nostra “modernità” – al ruolo assolutamente simbolico, ma molto efficiente nell’immaginario e nel rendere arbitrario l’abuso di potere, delle “grida spagnole” di manzoniana memoria. Non è questo, anche, il ruolo del gioco diagnostico- terapeutico-prognostico della medicina, soprattutto là dove i confini sono incerti, e chiamarli per nome “fa bene”, tranquillizza, sostituisce le risposte vere, rende tutto lecito?
6. Si ritornerà sull’universo DSM-5 – farmaci e diagnosi, dentro e fuori la psichiatria – nei prossimi numeri. Ma è opportuna ora un’ultima nota, per ricordare che la memoria fa più bene delle tante, diversissime, ma sostanzialmente ripetitive “scale” che mirano a “quantificare flessibilmente” la salute mentale. Tanti anni fa, nel tempo pre-istorico degli anni ‘60-’70, quando la salute faceva parte degli indicatori, e degli strumenti di ricerca, per rendere universale il diritto alla vita, la salute mentale, in tutto il mondo – da Goffman, a Laing, a Basaglia, a Ciompi passando per l’OMS che camminava verso i farmaci essenziali ed Alma Ata – era sentinella avanzata di una medicina sempre più cosciente che diagnosi e farmaci erano variabili dipendenti dal progetto che si ha per/nella storia di persone-popolazioni. Il DSM-5 è la diagnosi – nome, affermazione, proposta, prognosi – fatta esemplarmente e più generalmente in nome della medicina, che il presente-futuro deve essere un esercizio di geo-referenziazione e di denominazione, così che le “storie” delle persone e delle collettività siano sostituite dai nomi, affidati ad esperti-di-dati, che sostituiscono alle storie tante fotografie puntuali, su cui “puntualmente” intervenire. Tra “progetto” o “datagate” o “grida spagnole”, la scelta è libera ed “informata”.
Data di Redazione 12/2013