Per un ruolo del farmacista nei percorsi assistenziali
La Redazione
Alle origini di questa riflessione-proposta stanno due citazioni molto “locali”, che riassumono però perfettamente il quadro di riferimento necessario per valutare se, come, in che tempi, con che mezzi, alla prospettiva del titolo deve seguire un “sì” o un “no” o un “?”: tutti pieni di disincanto.
La prima citazione è molto antica1: appartiene ad un tempo culturale, politico, istituzionale nel quale la sanità pubblica era un orizzonte, non facile, ma condiviso. Un tema anche socialmente allora discusso vedeva nella farmacia un luogo in cui si poteva-doveva avere il tempo per sperimentare una informazione personalizzata su problemi che aprivano domande. L’autorevolezza del luogo di pubblicazione, in un giornale per di più molto schizzinoso nel riportare esperienze non inglesi, era un indicatore significativo del riconoscimento di una linea di pensiero-ricerca che valeva la pena percorrere.
La seconda citazione è cronaca del 2017, non è pubblicata, ma è una domanda che accompagna una proposta di ricerca da parte di una farmacista: “ È possibile, e come, realizzare una collaborazione farmacista-medico per ridurre il rischio di ipoglicemia nei pazienti diabetici, in particolare in quelli non seguiti da Centri Diabetologici?” Più in generale, lo studio potrebbe svilupparsi in una seconda fase come intervento di "pharmaceutical care" nel paziente diabetico. La proposta è corredata da referenze internazionali che suggeriscono la fattibilità e l’efficacia di un lavoro integrato tra medici e farmacisti. Non c’è dubbio che il diabete rappresenti oggi, ed in modo crescente, un problema di salute pubblica e richieda una integrazione-continuità di momenti e protagonisti assistenziali.
È certo peraltro che l’evoluzione delle farmacie, e dei mercati sanitari, ha visto una loro trasformazione in senso molto commerciale, in cui farmaci e problemi medici sono presenze marginali, pur essendo compatibili con prestazioni crescenti di controllo strumentale clinico dell’una o dell’altra “funzione” organica.
La “variabile” assente nella domanda iniziale della farmacista, ma ricorrente nella sua bozza di proposta, è molto chiara: chi ha, oggi, interesse per riconoscere/finanziare figure dedicate di farmacisti che siano parte di team assistenziali? E i medici di medicina generale in tempo di ricerca/difesa di loro nuove posizioni contrattuali, sentono il bisogno/desiderio di avere farmacisti al loro fianco? Ed è possibile, e come, pensare a “contratti” nazionali (come è la posizione della FOFI che fa riferimento anche ad esperienze inglesi in cui la “pharmaceutical care” diviene un ruolo generalizzato?)
O è più ragionevole pensare che (v. es. prima citazione?) si debba uscire da una logica contrattuale generale (che si confronta anche con un futuro che vede la distribuzione dei farmaci come uno dei tanti servizi commerciali, più o meno controllato) e porsi nella condizione (da parte di chi? a livello di singole “aziende”, o comunità? in generale o su problemi ben identificati e condivisi da chi ne è responsabile, inclusi cittadini-pazienti?) di sperimentare con rigore, ed insieme “leggerezza” metodologica ed organizzativa, ruoli, a linguaggi, rapporti che ri-cercano anzitutto una cultura non del consumo, ma della partecipazione?
La lunga - atipica ma sostanzialmente coerente - tradizione di FCR è stata quella di mantenere spazi di credibilità ed indipendenza nel suo servizio di promozione di una gestione responsabile e collaborativa dei presidi sanitari, di cui i farmaci sono evidentemente la componente centrale a livello ambulatoriale e nel quotidiano.
La presenza più regolare su IsF, accanto ad una “informazione” strettamente detta, di riflessioni-proposte sul come si evolve, in modo non certo promettente, un po’ tutta la sanità documenta la disponibilità a continuare nella esplorazione di possibili percorsi sperimentali.
È per questo che, affidandosi prima ad una revisione sintetica delle strategie di “presenza” della funzione pubblica della farmacia (pp.24), si formula una proposta operativa: diretta in prima battuta al contesto più conosciuto di Reggio Emilia, ma che si pensa possa costituire un punto di partenza per altre situazioni istituzionali ed assistenziali (pp.28).