Il titolo non rimanda, questa volta, a qualcosa: è nome preciso di luogo, fa riferimento altrettanto preciso ad un tempo, aprile-maggio 2004, apre, sviluppa e chiude tutta l'informazione che doveva dire.
Editoriale rigorosamente fuori tema rispetto agli obiettivi, alla storia, ai contenuti di IsF: chiede di dimenticare i farmaci, di non lasciarsi coinvolgere in percorsi di riflessione. Chiede di spaesarsi.
Editoriale fuori luogo e fuori tempo: la collocazione a Baghdad, nel cuore di una guerra cui l'informazione ufficiale continua a cercare nomi di pace, è puramente casuale ed astratta, pur essendo tanto tragicamente concreta, documentata con foto, nomi, volti, responsabili.
Abu Ghraib è l'assoluto-già-visto, ed insieme ciò-che-non dovrebbe-mai-esserci.
La tortura interrompe l'informazione. E' un inciampo della memoria. Svuota le parole. Non chiede-impone stupore, né rivolta, né incredulità. Propone di provare per un tempo sufficiente a rompere l'assuefazione alla cronaca - a non distrarsi: ci si sta dicendo infatti, con la didattica antica del disprezzo esibito, fotografato, globale dei corpi, quale è la trama di cui sono tessute le società che si propongono come categoria di riferimento per i valori e le priorità della storia di cui siamo attori-spettatori-accompagnatori-protagonisti-servi-oppositori (i "commenti" alla tortura documentano, didatticamente, quale è la flessibilità e la variabilità con cui questi ruoli possono essere condivisi-scambiati, nel "dibattito", politico, culturale, antropologico).
Perché la distrazione dei "commenti" non prevalga è utile semplicemente ritrovare - la bibliografia ri-emersa di questi tempi dovrebbe rendere facile il compito - i nomi dei luoghi e le date dei tempi che definiscono le mappe della tortura: anche solo quelle degli ultimi 50-60 anni (fino alla perfezione simbolica di quella votazione che, "per equilibrio di coalizione", nel nostro parlamento ha proposto l'inesistenza della tortura, se "somministrata una tantum"). La tortura racconta come null'altro la ripetitività della storia, e della finzione delle parole che ne propongono interpretazioni di facciata. Nord, Sud, Ovest "nostro", e Oriente Medio o Estremo del mondo. Guantanamo è a Nord o a Sud? E le prigioni segrete di Israele? E i Ceceni, o i Kurdi, sono "semplicemente" gasati-uccisi, o torturati, da candidati-membri della UE, o da "residui" di inciviltà o servizi segreti? E gli Africani "tribali" di tutti gli Stati sono fatti a pezzi, letteralmente, da altri Africani, o dalla presenza-assenza, accuratamente programmata, e dal gioco, ben pianificato, di omissioni diplomatiche e di interventi di mercato, di armi e petrolio e metalli rari, di Francia, Belgio, Stati Uniti? E nella ex-Yugoslavia (ex = forse non esiste; era, per di più, dieci anni fa) era genocidio o tortura; o un mix giuridicamente difficile da dirimere?
E' molto rassicurante sapere, senza coperture, giocando solo sull'oblio dell'impunità, che Negroponte, il grande regista della tortura (= guerra di bassa + alta intensità, economica e guerreggiata) dei popoli dell'America Latina-Centrale degli anni '70-'80 sarà il successore di Bremer a Baghdad, per assicurare la transizione alla pace.
In fondo, non si dice che il grande vantaggio delle democrazie, la loro specifica differenza, la capacità di produrre insieme infezioni ed anticorpi è la "trasparenza"? Tanto più se è preventiva, cioè talmente ovvia-arrogante da pre-svuotare l'opposizione con la forza dei fatti: come la guerra.
Titolari di un mestiere tutti insieme, chi scrive e chi legge che si propone di abituarsi, attraverso le revisioni, le citazioni bibliografiche, i confronti dei dati e delle opinioni, a sperimentare la visibilità di una razionalità almeno minimale nel "conflitto epidemico", asettico e perfettamente regolato, dei mercati (v. l'omonimo libro di G.Rossi, Adelphi, 2003), ci si pone, almeno per una volta, al di fuori delle parole-chiave che permettono di citarsi, e di ubicarsi razionalmente, nel frullato di realtà dove ci muoviamo.
Abu Ghraib è la non-citabilità. Proporlo come titolo a parte è l'unico modo per non-negarlo. Per sapere - senza distrarsi - che ne siamo abitati. E' la categoria di riferimento delle nostre "attese": coloro che producono il massimo della tecnologia e della sanità, sono/siamo custodi e portatori, non per perversione occasionale, ma per possibilità perenne (da "discutere", "in pubblico", per deciderne il grado di in-tollerabilità?) di Abu Ghraib, o di qualsiasi suo sinonimo.
E' un vecchio rito "hanno fatto il deserto e lo hanno chiamato pace" affidare ai nomi il potere di occultare, fino a sostituire, le realtà. Succede così coerentemente con quanto fatto con la guerra divenuta umanitaria, madre di diritto, veicolo di democrazia, garanzia di pace anche per Abu Ghraib. Il nome nuovo che è stato scelto ha tutta l'oscenità di echi pseudo-religiosi: "campo di redenzione".
E' bene lasciare a un poeta ("esperto" di torture, come ognuno nella sua terra, fino agli ulivi) citato da uno scrittore e critico d'arte tra i più importanti della cultura attuale, John Berger, il prolungamento dello spaeasamento il silenzio augurato da questa nota:
Quando le mie parole erano grano
Io ero terra.
Quando le mie parole erano collera
Io ero uragano.
Quando le mie parole erano pietra
Io ero fiume.
Quando le mie parole si sono trasformate in miele
Di mosche si sono coperte le mie labbra.
(Mahmud Darwish, Words, da SAND and Other Poems, 1986)