Tra le discipline mediche, la psichiatria è quella che più di altre basa la diagnosi su giudizi che implicano una forte componente di soggettività nella interpretazione di sintomi-problemi (al di là della pretesa oggettività di scale od algoritmi diagnostici), ed e’ pertanto più esposta ad una forte variabilità diagnostica, prognostica e di strategie di intervento e di valutazione di esiti soggettivi piuttosto che su test biologici oggettivi, ed è pertanto più esposta a una scarsa riproducibilità diagnostica tra osservatori diversi. Il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM), pubblicato a partire dal 1958 sotto l’egida della American Psychiatric Association (APA), rappresenta il documento di riferimento per la classificazione delle malattie mentali e, pur essendo nato come manuale a fini prevalentemente statistici, è negli anni diventato anche un riferimento per i clinici nella diagnostica delle condizioni psichiatriche, accanto all’analogo sistema di classificazione prodotto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: lo ICD (International Classification of Diseases) giunto alla 10° edizione, che riporta nel capitolo V una sezione dedicata alle malattie psichiatriche. La quinta edizione del DSM1 (aggiornamento della quarta edizione pubblicata nel 1994 e successivamente aggiornata nel 2000) è stata ufficialmente pubblicata nel maggio 2013, dopo approvazione da parte del comitato direttivo dell’APA, e già prima della sua uscita ha suscitato un acceso dibattito tra i membri del gruppo che ha redatto il documento e che ne difende i contenuti, e chi invece ne vede alcune importanti e sostanziali limitazioni sia di carattere generale, sia riguardo a tematiche specifiche. La discussione si è sviluppata vivacemente su riviste biomediche, di area psichiatrica e non: lanciando su PubMed il termine “DSM-5”, anche filtrando i risultati (presenza del termine nel solo titolo dell’articolo, limite temporale a gennaio 2012) è possibile reperire oltre 150 pubblicazioni, gran parte delle quali discutono criticamente le implicazioni dei contenuti del documento, e si nota che riviste come British Medical Journal,JAMA e New England Journal of Medicine, pur non essendo focalizzate sulla psichiatria, hanno dedicato ampio spazio a questo argomento. L’eco della discussione è arrivato anche sui mezzi di informazione non medici, come il quotidianoWashington Post, sul quale il giornalista Peter Whoriskey ha redatto un articolo dai toni fortemente critici nei confronti degli autori del DSM-5, definiti come “psichiatri legati all’industria dei farmaci”2. Alcune perplessità sulla sua impostazione generale hanno da tempo alimentato la percezione che il DSM sia uno strumento inadeguato ad orientare la diagnosi in psichiatria. Thomas Insel, direttore del National Institute of Mental Health (NIMH) statunitense ha dichiarato che “le diagnosi del DSM sono basate sul consenso riguardo a gruppi di sintomi clinici, senza alcuna misura obiettiva di laboratorio: i pazienti con malattie mentali meritano di meglio” 3. In questo senso il NIMH si è impegnato a lanciare un programma di orientamento della ricerca, The Research Domain Criteria volto a creare una base scientifica che consenta di informare le decisioni diagnostiche e terapeutiche in psichiatria attraverso riscontri sperimentali e riproducibili, anziché attraverso il semplice consenso tra esperti, analogamente a quanto già succede in altri campi della medicina4. Oltre a questi aspetti di carattere generale, le principali critiche rivolte al DSM-5 ruotano essenzialmente attorno a due elementi specifici: la tendenza alla medicalizzazione, cioè a etichettare come malattie anche condizioni che fanno parte delle normali esperienze psichiche di ognuna/o di noi, e il sospetto che conflitti di interesse, sia economici sia intellettuali, abbiano condizionato le scelte dei membri del comitato produttore del documento.
Alcune tra le critiche più severe al nuovo DSM, soprattutto in relazione al rischio di medicalizzazione, arrivano proprio dal mondo psichiatrico. A fare eco alla dichiarazione di Spitzer sopra riportata, Frank Farley, ex-presidente della APA, si dichiara preoccupato dalla “incessante produzione di patologie e dalla ‘patologizzazione’ degli estremi della normalità”3. La tendenza a trasformare condizioni normali in problemi psichiatrici va di pari passo con la sovra-diagnosi di condizioni i cui confini diventano meno definiti grazie a criteri diagnostici poco precisi, un processo definito come “inflazione diagnostica” e che ha come inevitabile conseguenza un aumento di diagnosi falsamente positive e di trattamenti non necessari. Allen Frances, coordinatore del gruppo di lavoro che ha prodotto il DSM-IV, sostiene che “la diagnosi psichiatrica sta attraversando un periodo di crisi e di incertezza, in quanto la demarcazione tra le normali preoccupazioni umane e la malattia mentale si fa sempre meno definita. Il DSM-III a suo tempo aveva già aperto le porte a diagnosi vaghe, producendo definizioni diagnostiche di situazioni che in realtà erano modeste accentuazioni di problemi quotidiani, come ad esempio depressione lieve, ansia generalizzata, ansia sociale, fobie semplici, disfunzioni sessuali, disturbi del sonno, etc…” 5. Dopo la pubblicazione del DSM-IV, sotto l’influsso di pressioni di mercato, si è assistito a un marcato aumento della frequenza di alcune condizioni psichiatriche “di moda”. Basti pensare ad esempio al disturbo da deficit d’attenzione ed iperattività (Attention-Deficit Hyperactivity Disorder, ADHD) la cui frequenza negli ultimi 20 anni è triplicata, o al tasso di autismo, aumentato di oltre 20 volte, o al disturbo bipolare, il cui tasso diagnostico negli USA è raddoppiato tra gli adulti e quadruplicato tra gli adolescenti in un solo decennio5,6. Lo sforzo di arginare l’inflazione diagnostica riscontrabile in precedenti versioni del DSM è stato secondo alcuni ignorato dalla task force del DSM-5 con il risultato che, sempre secondo Frances, “i pazienti preoccupati per la propria salute riceveranno la diagnosi di ‘disturbo psicosomatico’, una normale reazione di lutto verrà diagnosticata come ‘episodio depressivo maggiore’, la smemoratezza dell’età senile sarà confusa con un ‘disturbo cognitivo minore’, gli scatti d’ira saranno definiti come ‘disturbo da disregolazione dirompente dell’umore’ (disruptive mood dysregulation disorder), gli eccessi alimentari diventeranno ‘disturbo da alimentazione incontrollata’ (binge eating disorder) e la già inflazionata diagnosi di disturbo da deficit d’attenzione ed iperattività ora potrà essere facilmente applicata anche agli adulti, grazie a criteri ulteriormente allargati” 5.
Uno degli aspetti del DSM-5 che ha suscitato il maggior numero di critiche è la modifica dei cosiddetti ‘grief exclusion criteria’, cioè dei criteri diagnostici che consentono di distinguere tra una normale reazione emotiva alla perdita di un familiare e una reazione depressiva patologica. Tra i criteri che consentono la diagnosi di ‘episodio depressivo maggiore’ nella precedente edizione del DSM veniva esplicitata la necessità che le reazioni psicologiche a impronta depressiva conseguenti alla perdita di una persona amata durassero per oltre 2 mesi dopo il decesso. La task force che ha redatto il DSM-5 ha eliminato questa clausola di esclusione, consentendo di estendere notevolmente il concetto di malattia nell’ambito di quella che è – secondo il comune buon senso e da parte di molti psichiatri - una normale reazione emotiva a un avvenimento stressante come la perdita di un proprio caro. A margine di questo criterio diagnostico il gruppo di lavoro ha aggiunto una precisazione, specificando che “per evitare la medicalizzazione di normali fluttuazioni dell’umore” la diagnosi dovrebbe essere fatta solo qualora i sintomi, a giudizio del medico, siano associati a un livello di stress o di limitazione funzionale tale da richiedere un intervento terapeutico: una affermazione generica e soggetta alla interpretazione personale, che non esclude la possibilità di applicare l’etichetta di “condizione psichiatrica” a una normale reazione di lutto.
Un altro esempio dell’orientamento verso la medicalizzazione del DSM-5 riguarda la diagnosi di demenza. La classificazione definisce come “disturbo cognitivo minore” un lieve declino in qualsiasi dominio della sfera cognitiva riferito dal paziente, dal medico o da un conoscente, qualora un test neuropsicologico formale riveli un valore alterato di oltre una deviazione standard rispetto ai valori normali. Applicando questa definizione circa il 16% della popolazione verrebbe automaticamente definita come malata, senza contare il rischio di un ulteriore aumento delle persone etichettate come affette da “disturbo cognitivo minore” legato alla imprecisione dei test per la memoria9. A questo proposito una metanalisi ha stimato che in una popolazione con una prevalenza di demenza del 6% un medico di medicina generale sarebbe in grado – utilizzando i comuni test cognitivi – di diagnosticare correttamente 4 nuovi casi di demenza ogni 100 persone consecutivamente visitate, ma porrebbe una diagnosi falsamente positiva in altre 239. Una recente revisione sistematica della letteratura, i cui dati sono stati preliminarmente presentati a Boston in occasione della Alzheimer’s Association International Conference, mostra che lo screening di popolazione per la demenza non produce alcun beneficio clinico, a fronte di un importante onere economico. Per contro, non vi sono evidenze empiriche riguardo ai possibili impatti negativi che lo screening potrebbe avere sulle persone (come ad esempio ansia, depressione o discriminazione)10,11. Viene quindi da chiedersi se abbia un senso modificare i criteri diagnostici (mirando a una diagnosi più precoce) di una malattia per cui non esiste al momento né una cura né una efficace prevenzione, e i cui trattamenti farmacologici – pur rappresentando un grande onere economico per la sanità pubblica – hanno dimostrato una efficacia clinicamente modesta e limitata a esiti surrogati. Queste perplessità hanno spinto nel 2012 un gruppo di esperti di demenza del Regno Unito a scrivere una lettera aperta al primo ministro Cameron in risposta a un progetto governativo che prevedeva uno screening di popolazione da parte dei medici di medicina generale, sottolineando come non esistano basi scientifiche per giustificarne l’implementazione12. Secondo alcuni l’allargamento dei criteri diagnostici di demenza è spinto da importanti conflitti di interesse economici alimentati dall’industria farmaceutica e – in alcune realtà - anche politici, mirati al raggiungimento di un consenso popolare nella “lotta” a una malattia che spaventa più di qualsiasi altra la popolazione oltre i 55 anni di età 9.
Medicalizzazione e fattori di rischio: un problema non solo in psichiatria
La tendenza a modificare i criteri diagnostici delle malattie in modo da aumentare il numero di persone che possono essere definite “malate” - e quindi oggetto di cure farmacologiche - è comune in molte discipline mediche, e non solo in psichiatria. Già nel 1999, dopo che alcune società scientifiche statunitensi avevano proposto modifiche dei valori-soglia di parametri e criteri diagnostici in alcune comuni condizioni croniche, un gruppo di ricercatori aveva calcolato il potenziale impatto di queste modifiche sulla prevalenza delle relative malattie (soglia di colesterolo plasmatico nella diagnosi di ipercolesterolemia, valori pressori nella diagnosi di ipertensione arteriosa, valori glicemici nella diagnosi di diabete, etc.). Se fossero stati rigorosamente applicati tutti i criteri proposti relativamente a diabete, sovrappeso, ipercolesterolemia e ipertensione arteriosa, circa tre quarti della popolazione adulta americana sarebbero stati dichiarati “malati” di almeno una delle 4 condizioni13.
I criteri diagnostici vengono generalmente “allargati” con lo scopo dichiarato di migliorare i livelli di salute: abbassare le soglie che definiscono uno stato di malattia consente di aumentare il numero di persone che - ricevendo una diagnosi tempestiva – possono beneficiare di cure che ridurranno le conseguenze a lungo termine delle condizioni croniche. L’entità di tali benefici rimane tuttavia quasi sempre indeterminata o stimata in modo approssimativo, mentre gli eventuali rischi associati a prevalenze “gonfiate” delle malattie (diagnosi erroneamente positive con conseguente erogazione di cure inutili e potenzialmente dannose, stress per le persone sane etichettate come malate) non vengono mai considerati accuratamente, e in questo senso il DSM-5 non fa eccezione.
Il sospetto che la stesura del DSM-5 possa essere stata condizionata da pressioni dell’industria farmaceutica, con lo scopo di allargare il bacino di pazienti potenzialmente candidabili a terapie farmacologiche, è stato oggetto di un articolo comparso sul Washington Post il 26 Dicembre 20122. Analizzando le dichiarazioni di conflitti di interesse fornite da parte dei membri del comitato scientifico che ha redatto il DSM-5, il giornalista Peter Whoriskey fa notare come 8 degli 11 componenti del gruppo di lavoro che ha proposto l’abolizione delle clausole limitative relative al lutto hanno dichiarato conflitti di interesse economici con industrie farmaceutiche, tra le quali anche la Glaxo Wellcome, sponsor di un piccolo studio (22 pazienti) il cui scopo era di valutare se il bupropione a rilascio modificato (Wellbutrin ©) poteva essere utilizzato per trattare i sintomi depressivi associati al lutto definiti dal DSM-IV. Gli autori, nonostante la debolezza dei risultati dello studio (assenza di randomizzazione e di un gruppo di controllo, esiguità del campione) concludevano che essi “sfidano la nozione prevalente secondo cui il lutto così come definito dal DSM-IV non dovrebbe essere trattato”14 . Nell’articolo sul Washington Post viene sottolineato inoltre che il membro del gruppo che ha scritto la proposta di modifica della clausola era anche primo autore del suddetto studio2. Il sospetto che le decisioni del gruppo siano state influenzate da interessi economici origina anche dallo scarso rigore della politica sui conflitti di interesse che la task force DSM-5 ha adottato. I limiti che configurano un conflitto di interessi economico sono infatti discutibili e non in linea con quanto raccomandato dagli standard comunemente adottati da parte di gruppi di questo livello. Secondo la policy adottata dalla task force del DSM-5, ricevere dalle industrie fino a 10.000 dollari all’anno o possedere titoli azionari di aziende farmaceutiche fino a 50.000 dollari non configurano un conflitto di interessi. Pur essendo – come dichiara David Kupfer, coordinatore della task force DSM-5 – “più stringenti di quelli adottati dalla maggior parte delle istituzioni accademiche, dallo staff del National Institute of Health e dagli advisory boards della FDA”3, essi non rispettano certamente le indicazioni fornite da un rapporto dello Institute of Medicine (IOM) del 2009, che invita a escludere i membri con conflitti di interesse dai gruppi che elaborano raccomandazioni, o quanto meno a limitarne il numero a una minoranza, e ad affidare il coordinamento del gruppo a un chairman privo di conflitti di interesse15. In risposta al crescente problema dei legami tra industria e comunità scientifica, e vista la necessità di garantire una ricerca obiettiva e non condizionata da interessi economici, anche il National Institute of Health (NIH) dal 2012 ha adottato una normativa sui finanziamenti pubblici per la ricerca i cui parametri sono ben più stringenti di quella adottata da parte della task force DSM-5: entrate per 5.000 o più dollari all’anno e qualsiasi partecipazione azionaria in seno all’industria farmaceutica sono la soglia per identificare un “interesse finanziario significativo”16. Il condizionamento che i conflitti di interesse economici producono sulle decisioni di gruppi di lavoro è comune in molte discipline mediche, non solo in psichiatria. La presenza di conflitti di interesse è frequente tra i professionisti che producono documenti finalizzati a orientare le scelte dei medici, ed è spesso associata ad una tendenza a modificare i criteri diagnostici in modo da aumentare il numero di persone che possono essere definite “malate” e quindi oggetto di cure farmacologiche. Uno studio svolto in USA e focalizzato su linee guida cliniche riguardanti condizioni morbose comuni (come ad esempio l’ipertensione arteriosa e la malattia di Alzheimer) ha evidenziato che vi è una tendenza prevalente a modificare i criteri diagnostici in modo da allargarne le definizioni, ad esempio definendo stati di “pre-malattia”, o abbassando le soglie dei test diagnostici raccomandandone un utilizzo più precoce. Allo stesso tempo lo studio mostra che la maggioranza (75%) dei membri di panel produttori di raccomandazioni dichiarano conflitti di interesse economici. Tra i gruppi di lavoro che questo studio ha considerato ve ne sono 2 tra quelli che hanno elaborato il DSM-5: i sottogruppi ADHD e disturbo bipolare/depressione, che annoverano complessivamente 21 membri, 13 dei quali hanno dichiarato conflitti di interesse con industrie farmaceutiche. Una analisi puntuale dei conflitti di interesse dichiarati dagli specialisti mostra una prevalenza delle ditte che producono proprio i farmaci utilizzati nella malattia oggetto della linea guida. Gli autori dello studio sottolineano anche che i criteri suggeriti dallo IOM nel 2009 per ridurre la prevalenza di conflitti di interesse all’interno dei gruppi di lavoro non sembrano essere rispettati; se si confrontano i documenti pubblicati prima e dopo i rapporti IOM, non si osservano infatti differenze nelle proporzioni di membri che dichiarano conflitti17.
Conflitti di interesse intellettuali
C’è invece chi, come Allen Frances (vedi box in apertura di questo paragrafo), sostiene che le decisioni dei componenti della task force DSM-5 sono state condizionate non tanto da conflitti di interesse economici, ma piuttosto da conflitti di tipo intellettuale. E’ noto che all’interno di gruppi di lavoro a prevalenza mono-specialistica si possono creare derive di interesse orientate su argomenti specifici, e da molte parti viene raccomandato di includere tra i membri anche figure non specialistiche e non cliniche, per evitare che i pareri vengano influenzati da componenti le cui ricerche e relative pubblicazioni riguardano l’argomento oggetto di discussione18,19,20. In questo senso è stato avanzato il sospetto che i membri della task force del DSM-5 abbiano aumentato in modo autoreferenziale il numero di malattie elencate nel documento basandosi su interessi personali anziché su solide prove scientifiche, sospetto alimentato anche dal rifiuto di sottoporre il documento a un processo di revisione da parte di membri esterni indipendenti sottoscritto da oltre 50 associazioni per la salute mentale, adducendo come motivazione una urgenza nei tempi di pubblicazione5. Il rischio che alcuni ricercatori attribuiscano una importanza sproporzionata ad argomenti oggetto di pubblicazioni da essi stessi prodotte è stato sottolineato a proposito delle raccomandazioni di linee guida cliniche21 e ribadito anche da alcuni tra i detrattori del DSM-5. Nel suo libro The Book of Woe—The DSM and the Unmaking of Psychiatry lo psicoterapeuta statunitense Gary Greenberg usa toni fortemente critici nei confronti del DSM-5, sostenendo che la presenza in esso di alcuni disturbi dipende largamente da interessi personali di singoli membri del comitato, i quali approfittano del proprio ruolo decisionale per far comparire diagnosi prive di basi scientifiche22.
Conclusione
Pur essendo nato come manuale statistico e classificatorio, il DSM si è imposto anche come strumento diagnostico in ambito clinico e rischia ora - anche a causa di una inadeguata gestione dei conflitti di interesse dei membri del gruppo che lo produce - di favorire la medicalizzazione di condizioni di per sé non patologiche, pur in presenza di evidenze scarse e di bassa qualità. Questa tendenza crea vantaggi per chi produce e vende i farmaci, aumentando sia il bacino di persone potenzialmente candidabili a terapie farmacologiche sia il grado di dipendenti da risposte-strumenti medici, anche quando i problemi hanno radici, e possono trovare eventualmente risposte, nelle condizioni di vita personali e in carenze-bisogni di reti sociali, individuali e collettive, che potrebbero offrire più opportunità di recupero di autonomia.
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Data di Redazione 12/2013