Alcune domande ancora senza risposta:
- Sarà possibile trasferire le evidenze degli studi clinici alla routine assistenziale di tutti i giorni?
- Il profilo di beneficio/rischio emerso negli studi clinici sarà uguale nei pazienti della pratica quotidiana?
Per questi trattamenti, più che per altri, è il caso di parlare di applicabilità dei risultati dei trial al contesto dei pazienti "reali" e di continuità tra ricerca e pratica.
Il ruolo della attivazione neuroormonale nel determinare ed aggravare lo scompenso cardiaco1 ha trovato una conferma definitiva negli studi clinici che hanno valutato in termini di mortalità gli effetti dei farmaci bloccanti dei sistemi adrenergico e renina-angiotensina-aldosterone (RAA). Alla ormai consolidata raccomandazione di utilizzare in tutti i pazienti con scompenso cardiaco gli ACE-inibitori2-4, per i quali una evidenza di beneficio è disponibile fin dai primi anni '90 (anche se i presupposti fisiopatologici erano quelli di un effetto favorevole dovuto alla vasodilatazione), negli ultimi 3 anni si sono aggiunte le dimostrazioni di efficacia di betabloccanti5-7 ed antialdosteronici, in particolare dello spironolattone8.
Il razionale per l'utilizzo di questi farmaci deriva dalla osservazione che, nonostante un trattamento a dosi massimali di ACE-inibitori, il sistema adrenergico e quello RAA rimangono fortemente attivati nei pazienti con scompenso, tanto che oltre il 40% di questi pazienti (trattati adeguatamente con ACE-inibitori) presenta livelli elevati di aldosterone, prodotto finale della attivazione di questi sistemi neuroormonali9. Gli studi con i betabloccanti
Dopo i numerosi studi, importanti ma non definitivi, condotti negli anni '80 e nei primi anni '90 con i betabloccanti nei pazienti con scompenso cardiaco ad eziologia prevalentemente dilatativa idiopatica10, tre studi con tre diversi farmaci hanno dimostrato la capacità dei betabloccanti di migliorare morbidità e mortalità dei pazienti con scompenso di ogni eziologia.
Il primo, lo US Carvedilol Program, è un insieme di più studi pianificati per evidenziare gli effetti del carvedilolo su end-point di tipo fisiologico5. Utilizzando le evidenze emerse dall'insieme di questi studi in termini di mortalità, si è osservata una riduzione significativa dei decessi di oltre il 30% rispetto ai pazienti trattati con terapia tradizionale. La metodologia non proprio ortodossa di questo progetto ha comunque portato, dopo una accesa discussione, alla approvazione all'uso del carvedilolo nei pazienti con scompenso cardiaco.
Successivamente il CIBIS-26 ed il MERIT-HF7, condotti con una metodologia più rigorosa, sono stati interrotti prima della loro conclusione naturale, per una chiara evidenza di beneficio nei pazienti trattati con betabloccante. Questi studi, oltre a confermare che i betabloccanti sono in grado di ridurre mortalità ed ospedalizzazioni nei pazienti con scompenso, hanno mostrato come i benefici non siano dovuti solo alle particolari proprietà farmacologiche del carvedilolo, ma possono essere ottenuti anche con molecole diverse come bisoprololo e metoprololo.
La Figura 1 riassume i risultati di questi 3 studi in termini di mortalità totale ed improvvisa. Sulla base di questi risultati, i betabloccanti, tradizionalmente controindicati nel trattamento dell'insufficienza cardiaca, ora sono inclusi in tutte le linee guida internazionali come farmaci raccomandati per tutti i pazienti che non presentino controindicazioni specifiche. L'unica perplessità rimaneva per l'impiego nei pazienti più gravi, quelli in classe funzionale avanzata, per i quali vi erano scarse informazioni relative al profilo di beneficio/rischio dei betabloccanti, data l'esiguità nel numero di pazienti con queste caratteristiche inclusi negli studi citati. Molto recentemente, lo studio COPERNICUS, che testava formalmente gli effetti del carvedilolo nei pazienti in classe NYHA IV, è stato interrotto per una evidenza di beneficio. Non sono ancora disponibili dati pubblicati relativi a questo studio, ma probabilmente, non appena accessibili, faranno sì che l'indicazione all'uso dei betabloccanti venga estesa anche ai pazienti con scompenso più avanzato. Gli studi con gli antialdosteronici
Nei pazienti con scompenso cardiaco l'aldosterone svolge numerose azioni dannose sia a livello periferico che locale, inducendo:
ritenzione di sodio ed acqua;
fibrosi perivascolare ed interstiziale cardiaca, che può
(a) ridurre di per sé la funzione sistolica del ventricolo sinistro,
(b) diminuire la compliance ventricolare, determinando anche una disfunzione diastolica,
(c) provocare disturbi di conduzione intraventricolari;
vulnerabilità nei confronti di aritmie cardiache aumentando il tono adrenergico e riducendo quello parasimpatico.
Queste azioni, note da tempo, non avevano mai condotto alla esecuzione di studi specifici aventi l'obiettivo di evidenziare un beneficio con l'utilizzo di antialdosteronici per il timore che tali farmaci potessero provocare danni a livello renale ed iperpotassiemia. Solo recentemente è stato pubblicato lo studio RALES8, che ha dimostrato come una terapia con basse dosi di spironolattone in pazienti con scompenso cardiaco avanzato (classe NYHA III-IV) sia in grado di diminuire significativamente la mortalità totale, quella improvvisa e quella indotta da peggioramento dello scompenso cardiaco (Tabella 1).
A questo punto anche lo spironolattone dovrebbe entrare a fare parte del pacchetto dei trattamenti raccomandati per i pazienti con scompenso cardiaco, almeno di quelli con le forme più gravi. Ed è proprio da qui che nasce la domanda già espressa nel titolo: sarà possibile trasferire le evidenze degli studi clinici al contesto assistenziale di tutti i giorni e il profilo benefico/rischio emerso nei trial sarà uguale nei pazienti del mondo reale? Diversità tra la ricerca e la pratica nell'ambito dello scompenso cardiaco
Gli studi clinici effettuati nei pazienti con scompenso cardiaco possono essere considerati, nella maggior parte dei casi, metodologicamente ben condotti ed analizzati con correttezza non solo formale. Il problema della trasferibilità al mondo reale risiede nel fatto che, in maniera più evidente che in altre condizioni patologiche, le popolazioni di pazienti incluse negli studi clinici differiscono notevolmente da quelle che si incontrano nella pratica di tutti i giorni. Nel caso dello scompenso, i pazienti non sono solo quelli seguiti dai cardiologi, ma anche quelli che vengono visti dai medici di medicina generale, dai geriatri, dagli internisti. La Tabella 2evidenza le principali differenze tra le caratteristiche delle popolazioni incluse nei trial e quelle osservate negli studi epidemiologici di comunità.
Una introduzione contemporanea nella pratica clinica di due trattamenti così importanti sia dal punto di vista del potenziale beneficio, ma anche dei possibili eventi avversi è particolarmente problematica soprattutto se si tiene conto delle grandi differenze esistenti fra le popolazioni nelle quali questi farmaci sono stati valutati e quelle nelle quali i trattamenti dovrebbero essere applicati. Recentemente su Lancet è stato proposto un algoritmo per l'introduzione di queste due categorie di farmaci nella pratica clinica9 . L'approccio sembra molto ragionevole, ma non viene proposta una valutazione controllata della sua applicabilità, lasciando pertanto aperte molte delle domande che gli stessi autori si pongono.
Un altro approccio è quello di pianificare degli studi osservazionali, nell'ambito dei quali i trattamenti raccomandati da trasferire alla pratica clinica vengono proposti secondo specifiche linee guida ed i pazienti vengono seguiti, per quanto riguarda il profilo di beneficio/rischio, come se fossero stati inclusi in uno studio clinico controllato. Questo approccio è quello scelto in Italia per quanto riguarda l'implementazione della terapia betabloccante nei pazienti con scompenso cardiaco seguiti negli ambulatori cardiologici dedicati11.
Conclusioni e domande aperte
I pazienti con scompenso cardiaco hanno oggi a disposizione numerose opportunità terapeutiche capaci di ridurne il grave carico di morbidità e mortalità. Tra queste, betabloccanti e antagonisti recettoriali dell'aldosterone.
Alcune domande rimangono comunque ancora aperte sia per quanto riguarda i betabloccanti che gli antagonisti recettoriali dell'aldosterone. Non è ancora del tutto chiaro quale sia il ruolo dei betabloccanti nei pazienti con scompenso cardiaco avanzato (almeno fino alla presentazione dei risultati dello studio COPERNICUS) ed in quelli con età avanzata, diabete mellito o con funzione ventricolare sinistra conservata. Per quanto riguarda gli antialdosteronici, allo stato attuale non ci sono evidenze di efficacia nei pazienti con scompenso cardiaco con sintomatologia moderata (NYHA II) o negli asintomatici con funzione ventricolare sinistra compromessa. Anche nei pazienti con chiari segni di scompenso cardiaco ma con funzione ventricolare conservata, che nella età avanzata arrivano ad essere circa il 40% dei pazienti scompensati, non sono stati condotti studi controllati che abbiano valutato gli effetti dello spironolattone o di altri antialdosteronici.
Oltre a queste domande, che saranno testate formalmente da trial specifici nel prossimo futuro, già da oggi rimane da risolvere il problema rilevante del trasferimento delle nuove conoscenze terapeutiche alla pratica clinica e la misura della efficacia di questi trattamenti nei pazienti in condizioni reali, per i quali il profilo prognostico è ancora gravato da elevati livelli di mortalità.
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