Bernard Bégaud Professore di farmacologia presso l'Università di Bordeaux e Direttore dell'Unità di Ricerca INSERM U657 - Farmacoepidemiologia e valutazione dell'impatto dei prodotti della salute sulle popolazioni
Ormai è risaputo che la farmacovigilanza è nata nel 1961 come risposta alla tragedia della talidomide e si è andata via via strutturando durante gli anni successivi. Il fatto che un farmaco assunto per alleviare sintomi tutto sommato lievi, quali il vomito e i problemi del sonno durante la gravidanza, avesse potuto causare circa 15.000 casi di malformazioni gravi nei neonati stimolò una presa di coscienza improvvisa assieme ad un profondo senso di colpa guardando al passato. Divenne quindi impensabile commercializzare un farmaco, che avrebbe potuto essere utilizzato da milioni di persone nel mondo, senza un sistema di sorveglianza che potesse segnalare il più rapidamente possibile la comparsa di eventuali reazioni anomale. Fino a quella data non esisteva niente o quasi, per lo meno di organizzato.
A posteriori, è stupefacente pensare che di tragedie simili a quella della talidomide, o persino più gravi, non ne siano avvenute prima. In effetti, considerando che gli studi pre-commercializzazione venivano condotti in modo sommario, o non venivano condotti affatto, ogni lancio di un nuovo prodotto era una vera scommessa destinata qualche volta ad essere persa, come in effetti è accaduto. Se tutto sembrava andare per il meglio, era probabilmente perché la totale assenza di sorveglianza organizzata dopo l’immissione in commercio di un farmaco impediva di avere percezione di ciò che accadeva. Questa è purtroppo, come vedremo, una posizione comoda per molti decisori. A volte, per fortuna, tutto va bene. Uno degli esempi più belli è rappresentato dall’aspirina, lanciata dalla Bayer nel 1899 e utilizzata nei dieci anni successivi da decine di milioni di persone nonostante fosse stata “testata” da Heinrich Dreier solo su due rane e valutata “clinicamente” da Felix Hoffmann su suo padre che soffriva di reumatismi e su alcuni parenti e amici!
All’inizio, ovviamente, l’attività di farmacovigilanza venne organizzata sulla base del modello che aveva permesso di lanciare l’allarme sulla talidomide e di radunare nel più breve tempo possibile i casi segnalati da professionisti sanitari (le ostetriche in questo caso) o dagli stessi consumatori. Nacque così la “segnalazione spontanea”. Malgrado tutte le critiche e gli attacchi di cui è stata costantemente oggetto (definita ad es. “garbage in, garbage out”), e i suoi limiti evidenti nel quantificare un rischio, questa modalità di sorveglianza resta, in tutti i paesi, la più utilizzata, e, dopo tutto, la più efficiente per identificare nuovi effetti indesiderati.
Negli ultimi anni la farmacovigilanza ha conosciuto una nuova giovinezza grazie a internet, ai forum e ai social network: milioni di persone comunicano e si confrontano sugli effetti indesiderati che avvertono, che temono, o che credono di sentire, dopo aver assunto un farmaco, e questo spesso ancora prima di averne parlato con il proprio medico. Questo materiale è una vera e propria miniera di segnalazioni (grazie alla possibilità di effettuare ricerche testuali automatizzate) a cui fanno seguito azioni da parte della Sanità pubblica. In Francia ad esempio, il cambio della formulazione della levotiroxina (Levothyrox), senza che ne fosse stata data una informazione specifica sufficiente, ha provocato in pochi mesi più di 30.000 segnalazioni di effetti indesiderati sul portale informatizzato recentemente istituito dal Ministero della Sanità.
Il periodo 1965-1990 è stato dunque quello della farmacovigilanza basata sulle allerte e delle decisioni basate sulle segnalazioni spontanee. È facile dimostrare statisticamente che fare emergere un numero sufficiente di casi per generare un’allerta presuppone che l’associazione tra l’esposizione (l’assunzione del farmaco) e la comparsa dell’effetto indesiderato sia forte o molto forte. In parole semplici, il sistema ha probabilità di funzionare solo se si moltiplica almeno per 5 (rischio relativo) il rischio di base che si manifesti l’effetto (cioè il rischio espresso in individui non esposti al farmaco).
Tra il 1965 e il 1990 sono stati ritirati dal mercato molti farmaci. Questo per due ragioni: l’industria farmaceutica aveva modalità di protezione dei propri farmaci molto meno sviluppate e raffinate di oggi e aveva minori capacità di elaborare contro-deduzioni; inoltre, tutti i dossier praticamente riguardavano casi in cui l’associazione fra farmaco ed evento era forte o molto forte, rendendo il dibattito e la contestazione della causalità praticamente senza senso. Citiamo l’esempio del dipirone (metamizolo, noramidopirina), un analgesico che può causare agranulocitosi, o quello degli anoressizzanti anfetaminici (i cosiddetti “taglia-fame”) che aumentano il rischio di ipertensione arteriosa primaria. In entrambi i casi, il rischio relativo, misurato successivamente mediante studi di farmacoepidemiologia, era superiore a 10 e arrivava a 20 o 30 in certe analisi per sottogruppi. Questo in epidemiologia ha un significato molto chiaro: che la grande maggioranza dei casi rilevati può essere ritenuta imputabile al farmaco. Una formula semplice [%=100 x (RR-1)/RR] dimostra che, se il rischio relativo è 10, il 90% dei casi riportati sono imputabili al farmaco, percentuale che sale al 95% per un rischio relativo pari a 20. Questa elevata “specificità” lasciava pochi dubbi, e toglieva molti scrupoli a chi doveva decidere.
Un conto tuttavia è il fatto che la causalità non sia contestabile, un altro che la decisione di ritirare il farmaco sia giustificata sul piano della sanità pubblica; i due aspetti non erano in contraddizione. Prendiamo l’esempio dell’agranulocitosi indotta da dipirone. Da uno studio condotto in Spagna dal gruppo di Joan Ramon Laporte (Eur J Clin Pharmacol. 2005; 60: 821-9), è emerso che il rischio relativo per questo evento era 25,8 (il 96,1% dei casi verificatesi tra gli esposti era dunque a priori attribuibile al farmaco). Ma l’incidenza di base dell’agranulocitosi è molto limitata, al massimo dell’ordine di 7 casi per milione di abitanti/anno. Un adulto trattato per un mese presenta quindi un rischio di base al massimo uguale a 0,58 per milione [(7/106)/12]. Un rischio relativo di 25,8 aumenta questo rischio a 15 casi per milione, ossia una possibilità su 66.450 che scende a circa 1 caso su 200.000 per un trattamento di 10 giorni; alcuni rischi sembrano moderati se il trattamento è pienamente giustificato ma del tutto inaccettabili in caso contrario. Ciò dimostra ancora una volta che in farmacovigilanza non esiste scandalo se non quando l’assunzione di un farmaco è inutile. Il dipirone fu ritirato dal mercato americano nel 1977 e a seguire in diversi altri paesi (Svezia, India, Francia, ecc) per un numero di casi di agranulocitosi attribuibile al farmaco tutto sommato modesto ma la cui eziologia non lasciava adito a dubbi.
Questa farmacovigilanza “semplice” che si basava sulle segnalazioni spontanee, un’analisi di causalità molto sommaria e il buon senso farmacologico e clinico furono all’origine del ritiro dal mercato di numerosi farmaci, spesso vecchi. Per esempio, tra il 1981 e il 1990, in Francia fu ritirata l’autorizzazione esistente di 20 farmaci, ossia in media due all’anno; 18 sono stati ritirati dal 1991 al 2000 e 9 dal 2001 al 2010.
Questa onnipresenza della farmacovigilanza ha prodotto a sua volta una reazione molto forte, finalizzata a darle una regolamentazione.
A partire dagli anni ‘90, lo sviluppo, e in seguito l’uso generalizzato, di un approccio farmacoepidemiologico ha reso i dibattiti sulla farmacovigilanza apparentemente più “scientifici” ma anche più complessi. I dati sono diventati eccessivi per chi doveva prendere decisioni, avendo una cultura spesso modesta in ambito di sanità pubblica: analisi e contro-analisi spesso contraddittorie, discussioni su bias, sull’influenza di fattori di rischio (età, durata del trattamento, comorbidità, concomitanza di altre terapie, ecc) o di cause alternative. Da allora, le cose essenziali sono state spesso oscurate dalle discussioni senza fine tra esperti, raramente indipendenti. L’analisi della “realtà concreta”, che dovrebbe fornire un chiarimento oggettivo, spesso aumenta la confusione e ritarda le decisioni che scaturirebbero dal semplice buon senso. I casi dei coxib e dei contraccettivi di terza generazione, fra i tanti, parlano da soli. La mancata considerazione della segnalazione di un aumento di rischio di demenza di tipo Alzheimer in pazienti con più di 65 anni che assumono benzodiazepine illustra perfettamente questa condizione di “debolezza”, nefasta per la sanità pubblica. Ad oggi sono stati pubblicati sull’argomento 18 studi, 15 che confermano l’aumento di rischio e 3 che lo negano. Anche senza considerare la plausibilità biologica, l’associazione non sembra priva di logica dal momento che sono noti gli effetti delle benzodiazepine sulla memoria e sulle funzioni cognitive. È ancora più interessante notare che molti di questi studi hanno concluso che l’eccesso di rischio, quando esiste, si manifesta solo in caso di trattamenti prolungati, trattamenti che le raccomandazioni internazionali sconsigliano (prevedono infatti un mese di trattamento se le benzodiazepine sono assunte come ipnotici e tre mesi se impiegate come ansiolitici). Anche solo a buon senso, la decisione potrebbe essere semplice: ad esempio contrastare i trattamenti prolungati non giustificati non rimborsandoli più, salvo eccezioni, al di là della durata raccomandata (In Italia le benzodiazepine non sono rimborsabili in nessun caso. ndr). In Francia, per esempio, in oltre la metà dei casi l’assunzione di benzodiazepine supera (spesso largamente) questa durata. L’applicazione di questo semplice principio di precauzione risolverebbe il problema, a prescindere dal fatto che il rischio di demenza sia effettivamente aumentato o meno. Gli organismi regolatori, compresi quelli europei, invece non tengono conto di questa segnalazione (ma si può ancora parlare di “segnalazione” quando si dispone di risultati di 18 studi farmacoepidemiologici e di 5 metanalisi condotti in sette paesi differenti?), con il pretesto “che il nesso di causalità non è stato stabilito”.
Proseguiamo con questo esempio poiché illustra perfettamente i paradossi e i fallimenti dell’attuale “regolamentazione”, almeno in tre punti. Primo, assumere decisioni per contrastare trattamenti ingiustificatamente prolungati (il che significherebbe semplicemente applicare raccomandazioni adottate da più di venti anni!) non sminuirebbe affatto l’utilità delle benzodiazepine, anzi il contrario. Secondo, diminuirebbero sensibilmente gli effetti iatrogeni prevenibili associati a questa classe (fra cui incidenti, fratture in seguito a cadute, che in Francia si stima siano circa 20.000 all’anno nelle persone anziane). Terzo, è raro, per non dire eccezionale, che la causalità di un’associazione tra l’esposizione ad un farmaco e la comparsa di un effetto indesiderato possa essere stabilita in modo inconfutabile da uno studio osservazionale.
La discussione sulla probabilità di bias rimarrà sempre aperta anche per studi particolarmente ben progettati e condotti. Respingere una decisione, qualunque essa sia, col pretesto che “non esistono prove” dimostra una mancanza di coraggio e di cultura di sanità pubblica.
Quest’ultimo punto ci conduce alla grande sfida che dovrà affrontare una farmacovigilanza moderna, cioè come gestire il basso rischio. Abbiamo visto che, all’inizio, le decisioni di ritirare un farmaco dal mercato venivano assunte essenzialmente in caso di associazione molto stretta tra la sua assunzione e la comparsa di eventi spesso gravi e drammatici. La numerosità di questi eventi, tuttavia, era comunque spesso modesta: tutt’al più da qualche decina a qualche centinaia. Quando uno studio farmacoepidemiologico confermava l’associazione, se il rischio relativo era elevato si rafforzava in chi doveva decidere l’idea che si trattasse di un problema urgente e prioritario.
In realtà quello che si dovrebbe temere è esattamente il contrario. Immaginiamo (scenario molto probabile) che un farmaco molto utilizzato aumenti leggermente (da un fattore 1,2 a 1,5) il rischio di insorgenza di una malattia grave e frequente (es.: cancro, demenza, infarto del miocardio). In Europa, questa eventualità potrebbe causare migliaia o decine di migliaia di casi in più nonostante l’esiguità del rischio relativo renda praticamente indimostrabile questa associazione attraverso uno studio epidemiologico classico. Solo sistemi tipo big data potrebbero pretendere di avere la potenza statistica necessaria, anche se con un limite importante: con questo livello di potenza statistica, tutto o quasi diventerebbe “statisticamente significativo” e a questo punto sarebbe indispensabile una elevata competenza per distinguere ciò che merita di essere preso in considerazione.
Dopo il “bacio di Giuda” della farmacoepidemiologia, la seconda morte della farmacovigilanza è sopraggiunta come conseguenza di un’arma implacabile sviluppata nel contempo dalle autorità sanitarie e dall’industria farmaceutica: la regolamentazione. Nata dall’osservazione, la farmacovigilanza si dovrebbe basare su ragionamenti di buon senso e regole semplici: la farmacovigilanza europea ed internazionale è stata invece progressivamente soffocata dalla sostituzione della competenza con il controllo. Oggi è più importante assicurarsi che l’effetto indesiderato sia stato segnalato correttamente entro i termini di tempo previsti piuttosto che chiedersi perché questo effetto si è verificato o se lo si sarebbe potuto evitare.
Il passo successivo è consistito nell’elaborazione, spesso con l’aiuto dell’industria farmaceutica, di raccomandazioni discutibili che, ove applicate in modo rigoroso, rischiano (ammesso che non fosse il loro obiettivo!) di disturbare o rendere inefficace la funzione di allerta. Prendiamo ad esempio la seconda edizione (gennaio 2018) della brochure pubblicata dall’OMS: “Valutazione del nesso di causalità tra vaccinazione e comparsa di eventi avversi”. Al capitolo che tratta la causalità, a livello della popolazione, degli effetti indesiderati dei vaccini (pag. 6) si legge: “È necessario che l’associazione abbia significatività statistica per dimostrare che la manifestazione dell’evento non sia stata casuale“ e in seguito: “L’associazione tra il vaccino e l’evento avverso dovrebbe essere plausibile e coerente con le attuali conoscenze sulla biologia del vaccino e l’evento avverso”. Senza criticare la fondatezza di questi criteri, derivati senza grande originalità da quelli proposti in precedenza da Sir Bradford-Hill, sottolineiamo che la loro rigida applicazione (cioè in un’ottica di regole e non di competenza) porterà a respingere almeno i due terzi delle segnalazioni oggi ritenute rilevanti per la sicurezza dei vaccini. In effetti, non c’è praticamente alcuna possibilità di raggiungere una significatività statistica per un rischio relativo dell’ordine di 1,5, rischio che può tuttavia produrre, se vengono coinvolte milioni di persone, decine di migliaia di casi di effetti indesiderati associati a vaccini. Analogamente il rischio di invaginazione intestinale associato al vaccino anti-rotavirus probabilmente non sarebbe stato preso in considerazione in quanto “non plausibile” secondo questi criteri.
A parte la necessità di rimettere in discussione una “regolamentazione” ossessionata dalle regole al punto di dimenticare il buon senso, la migliore arma per proteggere i pazienti, la democrazia sanitaria, e i farmaci stessi, è mettere in primo piano la regola di base così meticolosamente occultata: se un trattamento è perfettamente giustificato, la comparsa di un effetto indesiderato non è altro che un caso sfortunato in una scommessa ragionevolmente mantenuta sotto controllo. In caso contrario è un errore imperdonabile. Aldilà di discussioni senza fine sulla causalità, alcune decisioni in merito ad impieghi ingiustificati sarebbero semplici da prendere e sarebbero al contempo una prova d’indipendenza delle autorità sanitarie ed un progresso importante quanto a patologie iatrogene evitabili.
Per saperne di più
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