Il prezzo dei farmaci per garantire la sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale
Giuseppe Traversa Istituto Superiore di Sanità
Premessa
Riusciremo a garantire l’accesso ai nuovi farmaci di dimostrata efficacia che via via si rendono disponibili? Si tratta di una domanda al centro dell’attenzione internazionale, in quanto tutti i sistemi sanitari devono fare i conti con l’immissione in commercio di nuovi farmaci più costosi, spesso utilizzati in trattamenti combinati e per durate di trattamento crescenti, in popolazioni di pazienti eleggibili che diventano sempre più ampie. Di queste possibili fonti di incremento della spesa, la componente della definizione del prezzo dei nuovi farmaci è quella sulla quale si concentra maggiormente l’attenzione in questa sede.
Molte critiche vengono rivolte alle aziende farmaceutiche sulla modalità di definizione dei prezzi, che appaiono spesso semplicemente “eccessivi”1, indipendenti cioè dai pur rilevanti investimenti effettuati in ricerca e sviluppo, e da un “ragionevole” profitto sugli investimenti. In questa prospettiva, la via dovrebbe essere quella di identificare una struttura dei prezzi che rifletta il più possibile i costi di produzione. Piuttosto che focalizzare l’attenzione sui prezzi eccessivi, un’alternativa è quella di arrivare a definire i prezzi sulla base di una valutazione comparativa del place in therapy di un farmaco, il che implica che farmaci uguali o terapeuticamente equivalenti debbano avere prezzi simili, e che prezzi più elevati possono essere riconosciuti solo a fronte di un valore aggiunto clinicamente rilevante per i pazienti.
In questo articolo si proverà ad argomentare che il tentativo di arrivare a definire un prezzo “giusto” attraverso una migliore comprensione dei costi di produzione si scontra con difficoltà difficilmente superabili, se non altro perché le aziende produttrici hanno informazioni molto più accurate sulla struttura dei costi, e perché vi sono grandi margini di discrezionalità relativi all’identificazione delle diverse voci di costo. Più promettente, per garantire un equilibrio fra i diversi interessi in gioco - l’accesso ai farmaci, la remunerazione dei produttori e la sostenibilità della spesa - è invece la via del place in therapy, insieme alla promozione di meccanismi competitivi.
Prima di entrare nel merito dell’argomentazione, si richiamano alcuni recenti casi che possono essere considerati emblematici di come affrontare il tema della definizione dei prezzi. Il primo si riferisce al sofosbuvir, e cioè a un farmaco innovativo che ha contribuito a cambiare la storia naturale dell’infezione da virus dell’epatite C. Il secondo si riferisce alla categoria dei farmaci oncologici, per i quali da più tempo si sollevano contestazioni per i prezzi praticati. Il terzo caso riguarda i farmaci che hanno perso il brevetto e che possono diventare, anche se rilevanti per la salute dei cittadini, oggetto di carenze produttive e/o di incrementi dei prezzi simili a quelli dei farmaci ancora coperti da brevetto.
La discussione intorno ad alcuni casi tipo
Il dibattito negli USA sul sofosbuvir
Quale prezzo è ragionevole pagare per un farmaco davvero innovativo? Il caso sofosbuvir è emblematico, per diverse ragioni, di come possa essere affrontata la discussione.
In primo luogo, riguarda un farmaco dal prezzo molto elevato: negli USA, il prezzo iniziale è stato di 84.000 dollari per le 12 settimane di trattamento, equivalente cioè a circa 1.000 dollari per compressa. In secondo luogo, il farmaco ha una popolazione potenzialmente eleggibile al trattamento assai ampia. Le due caratteristiche comportano rischi elevati per la sostenibilità di un sistema sanitario. La presenza di un prezzo elevato, che in passato eravamo abituati a vedere applicato soprattutto alle malattie rare, se combinato ad una condizione ad alta prevalenza come l’infezione da virus dell’epatite C (HCV), rende difficilmente sostenibile la spesa per qualunque sistema sanitario. Ad esempio, in Italia, con stime iniziali dei potenziali pazienti che potevano beneficiare del trattamento comprese fra 1 e 2 milioni di persone, ci si poteva aspettare una spesa, per un solo farmaco, equivalente o superiore alla spesa complessiva dell’SSN.
Negli USA, il Senato ha promosso una discussione molto ampia ed è stato chiesto all’azienda produttrice, Gilead, di spiegare come si fosse arrivati a definire un prezzo così elevato, tenuto conto dell’elevato impatto su sistemi come Medicare e Medicaid, e del fatto che mancasse una relazione con i costi di sviluppo e di produzione. Richieste simili, che puntano a sollecitare le aziende farmaceutiche a rivelare i costi di ricerca e sviluppo, sono adottate da numerosi Stati degli USA anche se i risultati pratici sono limitati2. In effetti, la Gilead aveva comprato il farmaco da un’altra azienda e il prezzo pagato non rifletteva i costi di ricerca e sviluppo ma semplicemente il valore di mercato di un farmaco molto promettente. Che poi le attese siano state ripagate lo dimostra il fatto che, solo nel primo anno di commercializzazione, i ricavi derivanti dalle vendite del farmaco sono stati superiori all’esborso effettuato dalla Gilead per acquisirlo.
Alcune osservazioni sui farmaci oncologici
Da diversi anni la discussione è accesa sul livello di prezzi via via crescenti dei farmaci oncologici. Si è arrivati anche ad appelli, come quello di un gruppo di oltre 100 ematologi che, in un editoriale apparso sulla principale rivista di settore, denunciava come la crescita continua dei prezzi dei farmaci oncologici creava problemi alla sostenibilità dei sistemi sanitari e nello stesso tempo rendeva difficilmente accessibile il trattamento ai pazienti non coperti dai servizi sanitari o dalle assicurazioni3.
La preoccupazione per l’incremento dei prezzi dei farmaci oncologici è acuita dal fatto che per una parte di questi farmaci le dimostrazioni di efficacia sono relativamente contenute. In un articolo apparso a fine 2017 sono state analizzate le approvazioni di farmaci da parte dell’Agenzia europea dei medicinali (EMA) nel periodo compreso fra il 2009 e il 2013. Ciò che ha colpito è che, al momento dell’approvazione, la maggior parte delle autorizzazioni fosse basata su indicatori surrogati e non su dati di sopravvivenza complessiva. Inoltre, anche quando disponibile il dato clinico, gli autori notavano che l’incremento mediano di sopravvivenza era solo di 2,7 mesi4.
A colpire l’attenzione, tuttavia, non è solo il fatto di dover fare i conti con farmaci oncologici dai prezzi elevati e dai guadagni clinici in media limitati. Ciò che per certi versi era inatteso è che la variabilità dei prezzi non trova giustificazione nel valore relativo di diversi principi attivi. Un’analisi sui farmaci oncologici approvati dall’FDA nel periodo 2009-2013 ha correlato il prezzo dei farmaci con l’entità dei guadagni di sopravvivenza messi in evidenza nei trial registrativi. Proprio a causa della mancanza di relazione fra le due entità, gli autori concludevano che l’attuale modello di prezzi non sia razionale ma rifletta semplicemente quello che il mercato dei farmaci può sopportare (“Our results suggest that current pricing models are not rational but simply reflect what the market will bear”)5.
Il caso Shkreli
Il caso del sofosbuvir e quello dei farmaci oncologici sono emblematici di come i nuovi farmaci possano arrivare ad avere prezzi considerati eccessivi. Ciò che è meno atteso è che possa crescere in modo eccessivo anche il prezzo di farmaci a brevetto scaduto. Il caso più eclatante è forse quello creato da Martin Shkreli, il quale dopo avere comprato una società che deteneva la proprietà della pirimetamina, un vecchio farmaco utilizzato in particolare nelle infezioni opportuniste da toxoplasmosi in pazienti con AIDS, ha deciso, da un giorno all’altro, di aumentare il prezzo da 13,50 a 750 dollari per compressa6. Naturalmente, l’incremento del prezzo non era evidentemente basato su alcun aumento dei costi di produzione ma, di nuovo, su una valutazione di ciò che il mercato può sopportare.
Problemi nella definizione del prezzo a partire dai costi di sviluppo/produzione
Le tre situazioni appena esposte sono esemplificative di farmaci i cui prezzi sono stati considerati eccessivi. Tuttavia, a fronte di una diagnosi condivisa, rimangono ampi margini di incertezza su come arrivare alla definizione di un prezzo che sia fondato razionalmente e che sia sostenibile dai servizi sanitari. Di seguito discuteremo potenzialità e limiti di due opzioni. La prima, presente in maniera esplicita nella domanda del Senato USA all’azienda Gilead circa il prezzo del sofosbuvir, ma in fondo presente anche nei farmaci oncologici e nel caso Shkreli, è quella di puntare a definire il prezzo a partire dai costi di sviluppo/produzione dei farmaci. La seconda opzione è quella del place in therapy, ossia, partire dal valore relativo di un farmaco rispetto alle alternative terapeutiche.
Il prezzo a partire dai costi di sviluppo/produzione
I principali elementi che intervengono nella definizione del prezzo dei farmaci possono essere così sintetizzati: 1. gli investimenti fatti in ricerca e sviluppo; 2. i costi di produzione; 3. la prevalenza della condizione da trattare (per la quale ci si deve aspettare una relazione inversa fra prevalenza della condizione e prezzo dei farmaci); 4. il livello di remunerazione atteso dagli investitori.
Avere individuato questi elementi non aiuta comunque a chiarire come si arrivi a determinare, nello specifico, il prezzo finale di un farmaco. La ragione è che su ciascuno di essi vi possono essere margini di discrezionalità talmente ampi da rendere completamente non riproducibile l’esercizio. Consideriamo ad esempio il tema degli investimenti fatti in ricerca e sviluppo: quali devono essere considerati? Quelli relativi al farmaco in questione? quelli fatti in un arco temporale comprendente anche lo sviluppo di farmaci che non sono arrivati alla commercializzazione? quelli fatti dall’azienda più efficiente che ha sviluppato farmaci per la stessa indicazione? quelli dell’azienda che è arrivata per prima all’approvazione? Vi è poi la complicazione ulteriore che si realizza quando un’azienda non sviluppa un farmaco ma lo compra da un’altra azienda, a prezzi “di mercato”, come avvenuto nel caso del sofosbuvir.
Rispetto poi al livello di remunerazione atteso dagli investitori, quale livello di profitto deve essere riconosciuto, e come incorporare l’incertezza relativa alla probabilità di insuccesso? Ad esempio, in un commento a un rapporto nel quale si stimava in 2,6 miliardi di dollari la spesa per lo sviluppo di un farmaco, si rimarcava che circa il 50% della spesa complessiva derivava dalla remunerazione del capitale investito, e che questo corrispondeva a un tasso di interesse annuo del 10,6%7.
La definizione del prezzo ai tempi di Poggiolini
Quando i margini di discrezionalità nell’interpretazione dei costi di produzione sono elevati, è difficile pensare che si possano raggiungere accordi soddisfacenti sia per le aziende farmaceutiche che per i sistemi sanitari. Ma vi è forse una ragione più forte per essere quantomeno dubbiosi sull’utilità di un sistema di prezzi definito a partire dai costi di produzione. Quando una grande discrezionalità deve essere gestita da un sistema pubblico aumentano inevitabilmente i rischi di corruzione. L’esperienza italiana è in questo senso emblematica. Al tempo in cui il dipartimento del farmaco del Ministero della Salute era governato da Duilio Poggiolini (fra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90) avevamo, infatti, esattamente un sistema di questo tipo.
La “formula” per ottenere il prezzo ex factory del farmaco (RI= PA + SG + IMS + RC) era definita come somma dei costi di produzione del principio attivo (PA), delle spese generali (SG), delle spese di informazione medico scientifica (IMS), e dei costi di remunerazione del capitale (RC). Ma se poi si entra nel merito della “formula” per definire il costo di produzione del principio attivo, si può notare che ciascuno dei coefficienti da considerare poteva essere oggetto di una discrezionalità inaccettabile. Non stupisce che il sistema abbia portato alle tangenti.
La definizione del prezzo a partire dalla definizione del valore clinico aggiunto
Un modello alternativo è quello nel quale il prezzo è funzione del valore terapeutico del farmaco. Il principio di fondo, anche richiamato nel documento della governance farmaceutica del Ministero della Salute, è che farmaci uguali o terapeuticamente equivalenti debbano avere prezzi uguali, mentre prezzi più elevati possono essere riconosciuti solo in relazione al miglioramento degli esiti clinici8. Perché funzioni questo modello di definizione del prezzo, è necessario preliminarmente che un gruppo di esperti indipendenti valuti il place in therapy di un nuovo farmaco ed effettui periodicamente la rivalutazione, in base all’acquisizione di nuove evidenze comparative del profilo beneficio-rischio e dei nuovi farmaci che via via si accumulano nella stessa categoria. Il risultato della valutazione è proprio quello di distinguere situazioni nelle quali un nuovo farmaco è terapeuticamente sovrapponibile a farmaci già disponibili, da altre nelle quali presenta un valore aggiunto rispetto alle alternative terapeutiche.
La parte “semplice” dell’applicazione del place in therapy: il caso dei farmaci generici e biosimilari
L’applicazione del principio appena esposto è relativamente semplice per i generici e per i biosimilari di farmaci con brevetto scaduto. La competizione che si crea con la perdita del brevetto porta a riduzioni del prezzo dei farmaci dell’ordine di grandezza dell’80-90%. Questo vale sia per i farmaci più comunemente prescritti in ambito di medicina generale – si pensi a una statina o a un inibitore di pompa protonica o a un ACE-inibitore – che per farmaci la cui prescrizione origina in ambito ospedaliero.
Più in particolare, in medicina generale, la competizione è attivata dall’individuazione, all’interno delle cosiddette liste di trasparenza, di un prezzo di riferimento, che diventa il prezzo di rimborso a carico dell’SSN per tutti i prodotti che contengono lo stesso principio attivo (oltre allo stesso dosaggio, via di somministrazione e numero di unità posologiche). Per farmaci di prezzo superiore al prezzo di riferimento, il differenziale è coperto dal cittadino. Appare dunque evidente l’interesse di un’azienda a collocare il proprio farmaco al prezzo di riferimento, in quanto la mancanza di compartecipazione da parte del cittadino ne promuove la prescrizione. L’unico limite è dato dalla mancanza di informazioni accurate circa l’identicità di farmaci generici e originatori, la quale può portare i cittadini a pagare un prezzo maggiore per ricevere lo stesso prodotto, allentando la concorrenza oltreché penalizzando i cittadini stessi.
Per quanto riguarda i farmaci a brevetto scaduto acquistati direttamente dalle strutture pubbliche, la riduzione dei prezzi deriva solo in parte dalla contrattazione dei prezzi da parte dell’AIFA. L’effetto maggiore si ottiene spesso tramite le gare di acquisto, di norma effettuate a livello di ospedale o di aziende sanitarie o di regioni. Un esempio è rappresentato da un farmaco come l’imatinib, che ha modificato la storia naturale della leucemia mieloide cronica e che, una volta diventato generico, ha subito riduzioni del prezzo dell’ordine di grandezza del 90-95% (http://www.sanita24.ilsole24ore.com/art/aziende-e-regioni/2017-04-13/ribasso-90percento-antitumorale-piemonte-171731.php?uuid=AEm4zp4).
Un caso simile è quello che si è verificato, al momento della scadenza brevettuale, con un prodotto biotecnologico, l’adalimumab, utilizzato nel trattamento di malattie su base immunitaria come l’artrite reumatoide e la malattia di Crohn. Di recente, una gara in cinque regioni italiane ha consentito di ottenere un risparmio di oltre il 50%: il prezzo per fiala è sceso da 424 euro (prima della scadenza brevettuale), a 298 euro (dopo la scadenza brevettuale), a 146 euro (come risultato della gara) (http://www.regione.piemonte.it/pinforma/sanita/2402-alleanza-fra-5-regioni-per-acquistare-un-farmaco-e-prezzo-ridotto-del-65.html). Gare successive condotte in Toscana e in Sicilia hanno raggiunto una riduzione ancora maggiore, portando a un prezzo di circa 80 euro. Determinante, al fine di creare una vera competizione, è la disponibilità di evidenze scientifiche che testimoniano l’intercambiabilità del prodotto originatore e del biosimilare, non solo nei pazienti che devono iniziare i trattamenti ex novo, ma anche in coloro che sono già in trattamento9. In presenza di queste evidenze, sono da considerare come pura difesa commerciale, tesa a ridurre gli effetti di un mercato competitivo, le posizioni che considerano non intercambiabili prodotti originatori e biosimilari (e viceversa)10.
Una prima difficoltà, comunque superabile: le categorie terapeutiche omogenee
Nel tempo, si sono molto ridotte le obiezioni (quasi sempre interessate) contro l’utilizzo di farmaci generici, e si stanno anche gradualmente superando le obiezioni nei confronti dei biosimilari dei farmaci biotecnologici. Rimangono invece critiche più sostenute nei confronti della possibilità di identificare come terapeuticamente sovrapponibili principi attivi differenti, di identificare, cioè, categorie omogenee.
Il fatto è che ci possono essere farmaci che hanno una struttura lievemente differente, ma che producono lo stesso risultato, che sono quindi da considerarsi intercambiabili nella pratica clinica. Si pensi a una eritropoietina utilizzata nel trattamento dell’anemia dei pazienti con insufficienza renale, o a un fattore di crescita impiegato per correggere una neutropenia dopo una terapia con antitumorali, o a un ormone della crescita prescritto a bambini nei deficit di statura da carenza ormonale. Tenuto conto della solidità delle evidenze scientifiche disponibili a livello internazionale, i principi attivi di numerose categorie terapeutiche sono utilizzabili in maniera intercambiabile nella pratica clinica quotidiana, spesso anche nello stesso paziente in momenti diversi. L’implicazione pratica è evidente: se non ci sono differenze di profilo beneficio-rischio per i pazienti, non c’è ragione di pagare un prezzo più alto per un farmaco rispetto alle alternative disponibili. Anche in questo caso, quindi, la riduzione nel prezzo dei farmaci - ottenibile attraverso sia una ricontrattazione da parte dell’agenzia regolatoria che gare di acquisto locali - deriva da un’analisi comparativa e dall’effetto di competizione piuttosto che da una valutazione della correttezza del prezzo proposto da un’azienda.
Una seconda difficoltà: evitare situazioni di monopolio
Come atteso, la presenza di concorrenza è una condizione per tenere sotto controllo i prezzi. Ad esempio, di recente è stata effettuata un’analisi dell’andamento dei prezzi di 116 prodotti dermatologici generici in commercio negli USA, nel periodo 2013-2016, in funzione del numero di aziende produttrici di ciascun prodotto (1-2; 3-4; 5-6; e più di 6 aziende). Si è osservata un’associazione inversa fra numero di aziende e andamento dei prezzi: nel periodo esaminato, per i farmaci prodotti da 1 o 2 aziende si è osservato un incremento mediano dei prezzi del 12,7%, mentre per i farmaci che erano prodotti da più di 6 aziende vi è stato un decremento del 20,5%11.
Se la competizione svolge un effetto così rilevante, è necessario cercare di evitare i casi estremi di cui abbiamo parlato in precedenza, e cioè tutte quelle situazioni nelle quali un produttore possa trovarsi in posizione di monopolio. Nel commentare il caso Shkreli, alcuni autori hanno proposto di rivedere le norme che possono costituire barriere all’accesso – ad esempio facilitando l’approvazione dei farmaci generici e semplificando le modalità di acquisto dall’estero – e, più in generale, di fare scattare un segnale di allarme, e adottare interventi correttivi, ogni volta che il numero di aziende produttrici si riduce, e in particolare quando scende sotto tre6. Si tratta di interventi più complessi, che non possono essere messi in carico solo alle agenzie regolatorie, ma che sono indispensabili se si vogliono evitare due effetti dannosi: la carenza di vecchi farmaci efficaci e/o un aumento ingiustificato dei prezzi.
La principale difficoltà: quale prezzo riconoscere ai farmaci davvero innovativi?
In presenza di farmaci davvero innovativi, la definizione dei prezzi da parte dei servizi sanitari incontra tuttavia diverse difficoltà. Innanzitutto, bisognerebbe disporre di un prezzo massimo di riferimento per entità di beneficio, ad esempio di un prezzo massimo per QALY (Quality Adjusted Life Years), che sia aggiustato in caso di malattie particolarmente rare. Un riferimento di questo tipo è però insufficiente a definire un prezzo “accettabile”. Infatti, in presenza di farmaci che migliorano gli esiti di salute rispetto alle alternative terapeutiche vi è un ridotto potere contrattuale delle agenzie regolatorie deputate alla contrattazione dei prezzi. Verosimilmente per questa ragione, anche in un paese come il Regno Unito che fa riferimento ai QALY, e nel quale il NICE stabilisce se il prezzo di un farmaco è cost-effective, vi sono critiche nei confronti dei prezzi dei farmaci considerati troppo elevati rispetto ai possibili investimenti alternativi.
Mentre per molti farmaci oncologici si può anche andare oltre le 50.000 sterline per QALY, è stato stimato che, al margine, lo stesso risultato può essere ottenuto in altri ambiti del Servizio Sanitario Nazionale inglese con un investimento aggiuntivo di circa 13.000 sterline12.
Disporre di un prezzo di riferimento per QALY non risolve comunque tutti i problemi di definizione dei prezzi. Ad esempio, vi è la difficoltà di comparare esiti clinici differenti, dalla sopravvivenza alla riduzione del dolore, dal miglioramento della motilità nel Parkinson all’entità del recupero cognitivo nella demenza di Alzheimer e così via. Vi è poi la necessità di “pesare” i risultati, qualora ci troviamo in presenza di esiti surrogati anziché di esiti clinici.
I QALY, o misure simili, hanno quindi diversi limiti, ma presentano un vantaggio importante, che consiste nel rendere più trasparenti, e quindi più valutabili dall’esterno, le decisioni assunte.
Infine, una difficoltà “costruita”
Proprio in tema di trasparenza, va rilevato che oggi è sostanzialmente impossibile comparare i prezzi dei farmaci nei diversi Paesi13. In quasi tutti i Paesi, infatti, la contrattazione del prezzo di un farmaco porta a definire un prezzo nominale, che è pubblico, e un prezzo vero di rimborso, che è riservato. Il fatto è che se i prezzi sono riservati, solo le aziende, e non i servizi sanitari, conoscono i valori applicati nei diversi Paesi. Naturalmente, è evidente quale sia l’interesse delle aziende: non dichiarando il prezzo vero possono permettersi di strappare prezzi più alti laddove l’interlocutore di turno abbia un minore potere contrattuale.
In definitiva, se l’informazione è valore, gli unici che hanno l’informazione completa e che ci possono guadagnare sono le aziende stesse. Nel caso dei servizi sanitari, non dichiarando il prezzo vero si contribuisce a mantenere alti i prezzi nominali e a creare una sorta di bolla speculativa; se anche un Paese ci guadagna lo fa a scapito dei prezzi praticati in altre aree. La soluzione non può essere di praticare la trasparenza dei prezzi “veri” in un solo Paese, in quanto il potere contrattuale è inevitabilmente ridotto. Certo, in un contesto come quello dell’Unione europea, sembra del tutto irragionevole che i servizi sanitari contribuiscano, con l’assenza di trasparenza, a farsi un danno reciproco, quando potrebbero tutti guadagnarci se vi fosse accordo sui prezzi veri di rimborso.
Conclusioni
L’analisi proposta non intendeva coprire tutti i numerosi aspetti relativi alla definizione dei prezzi dei farmaci e alle implicazioni per la sostenibilità della spesa farmaceutica da parte dei servizi sanitari. Piuttosto, si è cercato di mostrare che focalizzare l’attenzione sulla denuncia di prezzi eccessivi è di scarsa utilità pratica. Ciò che invece può avere un effetto più rilevante è promuovere un contesto competitivo, basato su un’analisi del valore relativo, del place in therapy, dei diversi farmaci. Rimane la difficoltà che si presenta quando l’azienda produttrice di un farmaco si trova in una condizione di monopolio, per la presenza di un farmaco unico per la sua innovatività o per l’assenza di interesse commerciale. Tuttavia, anche in questo caso, appare poco utile concentrarsi sui prezzi “eccessivi”. In fondo, se il prezzo del sofosbuvir attualmente praticato in Italia è circa il 10% del prezzo inizialmente proposto, non lo si deve alla bontà dell’azienda produttrice ma al fatto che si siano rese disponibili alternative terapeutiche, e si sia così stimolata la competizione.
In conclusione, servono agenzie e comitati tecnici indipendenti con il compito di verificare, per ogni farmaco che entra in commercio, la sovrapposizione o valore aggiunto rispetto alle terapie già disponibili, e di rendere pubbliche le motivazioni. La definizione del prezzo dei farmaci non può che passare attraverso una valutazione comparativa. Ci possono essere dei problemi, ma le alternative sono peggiori e sono quelle di prezzi stabiliti dai produttori, senza possibilità di controllo, e di conseguenti limitazioni nell’accesso ai farmaci a causa della non sostenibilità della spesa.
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