La signora Gabriella, atleta non più giovanissima ma ancora attiva, ha lasciato alla mia segretaria un modulo da riempire: siccome assume levotiroxina per un ipotiroidismo da tiroidite di Hashimoto, deve dichiararlo per una gara di atletica. Consulto le tabelle del CONI, gentilmente allegate al modulo, ma non trovo la levotiroxina tra i farmaci dopanti e neppure tra quelli “mascheranti” di farmaci proibiti, quindi non capisco perché. Ma uno dei più preziosi frutti dell’esperienza di medico di medicina generale è smettere di porsi domande inutili, specialmente quando si tratta di certificati. Procedo quindi serenamente. Leggendo le istruzioni fornite dal CONI per la compilazione, rilevo che il certificato deve essere redatto obbligatoriamente da uno specialista della patologia per la quale si rende necessaria l’assunzione del farmaco. In realtà è più facile diagnosticare un ipotiroidismo da Hashimoto che un’influenza, ma, a parte questa considerazione evidentemente intellettualistica, ricordo di aver preso tanti anni fa anche una specializzazione in medicina interna. Non penso che mi qualifichi più che l’essere medico di medicina generale, ma dovrebbe essere burocraticamente accettabile. Redigo meticolosamente il modulo con tutti i riferimenti, identificandomi come internista.
Ne parlo poi con un collega di studio, giusto per raccontargliela come curiosità (mi resta difficile decidere se definirla sgradevole o semplicemente liquidabile con un’alzata di spalle: c’è di peggio al mondo e anche nel nostro lavoro). “Ma certo, che vuoi che ne sappia il medico della mutua di ipotiroidismo?” - ironizza il collega - “del resto non puoi neppure certificarlo come patologia per l’esenzione dal ticket: ci tocca mandare i pazienti dall’endocrinologo!”.
In effetti questa diffidenza pregiudiziale nei confronti del medico di medicina generale è diffusa anche nel Servizio sanitario. A parte le certificazioni per l’esenzione dal ticket (tra cui si annoverano quelle per asma bronchiale, diabete mellito, ipertensione arteriosa e molte altre patologie comunissime, di diagnosi elementare e facilmente documentabile), ci sono i piani terapeutici che vincolano la prescrizione di alcuni farmaci. È ovvio che il trattamento di alcune patologie non rientri nelle competenze dei medici di medicina generale (neppure di quelli più orgogliosi e suscettibili), e si capisce che quindi per alcuni farmaci, specie di recente introduzione, sia prevista l’esclusiva prescrizione specialistica, unitamente ad un periodico monitoraggio.
Vi sono però diverse classi di farmaci, alcune in uso oramai da parecchio tempo, per le quali la previsione del piano terapeutico va soltanto a complicare l’assistenza di malati cronici, con un corteo di visite specialistiche, produzione di moduli cartacei, e loro custodia da parte del medico di medicina generale, che può essere chiamato a “giustificare” le relative ricette. Questo avviene senza alcun vantaggio e a prezzo di inutili percorsi di visite e follow up, di cui il medico di medicina generale potrebbe farsi carico in prima persona, assumendosene la responsabilità senza superflui intermediari, a tutto vantaggio di professionalità, continuità assistenziale e riduzione di disagi per i propri pazienti. Del resto il parere dello specialista si può sempre richiedere, nel caso vi siano incertezze o manchino la necessaria esperienza e competenza per decidere la prescrizione o la continuazione del trattamento, in generale o in casi specifici.
“Dottore, per mia madre il cardiologo mi ha dato l’appuntamento tra tre mesi!” - mi diceva il figlio di una mia assistita a cui ho trovato per la seconda volta una fibrillazione atriale all’ECG, confermata dopo due giorni e ad esordio non databile. “Che faccio, continuo con l’eparina?”. La signora ha 82 anni, non si muove agevolmente e il figlio lavora: scoagularla con il warfarin (come da indicazione del Pronto soccorso a cui l’ho inviata, sperando in una prescrizione di NAO) è fuori discussione, per la difficoltà di accompagnarla in ospedale a dosare l’INR, che per di più va fatto ripetutamente nei primi tempi per assestare la dose. Ma ho bisogno del piano terapeutico per il dabigatran o uno dei nuovi anticoagulanti, che non posso prescrivere di mia iniziativa. I requisiti per la prescrizione previsti dal piano sono abbastanza stringenti da non prestarsi ad arbitrarie interpretazioni; la difficoltà di monitoraggio del warfarin è uno di questi e non capisco perché l’autonoma prescrizione sia negata al medico di medicina generale, che ha tutti gli elementi per decidere (ed eventualmente compilare il piano terapeutico, ammesso che abbia un senso), mentre è concessa al cardiologo (e va bene) ma anche all’ematologo (?) e al neurologo (che semmai è specialista di alcune delle complicanze neurologiche di una fibrillazione atriale e non della terapia della fibrillazione in sé, tant’è che di norma invia a sua volta il paziente al cardiologo). Nessuno di questi specialisti è peraltro formalmente a conoscenza delle difficoltà che il monitoraggio del warfarin possa presentare per uno specifico paziente, cioè il motivo principale di una decisione terapeutica alternativa.
Ne parlo telefonicamente con il cardiologo, che si dilunga nel raccontarmi quanto tempo ci vuole per compilare il piano online, che “in tutto il mondo” i medici di famiglia possono prescrivere i nuovi anticoagulanti senza complicazioni, e che comunque lui non fa niente senza una visita (giustamente). Se gli ritelefono tra un po’ di giorni, così mi dice, vedrà se può visitare la paziente un po’ prima, ma non mi assicura nulla, perché è pieno di appuntamenti. “Puoi mandarle gli infermieri della ASL a domicilio per l’INR, se la paziente non è trasportabile” - mi aggiunge - “così intanto cominci col warfarin”. Già, ma la paziente in realtà è trasportabile, e gli infermieri della ASL, già oberati di lavoro a domicilio, oramai non hanno più margini per essere “comprensivi” nei confronti di mie richieste non rigorosamente motivate da assoluta intrasportabilità. Chiedo al solito collega in studio, che mi dà il nome di un cardiologo: “Telefonagli… aspetta che ti do il numero di cellulare… gli mandi gli esami e l’ECG per fax o email e lui ti manda il piano, senza tante storie, che di noi si fida…”. Due giorni dopo ho il famigerato piano. Ne riparliamo tra un anno, alla fine del primo giro di giostra.
Una situazione simile si realizza con i farmaci antidiabetici di più recente introduzione. Mentre si sottolinea sempre la necessità di un trattamento personalizzato ma rigoroso dei diabetici per ridurre il rischio delle complicanze, si privano poi i medici delle cure primarie, cioè quelli in prima linea su questo fronte, di strumenti che in alcuni casi sono irrinunciabili. Tra l’altro non è che i centri diabetologici siano sempre facilmente accessibili a tutti i pazienti: ogni medico di medicina generale ne ha di confinati a domicilio, e ci sono quelli che vivono in zone lontane da ambulatori specialistici.
“Ho capito, dottore, che l’emoglobina glicosilata a 10 e 4 non va bene neanche a 84 anni, lo so, sono diabetica anch’io, ma non possiamo mica dare l’insulina a mamma! Non è capace di farsela, ci vede poco e non sa usare il glucometro” mi diceva la figlia di una mia paziente, già trattata con metformina e gliclazide. È autonoma, ma non si può pretendere troppo. Però non può rimanere con glicemia basale a 230 e la glicata dovrebbe scendere almeno sotto a 9.“Non c’è solo l’insulina, si possono usare anche altri farmaci, solo che io non posso prescriverli: la mando al centro antidiabetico”.
Seguo la paziente da oltre 30 anni: è sempre stata in buon controllo, anche perché nonostante l’età cammina molto tutti i giorni ed è scrupolosa sulla dieta. Tant’è che non ha complicanze significative nonostante tre decenni di malattia. La situazione è peggiorata forse perché questo inverno è stata quasi sempre a casa per via del brutto tempo. Ma comunque i farmaci alla lunga non tengono: è il classico fallimento secondario. Dovessi però dire che delegarla ai diabetologi, nel suo interesse, non produce nessun effetto negativo sul mio orgoglio, non personale, ma di medico di medicina generale, mentirei: mi sento messo da parte dal Servizio sanitario e non è una bella sensazione. La retorica della “collaborazione” tra diversi ambiti del SSN non mi sembra pertinente al caso, a parte che di fatto non esiste: c’è sempre un unico decisore ed è autonomo; inutile dire chi sia tra specialista e medico di medicina generale, quando per di più anche parlarsi è sostanzialmente impraticabile nella normale routine quotidiana.
Con i nuovi farmaci antidiabetici, perorare la causa di un’abolizione dei piani terapeutici (o meglio, della riserva prescrittiva agli specialisti), è tuttavia certamente un po’ più complesso, principalmente perché si tratta di farmaci che i medici di medicina generale non sono abituati a prescrivere e conoscono poco, limitandosi spesso a seguire le indicazioni dei centri diabetologici. C’è da dire però che si tratta di farmaci (molti da assumere per via orale) assai più maneggevoli dell’insulina (che invece non ha piani terapeutici), a ridotto rischio di ipoglicemia, temibilissima negli anziani, con prove di efficacia a supporto della sicurezza in ambito cardiovascolare (in qualche caso anche preventiva), utilizzabili anche in presenza di ridotta funzione renale e, dulcis in fundo, che possono facilitare la riduzione del peso corporeo. Dato che tanto insulina, quanto sulfaniluree e repaglinide possono dare ipoglicemie e richiedono quindi un importante addestramento dei diabetici all’autogestione (cosa a volte estremamente difficile nei pazienti più anziani), ci si trova nella strana situazione in cui farmaci meno maneggevoli e con maggiori controindicazioni ed effetti avversi (vedi anche i glitazoni) possono essere prescritti tranquillamente dai medici di medicina generale, mentre gli altri debbono essere prescritti dai diabetologi. Sembrerebbe più facile immaginare, a tutto vantaggio della cura dei diabetici, che i medici di medicina generale (almeno quelli che vogliono) possano facilmente imparare ad usarli, se messi in condizione di poterlo fare di propria iniziativa. Salvo che, mentre si considera possibile e doveroso “educare” i diabetici (cosa a volte assai complicata), si ritenga difficile se non impossibile qualificare i medici di medicina generale, cioè che si diano tutto sommato per persi rispetto a pratiche cliniche minimamente decenti.
Paradossale è poi il caso dei farmaci per la disfunzione erettile, concedibili con piano terapeutico redatto dall’urologo a pazienti prostatectomizzati per tumore. Non si capisce che cosa lo specialista possa certificare di più o meglio di qualunque medico in proposito, una volta che il paziente operato riferisca il suo problema. L’intervento chirurgico è documentabile con l’esibizione del referto di dimissione ospedaliera, quindi si esclude ogni possibilità di abuso. Inoltre i farmaci prescrivibili sono soggetti a nota AIFA 75, che il medico deve riportare nella ricetta, di fatto certificandone la concedibilità. In questo caso il piano terapeutico produce l’unico effetto di creare un deliberato e pretestuoso ostacolo alla prescrizione, e non certo di garantirne l’appropriatezza.
Una menzione a parte meritano infine i farmaci per le demenze. Qui la situazione si può definire surreale. La nota AIFA 85, oltre a consentire la prescrizione dei farmaci per l’Alzheimer ai soli specialisti, spiega che i farmaci funzionano molto poco, in pochi pazienti, che gli effetti sono pressoché irrilevanti rispetto a tutti gli end-point considerati (funzioni cognitive, peso sui caregiver, progressione, rischio di istituzionalizzazione), e la concedibilità da parte del SSN deriva da miglioramenti osservati con scale (in primis il MMSE, ma non solo), che risultano statisticamente significativi benché assolutamente minimi (probabilmente nel range di variabilità di un test-retest) e soprattutto non percepibili nella vita reale. Per di più si afferma (nel cosiddetto “background” esplicativo della nota 85) che “i risultati degli RCT potrebbero essere stati distorti a favore degli inibitori dell’AChE in conseguenza di discutibili scelte metodologiche riguardanti il disegno dello studio e l’analisi dei dati”. In queste condizioni, si capisce che l’Aifa “non se la senta” di negare la concedibilità di farmaci sostanzialmente inutili, considerata la gravità della patologia e il coinvolgimento emotivo, affettivo e di carico assistenziale che ne deriva per i famigliari dei pazienti: è umano non cercarsi grane.
Ma indiscutibilmente, se si tratta di andare incontro ad aspettative, per quanto infondate, dei pazienti e/o dei loro famigliari, lo specialista nel campo sarebbe il medico di medicina generale. Dovrebbe essere lui a redigere un piano terapeutico che permetta allo specialista di prescrivere i farmaci, con una non tanto illogica inversione di ruoli: ci sono anche persone che capiscono, per quanto in preda a ovvie preoccupazioni per il futuro loro e dei loro cari. Viene da pensare che dopo un tentativo di cura, si potrebbe chiedere alle famiglie di optare per la prosecuzione del farmaco o un bonus in denaro equivalente, a loro scelta, dicendo le cose come stanno anziché facendo finta di curare. Quantomeno si ridurrebbe l’uso di farmaci inutili e si farebbe qualcosa di potenzialmente più consistente nell’alleviare il peso dei caregiver, tra cui c’è anche lo stucchevole andirivieni a cadenze trimestrali e semestrali da uno specialista che si limita a somministrare l’MMSE, un test che qualunque medico è in grado di fare da sé in 10 minuti.
A volte peraltro il piano terapeutico è semplicemente rinnovato a richiesta di un famigliare, quando risulta disagevole portare a visita pazienti in condizioni precarie (anche gli specialisti sanno essere comprensivi). Per la prima diagnosi, non c’è alcuna difficoltà: tutti i pazienti vanno comunque inizialmente dal neurologo o dal geriatra per confermare un sospetto clinico di Alzheimer, ma inoltre è la stessa Aifa a suggerire un procedimento diagnostico facile da seguire anche da parte del medico di medicina generale, con le eventuali opportune consulenze. Nel follow up, l’intervento dello specialista, se finalizzato a valutare l’appropriatezza della prosecuzione terapeutica basata sul MMSE, non è indispensabile e consuma risorse (di tutti) meglio utilizzabili.
In conclusione, diverse classi di farmaci dovrebbero essere prescrivibili autonomamente anche dai medici di medicina generale senza alcun obbligo di ottenere il piano terapeutico da uno specialista. Se si ritiene indispensabile a fini di farmacovigilanza, il piano terapeutico può essere redatto dai medici di medicina generale stessi, oltre che dagli specialisti. Le motivazioni a sostegno dell’attuale stato di cose sembrano essere più basate su questioni economiche che non sulla effettiva necessità di competenze indisponibili nella medicina generale. Oltre alla farraginosità dei percorsi imposti ai pazienti, si rischia anche una dequalificazione delle cure primarie, già in vasta crisi vocazionale tra i giovani medici. Dover inviare ad altri un paziente che si è in grado di assistere non è una questione di meri formalismi procedurali, non è ininfluente sulla percezione del proprio ruolo professionale, e inoltre investe anche la percezione che i pazienti stessi hanno del loro medico di fiducia, come gerarchicamente sottoposto. Ne consegue indirettamente una tendenza al ricorso agli specialisti in tutti i campi, anche quando non ce ne sarebbe bisogno. Ma svalutare le cure primarie significa dequalificare l’intero sistema, rendendolo meno efficiente e probabilmente più costoso. Se l’Aifa non si fida dei medici convenzionati, potrebbe almeno considerare che l’abolizione della riserva prescrittiva agli specialisti favorirebbe solo quelli più impegnati, mentre chi è abituato a delegare continuerebbe certamente a farlo, il tutto senza pregiudizio per i pazienti né per l’appropriatezza delle terapie.
Anni fa l’AIFA raccolse elenchi di medici, tramite le associazioni scientifiche e di categoria, per sperimentare la possibilità di affidare ai medici di medicina generale disponibili la redazione dei piani terapeutici per alcuni farmaci, ma poi non se ne è fatto più nulla. Mi risulta che un dibattito su questi temi sia di nuovo in corso tra l’AIFA e le parti sindacali della medicina generale. Speriamo bene.