Introduzione
Con il termine di sindrome metabolica, nota anche come "sindrome X", viene indicata una costellazione di fattori di rischio cardiovascolare e di alterazioni metaboliche che tendono a presentarsi in aggregazione negli stessi individui1. Le componenti più importanti includono l'obesità addominale, la dislipidemia, l'ipertensione e diversi livelli di alterazione del metabolismo glucidico (alterata glicemia a digiuno, ridotta tolleranza al glucosio dopo carico, diabete). La tendenza di questi fattori di rischio a presentarsi come "cluster" e la loro frequente associazione con l'insulino-resistenza hanno portato i ricercatori a proporre l'esistenza di una condizione fisiopatologica a sé stante, il cui primum movens sarebbe rappresentato proprio dall'insulino-resistenza e dall'iperinsulinismo compensatorio. La presenza di obesità viscerale potrebbe a sua volta essere il fattore responsabile dell'insulino-resistenza. Sebbene il concetto di sindrome metabolica sia relativamente recente, esso ha acquistato negli ultimi anni una enorme popolarità. Utilizzando su PubMed come parole chiave "metabolic syndrome" o "syndrome X", nel solo quinquennio 2001-2005 sono state identificate 3.724 citazioni bibliografiche relative a studi fatti nell'uomo. L'interesse per il problema è, inoltre, documentato dalle iniziative di diverse organizzazioni e società scientifiche, che hanno portato a differenti definizioni di sindrome metabolica (Tabella 1)2-4 e alla creazione di un codice ICD-9 specifico, il codice 277.71.
Nonostante il diffuso interesse per questa "nuova sindrome" e le allarmanti proiezioni che ne indicano l'imminente epidemia mondiale5, non mancano tuttavia posizioni contrastanti, generate da scuole di pensiero e da estrazioni culturali diverse. Ad esempio, nel corso del 2005 si è assistito a due prese di posizione in netto contrasto da parte di importanti associazioni scientifiche. Mentre il mondo cardiologico, rappresentato dall'American Heart Association e dal National Heart, Lung, and Blood Institute, in uno "scientific statement" pubblicato su Circulation ha ribadito una posizione di grande attenzione alla sindrome, considerata un problema sanitario in continua espansione6, il mondo diabetologico, attraverso un documento congiunto dell'American Diabetes Association e dell'European Association for the Study of Diabetes7, ha assunto una posizione estremamente critica rispetto alla reale esistenza di questa entità e al suo effettivo significato in termini di gestione del paziente. In sintesi, gli aspetti controversi riguardano la definizione stessa della sindrome, il suo significato prognostico e le implicazioni terapeutiche che ne derivano.
Le (tante) definizioni di sindrome metabolica
Non c'è a tutt'oggi consenso a livello internazionale su quali siano i criteri per definire la sindrome metabolica. Le definizioni proposte dalle diverse società differiscono, infatti, sia per quanto riguarda le componenti incluse, sia in relazione al livello prescelto. Ad esempio, la definizione ATP III, la più utilizzata3, include solo la glicemia a digiuno come indicatore di stato glicemico, mentre nella definizione WHO2 sono inclusi anche la ridotta tolleranza al glucosio dopo carico orale (IGT) e l'insulino-resistenza. Sebbene il criterio ATP III risponda ad una esigenza di facilità di utilizzo, la sola glicemia a digiuno non sembra rappresentare un indicatore particolarmente adeguato per identificare i soggetti con insulino-resistenza o con aumentato rischio cardiovascolare. La recente decisione dell'American Diabetes Association di abbassare i livelli di glicemia da 110 mg/dl a 100 mg/dl per definire l'alterata glicemia a digiuno non sembra aver apportato sostanziali benefici, facendo di converso lievitare la percentuale di persone etichettate come affette da sindrome metabolica8.
Un altro problema riguarda l'ambiguità di alcune definizioni: un paziente iperteso con valori pressori <130/85 mmHg grazie al trattamento antiipertensivo o un paziente dislipidemico con profilo lipidico nella norma grazie al trattamento con statine come va considerato? La recente definizione dell'International Diabetes Federation ha cercato di superare questo problema esplicitandolo all'interno dei criteri di classificazione4. Anche la scelta dei valori soglia per la definizione di obesità, per la pressione arteriosa e per i parametri lipidici differisce sostanzialmente e sembra essere basata su criteri arbitrari. Altrettanto arbitraria sembra essere la scelta stessa delle componenti: ad esempio, la microalbuminuria è presente solo nella definizione WHO, mentre nuovi indici risultati associati in modo consistente con l'insulino-resitenza e il rischio cardiovascolare, come ad esempio i marcatori della flogosi o i livelli di adiponectina, non sono contemplati.
Come risultato di questa eterogeneità di definizioni, un individuo potrebbe essere classificato come affetto o meno da sindrome metabolica, in base al criterio prescelto9. Infine, diverse evidenze contraddicono l'ipotesi che l'insulino-resistenza sia il fattore comune alla base di tutte le (supposte) componenti della sindrome metabolica. Infatti, non tutti i soggetti con sindrome metabolica presentano iperinsulinemia e/o insulino-resistenza e, di converso, non tutti i soggetti con iperinsulinemia e/o insulino-resistenza presentano sindrome metabolica. D'altra parte, se l'insulino-resistenza è il fattore unificante, non è chiaro perché nella definizione della sindrome siano presenti componenti, quali la pressione arteriosa, solo debolmente associate, mentre non sono contemplati altri fattori (proteina C reattiva, adiponectina) molto più strettamente correlati. La sindrome metabolica come indicatore di rischio cardiovascolare
E' fondamentale ricordare che l'entità "sindrome metabolica" viene considerata importante non tanto perché in grado di predire l'insorgenza di diabete (la sola glicemia dopo carico orale di glucosio rappresenta un predittore di gran lunga migliore), ma in quanto conferirebbe un rischio di eventi cardiovascolari maggiore rispetto alla somma delle sue singole componenti e dovrebbe quindi servire ad identificare i soggetti a rischio più elevato. In caso contrario, non avrebbe senso parlare di "sindrome". Anche questo punto si presta, tuttavia, a numerose critiche.
Un aspetto metodologico che suscita non poche perplessità riguarda la scelta di un valore soglia per etichettare un paziente come affetto/non affetto da una particolare componente della sindrome metabolica. La scelta di una soglia implica che il rischio di eventi sia sostanzialmente diverso per pazienti con valori al di sopra o al di sotto di uno specifico livello. Questo approccio contrasta apertamente con le evidenze epidemiologiche, che mostrano invece come esista una relazione continua fra rischio cardiovascolare e livelli di pressione arteriosa, glicemia, o colesterolo.
Inoltre, un soggetto viene classificato come affetto da sindrome metabolica se presenta almeno tre componenti (perché non due o quattro?), a prescindere da quali esse siano e dal loro livello di gravità. Questo approccio ha importanti implicazioni; innanzitutto, si presume che tutte le componenti abbiano la stessa importanza come predittori di rischio. Se consideriamo ad esempio la definizione ATP III, un soggetto può essere classificato come affetto da sindrome metabolica in base a 15 diverse combinazioni dei fattori contemplati. Possiamo essere certi che tutte queste combinazioni conferiscano lo stesso rischio di malattie cardiovascolari? Inoltre, un soggetto con valori appena sopra la soglia per tre componenti (ad es. soggetto di sesso maschile con glicemia a digiuno di 102 mg/dl, pressione arteriosa di 130/85 mmHg e trigliceridi di 155 mg/dl) verrebbe etichettato come affetto da sindrome metabolica, mentre un individuo francamente diabetico e con pressione arteriosa di 160/100 mmHg, ma senza altre componenti della sindrome metabolica, non sarebbe considerato tale. Possiamo affermare con certezza che il primo soggetto abbia un rischio di eventi cardiovascolari superiore al secondo?
In effetti, numerosi studi epidemiologici di coorte hanno documentato come non tutte le componenti della sindrome metabolica si associno allo stesso rischio di malattie cardiovascolari. La sola presenza di diabete o di un pregresso evento cardiovascolare rappresentano fattori di rischio di gran lunga più importanti rispetto, ad esempio, all'obesità o all'ipertrigliceridemia7,10. Inoltre, diversi studi documentano come la definizione di sindrome metabolica non aggiunga nulla, rispetto alla somma delle sue componenti, alle capacità di predire gli eventi cardiovascolari. Da questo punto di vista, le equazioni di rischio cardiovascolare, come ad esempio quella di Framingham, in cui i fattori di rischio sono considerati nel loro continuum e "pesati" in base al loro valore prognostico, sono in grado di predire in modo più accurato il rischio cardiovascolare, rispetto alla definizione di sindrome metabolica11,12. Le implicazioni terapeutiche
Una volta che un soggetto venga classificato come affetto da sindrome metabolica, come dovrebbe essere trattato? E' necessario mirare a target terapeutici diversi? Esistono farmaci specifici per la sindrome metabolica? Allo stato attuale delle conoscenze, non è possibile dare una risposta a questi quesiti. Se, infatti, un soggetto presenta valori elevati in una o più componenti (ad es. ipertensione, dislipidemia, iperglicemia), il loro trattamento è indispensabile a prescindere dal fatto che venga fatta o meno la "diagnosi" di sindrome metabolica. D'altro canto, non esistono chiare evidenze che dimostrino che un individuo classificato come affetto da sindrome metabolica, ma con valori solo lievemente elevati, possa trarre beneficio da un intervento terapeutico "aggressivo". Di converso, il semplice fatto che un soggetto non sia classificato come affetto da sindrome metabolica potrebbe indurre il medico a sottostimare e non trattare adeguatamente i fattori di rischio presenti, con l'assunzione che il paziente non rientri in una categoria "a rischio".
Altrettanto carenti sono le evidenze di efficacia di trattamenti rivolti alla presunta responsabile della sindrome metabolica, vale a dire l'insulino-resistenza. E' stato recentemente suggerito che farmaci in grado di ridurre con diversi meccanismi l'insulino-resistenza (metformina, glitazoni, rimonabant) potrebbero essere candidati. Il trattamento con metformina è risultato associato ad una riduzione del rischio di eventi cardiovascolari nei soggetti obesi diabetici13 e si è dimostrato inoltre, efficace nel ridurre il rischio di sviluppare diabete nei soggetti con ridotta tolleranza al glucosio, sebbene in misura inferiore rispetto ad un intervento sugli stili di vita14. Per quanto riguarda i glitazoni, uno studio recente, non scevro da critiche, ha documentato una riduzione del rischio di eventi cardiovascolari in soggetti con diabete e pregresso evento cardiovascolare in seguito a trattamento con pioglitazone15. Il trattamento si associava, tuttavia, ad un aumentato rischio di scompenso cardiaco e ad un aumento medio di peso di 4 kg (ma lo scopo principale di qualsiasi intervento sulla sindrome metabolica non dovrebbe consistere nel ridurre il peso?).
Per quanto riguarda il rimonabant, (Acomplia - non in commercio in Italia) si tratta di un farmaco appartenente ad una nuova classe, che antagonizza in modo selettivo il recettore di tipo 1 degli endocannabinoidi, producendo nei soggetti obesi una marcata riduzione del peso ed un miglioramento del profilo metabolico, con parallela riduzione dell'insulino-resistenza ed aumento dei livelli di adiponectina16,17.
A tutt'oggi non esistono, tuttavia, prove che questi trattamenti possano ridurre il rischio di eventi cardiovascolari nei soggetti con sindrome metabolica e più di una voce si è levata per porre in guardia dal pericolo che tutta l'enfasi sulla sindrome metabolica venga utilizzata per creare un mercato per i nuovi farmaci: " once you have created a disease, someone will soon find it necessary to treat it"18.
Pertanto, la riduzione del peso corporeo e l'esercizio fisico rimangono ad oggi gli unici interventi di provata efficacia, sia per ridurre l'insulino-resistenza che per combattere ogni singola componente della sindrome metabolica, a prescindere dalla sua esistenza come entità separata. Requiem per una sindrome?
In conclusione, i dati finora disponibili non depongono a favore dell'importanza di diagnosticare la "sindrome metabolica" come entità distinta, in grado di conferire a chi ne è affetto un rischio superiore rispetto alla semplice somma delle sue componenti. Quanto questo dipenda da una incorretta definizione (errata scelta delle componenti e dei valori soglia) o da una reale assenza di questa entità sarà ancora per lungo tempo oggetto di studio. L'esistenza di diverse definizioni, che contemplano a loro volta componenti diverse e valori soglia differenti, contribuiscono ad aumentare il livello di incertezza e confusione e non aiutano il clinico nell'identificazione di pazienti bisognosi di terapie mirate.
Non va, tuttavia, sottovalutato il ruolo importante che il concetto di sindrome metabolica ha avuto nel sottolineare la tendenza di molteplici fattori di rischio a presentarsi in aggregato. L'implicazione più importante che deriva da questa nozione riguarda la necessità di una attenta ricerca di tutte le altre componenti, quando una di esse sia presente. Ad esempio, i dati recenti dello studio IGLOO hanno documentato come, fra i soggetti di età compresa fra i 55 e i 75 anni, senza pregresso evento cardiovascolare ma con uno o più fattori di rischio, uno su cinque era affetto da diabete senza saperlo e solo il 40% non presentava alcuna alterazione del metabolismo glucidico19. La sensibilizzazione sulla ricerca dei fattori di rischio può essere inoltre particolarmente importante nei soggetti obesi in giovane età, fra i quali un intervento precoce sugli stili di vita potrebbe essere fondamentale per la prevenzione del diabete e delle malattie cardiovascolari. Una diagnosi di sindrome metabolica può inoltre servire a porre l'attenzione su quei pazienti con diversi valori borderline, che probabilmente non verrebbero considerati bisognosi di interventi specifici e che, invece, potrebbero beneficiare grandemente di interventi volti a modificare gli stili di vita.
Per quanto riguarda le implicazioni terapeutiche, non esiste al momento un trattamento di provata efficacia "per la sindrome metabolica". Gli interventi educativi rivolti alla promozione dell'attività fisica e alla perdita di peso rimangono pertanto il cardine della terapia, assieme agli interventi farmacologici mirati al controllo dei singoli fattori di rischio. Su questo aspetto trovano un forte punto di incontro anche le posizioni, apparentemente distanti, delle società scientifiche cardiologiche e diabetologiche. Bibliografia 1. Eckel RH et al. The metabolic syndrome. Lancet 2005; 365:1415-28. 2. Alberti KG, Zimmet PZ. Definition, diagnosis and classification of diabetes mellitus and its complications. Part 1: diagnosis and classification of diabetes mellitus provisional report of a WHO consultation. Diabet Med 1998;15:539-53. 3. Expert Panel on Detection, Evaluation, and Treatment of High Blood Cholesterol in Adults. Executive Summary of The Third Report of The National Cholesterol Education Program (NCEP) Expert Panel on Detection, Evaluation, And Treatment of High Blood Cholesterol In Adults (Adult Treatment Panel III). JAMA 2001; 285:2486-97. 4. Alberti KG et al; IDF Epidemiology Task Force Consensus Group. The metabolic syndrome-a new worldwide definition. Lancet 2005; 366:1059-62. 5. Reynolds K, He J. Epidemiology of the metabolic syndrome. Am J Med Sci 2005; 330:273-9. 6. Grundy SM et al. for American Heart Association, National Heart, Lung, and Blood Institute. Diagnosis and management of the metabolic syndrome: an American Heart Association/National Heart, Lung, and Blood Institute Scientific Statement. Circulation 2005;112:2735-52. 7. Kahn R et al. American Diabetes Association; European Association for the Study of Diabetes. The metabolic syndrome: time for a critical appraisal: joint statement from the American Diabetes Association and the European Association for the Study of Diabetes. Diabetes Care 2005; 28:2289-304. 8. G.M. Reaven. The metabolic syndrome: requiescat in pace. Clin Chem 2005; 51:931-938. 9. Ford ES, Giles WH. A comparison of the prevalence of the metabolic syndrome using two proposed definitions.Diabetes Care 2003; 26:575-81. 10. Levantesi G et al.; GISSI-Prevenzione Investigators. Metabolic syndrome and risk of cardiovascular events after myocardial infarction. J Am Coll Cardiol 2005; 46:277-83 11. Wilson PW et al. Prediction of coronary heart disease using risk factor categories. Circulation 1998; 97:1837-47. 12. McNeill AM et al. The metabolic syndrome and 11-year risk of incident cardiovascular disease in the atherosclerosis risk in communities study. Diabetes Care 2005; 28:385-90. 13. UK Prospective Diabetes Study (UKPDS) Group. Effect of intensive blood-glucose control with metformin on complications in overweight patients with type 2 diabetes (UKPDS 34). Lancet 1998; 352:854-65. 14. The Diabetes Prevention Program Research Group: Reduction in the incidence of type 2 diabetes with lifestyle modification or metformin. N Engl J Med 2002; 346:393403. 15. Dormandy JA et al.; PROactive investigators. Secondary prevention of macrovascular events in patients with type 2 diabetes in the PROactive Study (PROspective pioglitAzone Clinical Trial In macroVascular Events): a randomised controlled trial. Lancet. 2005; 366:1279-89. 16. Van Gaal LF et al.; RIO-Europe Study Group. Effects of the cannabinoid-1 receptor blocker rimonabant on weight reduction and cardiovascular risk factors in overweight patients: 1-year experience from the RIO-Europe study. Lancet 2005; 365:1389-97. 17. Despres JP et al.; Rimonabant in Obesity-Lipids Study Group. Effects of rimonabant on metabolic risk factors in overweight patients with dyslipidemia. N Engl J Med 2005; 353:2121-34. 18. Gale EA. The myth of the metabolic syndrome. Diabetologia 2005; 48:1679-83. 19. Franciosi M et al. Use of the diabetes risk score for opportunistic screening of undiagnosed diabetes and impaired glucose tolerance: the IGLOO (Impaired Glucose Tolerance and Long-Term Outcomes Observational) study. Diabetes Care 2005; 28:1187-94.