Dopo un primo articolo introduttivo, quasi una descrizione dell’itinerario che ci aspetta 1 (vedi figura sotto) il viaggio attraverso la mistificazione e le tecniche di convincimento sui Medici ha toccato la stazione dei fantasmi e degli ospiti illustri (quelli la cui autorevolezza viene usata per dare peso alle pubblicazioni scientifiche) 2; con questo terzo contributo vengono esposte alcune tecniche consolidate per presentare (in modo distorto o parziale) i risultati in modo che possano essere facilmente fraintesi, estendendo la applicabilità del trattamento a categorie di persone che non ne hanno ottenuto beneficio nello studio.
Peccati solo in apparenza veniali minano le basi della credibilità della ricerca e la trasferibilità dei suoi risultati. Riconoscere le “tecniche consolidate” che li generano può darci qualche strumento in più per evitare di trasferire il raggiro sui nostri pazienti.
Patti chiari….
Una premessa è necessaria: ciò che è pubblicato rappresenta in genere solo la parte migliore della ricerca effettuata; quella meno “appealing” viene, se possibile, nascosta. In un prossimo contributo analizzeremo l’impatto di queste “verità nascoste”. Ma intanto proseguiamo con il ragionamento su come sono presentati i risultati degli studi. La chiarezza del metodo scientifico applicato, del disegno di uno studio rappresenta il fondamento su cui si basa la affidabilità dei risultati dello studio stesso. Questo concetto è vero per qualsiasi tipo di studio, sia osservazionale che – soprattutto – sperimentale ed è un assunto che - se non verificato (o verificabile) - rende impossibile l’applicazione dei risultati dello studio nella clinica.
Nell’interpretazione degli studi e delle loro implicazioni spesso si sorvola sulla scarsa corrispondenza delle popolazioni sulle quali i trattamenti sono sperimentati, rispetto a quelle trattate nella pratica clinica quotidiana, e sulla scarsa esplicitazione delle caratteristiche delle popolazioni studiate. Eppure tutto ciò sarebbe importante per decidere se i risultati descritti sono trasferibili alla “nostra” popolazione in generale o al “nostro” paziente in particolare. Questi sono concetti talmente noti e condivisi che non può non stupire il fatto che essi vengano così tante volte disattesi.
Che cosa trasferire dagli studi alla pratica?
La prima preoccupazione di chi legge un articolo dovrebbe essere quella di capire se gli assistiti ai quali intendiamo proporre il trattamento studiato sono simili alla popolazione valutata nel trial e se sia possibile quindi trasferire a questi le attese di efficacia del trattamento. È vero che ci viene solitamente in aiuto qualche tabella che sintetizza le caratteristiche della popolazione studiata, ma è altrettanto vero il fatto che la sezione Materiali e Metodi – complici le dimensioni ridotte dei caratteri di stampa – è spesso “saltata” dal lettore che tende di più a concentrarsi sugli accattivanti grafici dei risultati o sugli scorrevoli riassunti dove non di rado vengono elegantemente omessi i lati scomodi dello studio. Alla lettura attenta delle caratteristiche dei soggetti studiati risulta il più delle volte che il paziente che vorremmo curare possiede un profilo di salute diverso da quello descritto per le popolazioni studiate e quindi la trasferibilità dei risultati di quello studio è da considerare limitata.
Un esempio viene dallo studio LIFE 3 dove il losartan risulta più efficace dell’atenololo nella prevenzione di eventi in una popolazione di pazienti ipertesi affetti da ipertrofia cardiaca: questa caratteristica rende scarsamente trasferibili i risultati dello studio alla popolazione generale degli ipertesi dove l’ipertrofia cardiaca alla diagnosi è presente solo nel 25%.
Un altro esempio molto più attuale viene dai recenti studi sui nuovi anticoagulanti orali: i problemi importanti di trasferibilità sono addirittura due 4,5,6. Il primo è rappresentato dalla età delle popolazioni studiate che - con una media di poco superiore ai 70 anni in tutti i tre studi - relega al 5-10% della casistica la proporzione di pazienti ottuagenari che nella realtà clinica sono invece una fetta molto importante delle popolazioni trattate: viste le caratteristiche dei nuovi anticoagulanti orali che li rendono problematici nei pazienti con una funzione renale compromessa, è azzardato trasferire ai pazienti più anziani i risultati conseguiti in una popolazione consistentemente più giovane. Il secondo problema di trasferibilità deriva dai poco lusinghieri risultati ottenuti con gli anticoagulanti antagonisti della vitamina K nei gruppi di controllo. È chiaro come un gruppo di confronto trattato in modo non ottimale (al di sotto degli standard normalmente conseguiti nei Centri della Regione Emilia Romagna) tenda a fare risaltare l’efficacia del farmaco in studio; sorgono tuttavia perplessità sulla trasferibilità dei risultati di questi studi alla nostra realtà 7.
L’importanza dell’analisi della trasferibilità riguarda soprattutto la “confusione” del rischio, cioè il trasferimento inappropriato dei risultati conseguiti in una popolazione a rischio elevato su una popolazione a rischio inferiore. Come dire: il trattamento giusto alla popolazione sbagliata. La maggior parte degli esiti favorevoli in area preventiva viene ottenuta in prevenzione secondaria, cioè in popolazioni di pazienti che hanno già fatto registrare un evento: per es. un ictus, un infarto, una frattura. In questi soggetti, a rischio elevato di recidiva del problema, esistono prove di efficacia in favore di diversi trattamenti nel ridurre la probabilità di un secondo evento. Tuttavia è inappropriato trasferire il risultato di efficacia a persone che presentano un fattore di rischio ma senza eventi pregressi. Eppure è spesso così: le prove dell’efficacia antifratturativa dei bisfosfonati provengono principalmente da studi in prevenzione secondaria, in donne o uomini (pochi) che avevano già subito una frattura: al contrario questi farmaci vengono utilizzati principalmente in prevenzione primaria, in persone che posseggono solo un fattore di rischio (la demineralizzazione) per le quali i risultati sono limitati a studi su esiti surrogati (il valore densitometrico).
L’impressione generale di medici e pazienti è che i farmaci siano efficaci: le fratture nelle persone di 50-60 anni sono davvero rare… in effetti i trattamenti preventivi figurano molto bene quando il rischio è basso o inesistente….
Popolazioni miste
Uno scenario molto diffuso nell’ambito della ricerca clinica è il reclutamento di popolazioni miste: vengono rispettati criteri di esclusione e di inclusione ma della casistica fanno parte pazienti a rischio elevato che hanno già sofferto di un evento (p.es. un infarto) assieme a soggetti a minor rischio dei quali condividono solo i criteri di inclusione (es. l’età e l’ipercolesterolemia). Lo studio PROSPER 8 ne è un esempio perfetto; obiettivo dello studio: valutare l’efficacia della pravastatina nella prevenzione di eventi cardiovascolari in persone anziane, una fascia di popolazione poco studiata in precedenza. Con un criterio di inclusione basato sull’età e sul livello di colesterolo sono stati arruolati uomini e donne, persone che avevano già avuto un infarto, assieme a persone che avevano semplicemente una ipercolesterolemia. L’analisi della popolazione complessiva mostrava una riduzione di rischio significativa ma, andando a stratificare i risultati conseguiti nelle popolazioni a rischio diverso, appare chiaro come siano essenzialmente i pazienti già infartuati ad avere la riduzione di rischio mentre non è possibile valutare tale rischio (che in effetti sembra inalterato) nella popolazione di anziani ipercolesterolemici ma non infartuati: questo rilievo, assieme alla analisi dei risultati disaggregati nei maschi e nelle femmine esprime un chiaro effetto di trascinamento da parte dei pazienti a maggior rischio che portano quelli a basso rischio ad un risultato che in realtà non gli appartiene. La conclusione trionfalistica che leggiamo nel riassunto (“… la pravastatina data per 3 anni riduce il rischio di malattia coronarica in soggetti anziani …”) è come minimo inappropriata poiché la riduzione del rischio non si vede in “tutti” i soggetti anziani ma solo – tra essi – nelle categorie a rischio maggiore (e questo non è riportato nel riassunto).
Dallo studio HIP un altro esempio nel fertile campo dell’osteoporosi. In donne anziane e con demineralizzazione ossea grave è stato valutato per 3 anni l’effetto del risedronato (5 mg/die contro placebo) sulle fratture del femore. L’analisi dei risultati nel campione complessivo mostrava una riduzione di rischio significativa dopo 3 anni di trattamento ma, anche in questo caso di arruolamento di popolazioni miste (prevenzione primaria e secondaria) la significatività era raggiunta nel sottogruppo di donne che avevano già subito una frattura mentre nel sottogruppo che non aveva mai subito fratture, il trattamento produceva una riduzione di rischio non significativa. Anche per questo “paper” le conclusioni del riassunto sono scritte in modo di dimenticare questo particolare, magnificando l’effetto protettivo in genere 9.
Esiti surrogati o rilevanti?
Sembra strano ma, ad oltre 10 anni dall’inizio del terzo millennio, assistiamo ancora al fenomeno di farmaci spacciati come efficaci anche se sostenuti solo da studi su esiti “surrogati”. Gli esempi sono innumerevoli: anti-ipertensivi che abbassano la pressione ma dei quali nulla si sa rispetto agli eventi cardiovascolari; farmaci per l’osteoporosi che migliorano la densità ossea senza la dimostrazione di una riduzione del rischio di frattura; oppure prodotti ipolipemizzanti che in prevenzione primaria riducono i lipidi ma non gli infarti. Siamo tutti consapevoli del fatto che nel piano di sviluppo di un farmaco c’è una fase anche per gli studi sugli esiti surrogati: fino a questa fase il farmaco può essere promettente, ma l’efficacia che interessa davvero il clinico è quella degli esiti importanti: per questo è meglio attendere che la promessa venga mantenuta. La memoria dei fluoruri che miglioravano la densità ossea, ma che inducevano un aumento del rischio di frattura 10 o dei vasodilatatori che riducevano la pressione arteriosa, ma aumentavano il rischio di scompenso 11 o degli antiaritmici che aumentavano la mortalità 12 non possono essere archiviati e dimenticati.
Esiti principali o secondari?
L’affidabilità di uno studio si basa su un progetto accurato dove vengono identificati gli esiti principali che i ricercatori si propongono di modificare con l’intervento. Stimando il beneficio che, con accurate analisi preliminari, è ragionevole attendersi nel gruppo sottoposto al trattamento attivo, i ricercatori determinano il numero di persone da includere nello studio, necessario per potere rilevare questo eventuale beneficio nel periodo di tempo dello studio. L’esito (o gli esiti) su cui viene in pratica progettato lo studio rappresenta l’esito “principale”; gli altri parametri comunque monitorabili vengono definiti “secondari” non perché di minore importanza, ma perché le caratteristiche dello studio - decise “su misura” per l’esito principale - potrebbero non essere altrettanto appropriate per rilevare modifiche per gli altri esiti. È contemplato che nel corso della ricerca possano esservi rilievi che inducano a modificarne il protocollo, ma – nella massima trasparenza – queste modifiche dovrebbero essere “registrate” (esistono appositi registri degli studi clinici per aumentare la trasparenza della ricerca) e menzionate nella pubblicazione dello studio. In alcuni studi purtroppo le cose non vanno in questo modo perché non è infrequente che l’esito primario non venga conseguito (es. la riduzione di eventi cardiovascolari) ma risulti significativa la riduzione di un altro esito secondario (es. i ricoveri ospedalieri), sul quale vengono successivamente puntati i riflettori ma per il quale lo studio – progettato per l’esito principale - potrebbe non essere adeguato. L’obbligatorietà di registrare i protocolli sperimentali presso registri di consultazione pubblica ha consentito di individuare numerosi casi di difformità tra il protocollo sperimentale e le modalità di presentazione dei risultati pubblicati. In quest’ambito (ed in molti altri…) ha fatto scuola il “caso Neurontin” 13.
Da una revisione che confrontava i risultati pubblicati (e non) con i protocolli originari in 20 studi su indicazioni off label, sui 12 studi pubblicati solo in 4 casi esisteva una effettiva corrispondenza tra l’esito primario come pubblicato e quello indicato nel protocollo e addirittura in 5 studi dell’esito primario indicato nel protocollo non vi era traccia. Quando per un esito primario non veniva conseguita la significatività statistica, lo studio non veniva pubblicato oppure l’esito non veniva menzionato nell’articolo pubblicato. Dei 28 esiti primari pubblicati, 12 erano stati introdotti ex novo, non essendo inclusi nei protocolli originali. Dei 180 esiti secondari inclusi nei protocolli originali dei 12 studi pubblicati ben 122 scompaiono, non menzionati negli articoli, mentre ne compaiono 25 non elencati nei protocolli registrati senza che venisse fatta la menzione – come correttezza avrebbe voluto - di analisi “post-hoc”. Solo in uno degli 8 studi non pubblicati il trattamento aveva conseguito la significatività statistica per l’esito primario: il destino dei risultati non graditi viene guidato molto spesso nell’oblio e solo un procedimento processuale (nel quale la ditta fu condannata a pagare 142 milioni di dollari per aver riportato selettivamente o distorto i risultati degli studi clinici) ha consentito di svelare risvolti che altrimenti sarebbero rimasti ben custoditi negli archivi dell’industria 14. Se analizziamo le conclusioni contrastanti tra la Linea guida Canadese della Canadian Pain Society15 (basata sui dati pubblicati) e la revisione dell’Organismo regolatorio nazionale 16 (che includeva anche i risultati degli studi non pubblicati) sull’impiego del pregabalin nel dolore della neuropatia diabetica, ancora una volta emerge come il giudizio clinico dovrebbe basarsi anche su risultati di studi già conclusi che attendono, nel limbo degli archivi, una pubblicazione che probabilmente non avverrà mai. Il problema dei risultati degli studi non pubblicati sarà oggetto di un’analisi approfondita in uno dei prossimi contributi.
Studi pubblicati (12/20) | |
Esiti favorevoli | 12/12 studi |
Corrispondenza risultati-protocollo | 4/12 studi |
Esiti principali “nuovi | 12/28 esiti pubblicati |
Esiti principali scomparsi | 5/28 esiti da protocollo |
Esiti secondari “nuovi” | 12/93 esiti pubblicati |
Esiti secondari scomparsi | 122/180 esiti da protocollo |
Studi non pubblicati (8/20) | |
Esiti favorevoli | 1/8 |
Da questa revisione emergono due problemi principali: 1. la mancata pubblicazione del 40% degli studi (quasi tutti con esito sfavorevole) 2. la inquietante disinvoltura con la quale si cambiano le carte in tavola spacciando come ottenuti su esiti principali i risultati che possedevano una qualsivoglia significatività statistica ed occultando gli esiti “falliti” |
Ancora una volta….
Ancora una volta, leggere con attenzione si conferma l’arma di difesa migliore per evitare di attribuire ad un trattamento una efficacia terapeutica mai dimostrata. Ovviamente è impossibile per il “singolo” medico avere tutto il tempo per la analisi critica di tutto quanto gli interessa, e qui si conferma importante una attività coordinata di revisioni secondarie indipendenti. Forse i sistemi sanitari dovrebbero adoperarsi per supportare i medici con informazioni reperite e valutate in modo sistematico, per offrire il punto di vista della sanità pubblica con l’obiettivo della salvaguardia e della cura della salute. Altrimenti, i medici rischiano di essere esposti solo o prevalentemente al punto di vista di chi produce farmaci e interventi sanitari, sia (come abbiamo discusso qui) attraverso la selezione e la manipolazione dei risultati della ricerca, sia attraverso il trasferimento di questa ricerca con una capillare attività di informazione scientifica portata direttamente negli ambulatori. Per l’informazione di parte pubblica non sarà mai possibile avere un grado di penetrazione paragonabile a quello dell’industria, che investe mediamente un quarto dei suoi ricavi (che sono in continuo aumento) in attività di marketing e meno della metà nella ricerca di nuovi farmaci 17. Ma la situazione potrebbe notevolmente migliorare con la pubblicazione dei risultati di tutti gli studi, anche di quelli con esito sfavorevole 18 (come vedremo nel prossimo contributo di questa serie), e con un atteggiamento più rigoroso dei comitati redazionali (troppo spesso forti coi deboli e deboli coi forti) attraverso la rinuncia a pubblicare manoscritti di studi dove emergono contrasti palesi tra i risultati ed il protocollo registrato o tra il riassunto e la sezione dei risultati. È diritto dei pazienti potersi fidare di medici adeguatamente informati con dati per i quali l’influenza dei conflitti di interesse sia il più possibile ridotta.
Bibliografia
1. Maestri E, Formoso G. L’evoluzione della specie. Informazioni sui Farmaci 2013; 37:26-28
2. Maestri E, Formoso G. Storie di fantasmi ed ospiti illustri alla corte del (fa)Re Ricerca: come ti costruisco un pozzo di scienza. Informazioni sui Farmaci 2013; 37:53-56
3. Dahlof B et al Cardiovascular Morbilityand mortality in the Losartan Intervention for Endpoint reduction in hypertension study (LIFE): a randomised trial against atenolol. Lancet 2002; 359:1003
4. Connolly SJ, Ezekowitz MD, Yusuf S et al .Dabigatran versus warfarin in patients with atrial fibrillation. N Engl J Med. 2009; 361:1139-51
5. Patel MR, Mahaffey KW, Garg J et al. ROCKET AF Investigators Rivaroxaban versus warfarin in nonvalvular atrial fibrillation. N Engl J Med. 2011; 365:883-91
6. Granger CB, Alexander JH, McMurray JJ et al. ARISTOTLE Committees and Investigators.Apixaban versus warfarin in patients with atrial fibrillation. N Engl J Med. 2011 Sep 15; 365(11):981-92
7. Gruppo di lavoro multidisciplinare della Regione Emilia-Romagna. Documento Regionale di indirizzo sul ruolo dei nuovi anticoagulanti orali nella prevenzione del cardioembolismo nel paziente con fibrillazione atriale non valvolare Regione Emilia Romagna 2013
8. Shepherd J, Blauw GJ, MurphyMB et al Pravastatin in elderly individuals at risk of vascular disease (PROSPER): a randomised controlled trial Lancet 2002; 360:1623-30
9. McClung MR, Geusens P, Miller PD et aL Effect of Risedronate on the risk of hip fracture in elderly women n Engl J Med 2001; 344:333-340
10. Riggs BO, Hodgson SF, O’Fallon WM et alEffect of fluoride treatment on the fracture rate in postmenopausal women with osteoporosis N Engl J Med 1990; 322:802-09
11. ALLHAT collaborative research group. Major cardiovascular events in patients randomized to doxazosin vs. chlortalidone: the antihypertensive and lipid-lowering treatment to prevent heart attack trial JAMA 2000; 283:1967-75
12. Echt DS, Liebson PR, Brent Mitchell L, et al.Mortality and morbidity in patients receiving encainide, flecainide, or placebo. The Cardiac Arrhythmia Suppression Trial. NEJM 1991; 324:781-788
13. Ladenfeld CS, Steinman MA The Neurontin Legacy: marketing through misinformation and manipulation. N Engl J Med 2009; 360:103-06
14.Vedula SS, Bero L, Scherer LW, Dickersin K.Outcome Reporting in Industry-Sponsored Trials of Gabapentin for Off-Label Use N Engl J Med 2009; 361:1963-71
15. Moulin D et al Pharmacological management of chronic neuropathic pain – Consensus statement and Guidelines from the Canadian Pain Socierty Pain Res Manag 2007; 12:13-21
16. Common Drug Review. Canadian Expert Drug Avisory Committee. Pregabalinresubmission. Disponibile al sito http://www.cadth.ca/media/cdr/complete/cdr_complete_Lyrica%20Resubmission_September_25-2009.pdf (ultimo accesso 22 ottobre 2013)
17. Formoso G, Magrini N. Il prezzo dei farmaci è un problema per tutti. La voce.info, 31 maggio 2013
18. Formoso G, Nonino F, Maestri E, Magrini N. Ricerca clinica nella UE e pubblicazione dei dati: maggiore trasparenza? Informazioni sui Farmaci 2013; 37:43-6
Data di Redazione 12/2013