Al momento del lancio di un nuovo prodotto, le agenzie pubblicitarie evitano accuratamente di indicarne una sia pur vaga somiglianza con altri già disponibili in commercio, che pur godono di un buon indice di gradimento presso i consumatori. Per conquistarsi una nicchia di mercato, la concorrenza si basa su affermazioni promozionali suggestive, su slogan propagandistici coinvolgenti, che non hanno bisogno di essere dimostrati per essere creduti.
Anche il settore dei farmaci, che beni di consumo certo non sono, non è sempre esente da questa tentazione. In un contesto di classi terapeutiche ormai inflazionate, dove farmaci uguali vanno ad aggiungersi ad altri tutti uguali [solo a titolo di esempio si possono citare gli ACE-inibitori (13 molecole e ben 30 diverse specialità!), i sartani, le statine], le ditte produttrici ricorrono talora agli stessi espedienti della pubblicità "commerciale" per dare una connotazione di originalità al loro prodotto. Ogni nuovo farmaco che viene immesso sul mercato deve caratterizzarsi per una prerogativa che in qualche modo lo distingua dagli altri analoghi: ecco allora comparire l'ACE-inibitore specifico per la donna ipertesa in menopausa (moexipril), l'antidepressivo che, oltre a migliorare il tono dell'umore, facilita la socializzazione del paziente (reboxetina), oppure il dopaminergico che alla funzione di antiparkinson abbina, utilmente, quella di antidepressivo (pramipexolo).
Una caratteristica che all'occasione viene sfruttata per sostenere l'innovatività di un farmaco e per sottolinearne la superiorità su quelli già disponibili è la maggiore potenza relativa: casi recenti sono quelli del fluticasone e della cerivastatina per la quale, ad esempio, si afferma: "Una riduzione del 30% del colesterolo con soli 200 microgrammi, una dose 50 volte più bassa del dosaggio minimo delle statine tradizionali".
Così come, fra la gente comune, gli antibiotici potenti sono quelli in fiale (dolorose ma salvifiche) che si impiegano quando la malattia è seria, fra "gli addetti ai lavori" il concetto di potenza di un farmaco è in grado di evocare scenari di progresso: grazie alla ricerca scientifica, anche le possibilità terapeutiche migliorano. Capita talora che anche pubblicazioni scientifiche "non di parte", indirizzate ai medici, nel presentare nuovi farmaci, cadano nell'errore di indicare la maggiore potenza come un vantaggio.
L'equazione proposta dalle ditte produttrici è quella secondo cui la maggiore potenza del farmaco, consentendo un impiego di dosi più basse, si tradurrebbe in una sua migliore tollerabilità. A volte il messaggio è tale da indurre una estensione di questo vantaggio fino ad attribuire al farmaco anche una maggiore efficacia. E' facile tuttavia dimostrare come potenza ed efficacia non siano variabili interdipendenti e come la potenza possa addirittura influire negativamente sulla tossicità di un farmaco.
Qualche definizione di farmacologia di base
La risposta farmacologica è generalmente il risultato di una combinazione reversibile tra farmaco e recettore ed è direttamente proporzionale alla quantità di complessi farmaco-recettore che si formano. Per la maggior parte dei farmaci si ha una relazione proporzionale tra dose e risposta: se la dose del farmaco cresce, la risposta cresce proporzionalmente alla progressiva occupazione dei recettori fino ad un massimo che corrisponde all'occupazione di tutti i recettori.
L'affinità di un farmaco esprime la "forza" con cui il farmaco si lega al recettore: un farmaco che si combina "bene" col recettore e risulta fortemente legato, possiede una elevata affinità per quel recettore.
Farmaci che agiscono su recettori dello stesso tipo, possono però produrre risposte di differente entità per la loro diversa attività intrinseca.
L'attività intrinseca è la misura della risposta massima che il farmaco può produrre (non incrementabile neppure somministrandolo a dosi molto alte); è un parametro per distinguere farmaci che si legano allo stesso sito recettoriale ma non producono effetti uguali: esprime cioè l'efficacia del farmaco. Due farmaci che agiscono sugli stessi recettori e possiedono la stessa affinità, ma diversa attività intrinseca (o efficacia) richiedono una differente quantità di recettori occupati per produrre la stessa risposta, il che equivale a dire che il farmaco con più bassa attività intrinseca (o efficacia) richiede un maggior numero di recettori occupati e quindi una dose più alta.
Mentre l'efficacia è espressione dell'attività intrinseca, la potenza di un farmaco è espressione dell'affinità del farmaco per il recettore; è cioè la dose di farmaco capace di provocare una determinata risposta e quindi non ha quindi nulla a che vedere con l'efficacia.
Di esempi se ne possono trovare in tutte le classi farmacologiche. Così per gli analgesici oppiacei si parla di dosi equianalgesiche perché i vari principi attivi, con diversa potenza, se utilizzati a dosaggi opportuni consentono una analgesia simile. Gli H2-antagonisti inibiscono tutti l'acidità gastrica, ma per ottenere lo stesso effetto si useranno 20 mg di famotidina e 150 mg di ranitidina o di nizatidina; così la potenza della cerivastatina ne consente la somministrazione a dosaggi bassissimi (200 mcg) rispetto ai 20 mg della simvastatina. Su una base strettamente ponderale, i corticosteroidi mostrano differenze consistenti nella potenza antiinfiammatoria: tra i composti utilizzabili per aerosol nel trattamento dell'asma il fluticasone ha una potenza doppia rispetto al beclometasone e alla budesonide; tra i glucocorticoidi somministrabili per via orale il betametasone ha una potenza dieci volte superiore a quella del prednisone. Queste differenze di potenza si riflettono sulle corrispondenti differenze nelle dosi: le compresse di betametasone hanno un dosaggio 10 volte inferiore (0,5 mg) alle compresse di prednisone (5 mg), mentre il fluticasone viene usato a dosi dimezzate rispetto al beclometasone. Questo non significa che il fluticasone o il betametasone siano più efficaci: quando somministrati a dosi appropriate, tutti i corticosteroidi manifestano la stessa attività antiinfiammatoria e producono risposte cliniche del tutto sovrapponibili. La potenza ha quindi scarsa importanza dal punto di vista pratico in quanto è sufficiente una correzione della dose per ottenere lo stesso risultato terapeutico.
Gli effetti indesiderati di un farmaco sono, invece, correlati alla sua potenza: virtualmente, più il farmaco è potente più è dannoso. Questa correlazione viene tuttavia ridimensionata dal fatto che il farmaco "potente" viene utilizzato a dosaggi più bassi rispetto ad un analogo meno potente. Nell'ambito dei glucocorticoidi sistemici, alla maggiore potenza antiinfiammatoria del desametasone corrisponderebbe una maggiore potenza soppressiva sull'asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Tuttavia, l'equiparazione dei corticosteroidi sulla base di una scala di dosi antiinfiammatorie "equivalenti", li rende intercambiabili anche sotto il profilo della tossicità. Chi potrebbe affermare che un trattamento cronico con dosi equivalenti di prednisone, triamcinolone o desametasone comporti un minor rischio di osteoporosi o di soppressione dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene?
Così, anche la tesi secondo cui, quando impiegati a dosi equivalenti, il fluticasone causerebbe minori effetti indesiderati rispetto ad altri corticosteroidi, appare del tutto arbitraria e non dimostrata. Il fluticasone, in virtù della sua maggiore potenza (e affinità recettoriale), dovrebbe avere una maggiore attività sistemica e quindi una maggiore tossicità. In realtà, poiché la tossicità è legata alla possibilità di assorbimento sistemico, la scarsa biodisponibilità del fluticasone, di fatto, va ad "annullare" la sua maggiore tossicità.
Sulla base di queste considerazioni è chiaro come la potenza dei farmaci non va ad influire sul loro profilo beneficio/rischio e che l'asserito vantaggio in termini di efficacia e/o tollerabilità altro non è che uno slogan commerciale.