dalla Lecture tenuta al Convegno "Un nuovo rapporto fra Medicina e Industria - Etica per una cooperazione possibile" - Milano, 19-20 Giugno 2003
I fondamenti della prescrizione
Per il medico, la prescrizione di un farmaco rappresenta l'atto che conclude un processo avviato dalla formazione universitaria e proseguito con l'aggiornamento delle conoscenze e con le intromissioni "implementazioni"- della ricerca e della propria esperienza pratica. La prescrizione riprende e riassume in sé tutti questi spezzoni e li sintetizza in un momento, molto critico, che è buon indicatore della qualità complessiva conseguita, una verifica di qualità, si direbbe in termini manageriali. A ben pensarci, la dignità di questo atto è la più alta tra quelle, pur nobili, espresse nella professione: segna l'inizio del patto di collaborazione tra il medico ed il suo paziente.
Il senso vero della prescrizione
In termini più strettamente "laici", la prescrizione può esser vista come un atto di potere.
Economico, perché operando una scelta tra i vari farmaci disponibili, di fatto discrimina gli uni dagli altri e orienta la spesa. Culturale, perché la prescrizione ha un peso diverso a seconda di chi la compie, esprime cioè dei livelli di esercizio della professione molto diversi risultando oggettivamente gerarchica. Tecnico, perché il "clinico", medico di medicina generale o di ospedale che sia, è il solo tra i medici a "dire l'ultima parola" al malato, a decidere appunto la terapia (ed è patetica la frustrazione di chi, impegnato nei momenti preparatori alla diagnosi ed alla cura, non può esercitare questo potere). Psicologico, infine, in quanto attraverso la mediazione diretta della sua persona fisica il medico è soprattutto prescrizione di se stesso. L'avere in gran parte abdicato alla forza della comunicazione ha avuto effetti catastrofici: da una parte ha segnato l'ascesa del farmaco che si è offerto come scorciatoia, dispendioso surrogato e bypass del colloquio con il paziente, dall'altra ha aperto le porte alle medicine alternative che pur nella loro intrinseca pochezza - o forse in forza di questa - si affidano proprio al colloquio come arma di suasione.
La prescrizione tra linee-guida ed esigenza di personalizzazione
La prescrizione costituisce, comunque, un atto problematico, compresso come è tra la perentorietà delle linee-guida, semplificatrici, e l'esigenza -complicatissima- di essere personalizzata. Le linee-guida sono compendiarie e apodittiche; basate in buona parte su studi controllati, ne riflettono i limiti laddove questi ripudiano tra i criteri di reclutamento i limiti di età e di durata -della malattia e della terapia - o la comorbidità e la connessa politerapia o quando misurano l'efficacia di un farmaco solo per i suoi effetti in acuto. Le linee-guida sono verticistiche e riflettono in genere l'opinione di una sola società scientifica, in caso contrario sono concorrenziali o con vistosi overlaps tra società; inoltre, si avvicendano in troppo rapida successione.
A fronte di questa vocazione a semplificare, nel versante personalizzazione vige, invece, il segno pensoso della complessità. Che è poi una doppia complessità: del malato, un unico biologico ed umano -come si dice senza retorica- spesso affetto da più patologie croniche, quando non distimico e con qualche problema di famiglia e di lavoro, e del medico prescrittore, elemento a sua volta composito su cui agiscono variamente forze diverse: le acquisizioni di studio, l'esperienza clinica maturata, le suggestioni dell'opinion leader ascoltate al recente convegno, il gusto professionale di "provare" il nuovo farmaco, ma anche la consapevolezza dei limiti impostigli dal prontuario terapeutico o dal rigore del suo badget.
L'incontro-scontro tra due complessità non può perciò essere la semplicità di proposte raramente condivise. La via di uscita da questa contrapposizione potrebbe essere un'improbabile sommatoria algebrica delle accennate spinte e controspinte, tale da generare un ancora più improbabile e fragile rapporto beneficio/costo, sulla base del quale decidere. Ma tutto ciò è impensabile. Nel momento della prescrizione, dietro l'urgenza di decidere, la scelta del farmaco, oltre che tecnica, è civile, etica (il ricordo del consumo di calcitonina degli anni '80 e seguenti è ancora bruciante). Lì si misura bene se nella sua attività il medico esprime, oltre ad una dimensione professionale, giocata con diversa fortuna, anche una dimensione civile, etica. Sentendosi in qualche modo coinvolto nella responsabilità di gestire risorse di tutti, nel promuoverle e nell'indirizzarle al bene comune, il medico, pubblico soprattutto, sperimenta nel suo lavoro un rinforzo, quasi un raddoppio di personalità, privilegio questo che egli condivide solo con poche altre professioni (quella degli insegnanti, per esempio). D'altra parte non è forse vero che la sua attività, oltre a richiedergli capacità-abilità-competenza, si svolge in una rete di rapporti umani pesantemente assorbenti -quelli che chiamiamo valori -che ogni mattina egli sperimenta nel suo lavoro?
La realtà
Rispetto al quadro ideale, la devianza è purtroppo molto comune. Per le statine gli abbandoni di terapia in un anno sono numerosi, del 54 % nei soggetti più giovani, e perciò a massima indicazione, e del 5 % negli ultra75enni; ladiscontinuità di cura, cioè la non prescrizione per almeno 3 mesi consecutivi, avviene in più del 50% dei trattati1. Una durata insufficiente di trattamento è frequente per gli antidepressivi: solo 1'11,6 % dei pazienti li assume per il periodo standard di 4-6 mesi2 e più del 60 % dei pazienti ne consuma (letteralmente) una sola prescrizione3. Anche i dosaggi insufficienti sono all'ordine del giorno; per la ticlopidina - la situazione è probabilmente migliorata dopo la nota CUF del '99 - solo il 42 % dei medici prescrive il dosaggio corretto di 500 mg al giorno4. Tornando alle statine, impressiona il fatto che, in prevenzione secondaria, solo il 30% di infartuati riesca a raggiungere l'obiettivo terapeutico di colesterolo-LDL inferiore a 100 mg/dl. Stupisce, per altro verso, l'uso ristretto o per lo meno inferiore all'atteso di certi farmaci come la pravastatina che alle caratteristiche chimico-fisiche e farmacocinetiche favorevoli (idrofilia, emivita breve, minor rischio di interazioni per mancanza di specificità per gli isoenzimi del citocromo P450) aggiunge la dimostrazione di efficacia clinica (riduzione della morbilità-mortalità cardiovascolare) e il riconoscimento pieno da parte delle autorità regolatorie: risulta l'unica autorizzata in prevenzione primaria e con la simvastatina nella cardiopatia ischemica. La co-prescrizione di fibrati e statine è stata richiamata 2 anni fa come potenzialmente pericolosa in occasione del ritiro della cerivastatina, ma questa riguarda solo il 2.5% di tutte le co-prescrizioni di statine; in realtà, i macrolidi - antibiotici raccomandati nelle linee-guida del trattamento della polmonite da Mycoplasma o delle polmoniti acquisite in comunità - anch'essi ritenuti fattori che aumentano il rischio di miopatia, risultano prescritti insieme alle statine nell'11,4% dei casi1. L'uso improprio o allargato è molto diffuso per gli antibiotici; nell'ambito della medicina generale trovano largo impiego alcuni antibiotici che dovrebbero essere riservati ai soli pazienti immunocompromessi5; in ospedale, dopo il fallimento della terapia empirica è diffusa la pratica di aggiungere in modo non mirato un secondo antibiotico senza che quello iniziale venga sostituito6. Per quanto riguarda la prescrizione di antibiotici in ambito extraospedaliero, il confronto con gli altri paesi, riferito al 1997, vede l'Italia al 6° posto [24 DDD (dosi definite die, pari al numero di soggetti su 1.000 che ogni giorno vengono trattati con una dose standard di antibiotico) contro le 36 DDD della Francia, prima in questa speciale classifica], molto distante dai paesi del Nord-Europa che fanno un uso molto attento di questi farmaci (Olanda 9 DDD; Danimarca 11 DDD; Germania e Svezia 13 DDD). In Italia, inoltre, l'impiego di cefalosporine risulta tra i più alti in assoluto (3 DDD contro le 0,02 della Danimarca, le 0,12 dell'Olanda, le 0,6 della Svezia e 0,9 della Germania) e l'uso di antibiotici, contrariamente alla riduzione consistente osservata altrove nel periodo 1993-1997, fa invece registrare un aumento del 34%7. Nel nostro paese, la prescrizione di antibiotici presenta una curiosa variabilità regionale: nel consumo medio di 22 DDD per 1.000 abitanti, confluiscono le virtuose 13 DDD del Friuli-Venezia Giulia e le 34 DDD della Campania8di certo non motivate dalla diversa morbosità locale ma solo da abitudini prescrittive piuttosto "libere" e da un cattivo funzionamento del sistema di monitoraggio locale. Sempre nell'ambito degli antibiotici, un altro atteggiamento peculiare della prescrizione italiana è la via di somministrazione impropria, cioè parenterale (nel 98% dei casi intramuscolare); questo atteggiamento è diffuso sia in ospedale che sul territorio e riguarda ancora una volta in modo particolare le cefalosporine di 3a generazione prescritte spesso senza motivazioni correlabili alla infezione, al tipo preferenziale di antibiotico o al paziente5. In questi casi interviene solo l'incertezza diagnostica o la convinzione di una maggior efficacia rispetto alla via orale? E pensare che, in favore di quest'ultima, qualcuno si spinge sino a dubitare della utilità della terapia sequenziale alla quale nel recente passato si è dedicata molta enfasi9.
Anche il capitolo dei costi merita qualche considerazione. Il fluticasone, a dosi equivalenti, costa più del doppio del beclometasone e nell'asma bronchiale è preferito a quest'ultimo per ragioni di sicurezza; la ridotta biodisponibilità orale del fluticasone elimina, si afferma, la possibilità di ottenere livelli plasmatici dimostrabili in caso di assorbimento oro-faringeo e pertanto scongiura il rischio di effetti indesiderati sistemici. Ma l'emivita plasmatica del fluticasone è 7 volte maggiore di quella del beclometasone e la sua emivita di legame ai recettori dei glucocorticoidi è più che doppia; se a tutto ciò si aggiunge che la spiccata lipofilia del fluticasone ne determina un maggior accumulo a livello polmonare e conseguentemente aumenta le possibilità di assorbimento e di passaggio nel circolo sistemico, il profilo di sicurezza si inverte a favore del beclometasone. Se poi si vanno a valutare gli aspetti eminentemente clinici, gli studi comparativi non indicano alcun vantaggio del fluticasone sul beclometasone, sia negli adulti che nei bambini10. Il tema dei costi diventa stringente se si considera il prezzo degli antiblastici. Stando alla valutazione di due eminenti ricercatori italiani "i nuovi farmaci antiblastici (degli ultimi 5 anni) sono di fatto equivalenti ai farmaci standard", ma "hanno un costo molto più alto"11: toremifene costa 2,5 volte più di tamoxifene, temozolomide 350 volte più di procarbazina, topotecan 10 volte più di cisplatino. Solo per restare alla realtà di Reggio Emilia, nell'ospedale provinciale, nel 2002 la spesa per antiblastici ha costituito addirittura il 41% della spesa farmaceutica totale12. Molto è già stato scritto su questa stessa rivista sull'onere economico aggiuntivo che va a pesare sul SSN quando nel campo degli antiipertensivi, a parità di efficacia clinica, si accorda la preferenza a calcio-antagonisti o ad ACE-inibitori e sartani rispetto ai molto meno costosi diuretici tiazidici; tema, quest'ultimo, clamorosamente riproposto all'attenzione generale dalla pubblicazione dello studio indipendente ALLHAT alla fine del 200213.
Alcuni nodi cruciali della prescrizione
Vi sono situazioni la cui l'anomalia prescrittiva risiede soprattutto nel modo, spesso sconcertante, con cui i farmaci sono stati valutati prima della immissione sul mercato.
L'impiego dei nuovi farmaci oncologici avviene troppo spesso dopo registrazioni accelerate. L'attività di questi farmaci è ben dimostrata, ma non si può dire altrettanto della loro efficacia clinica, in molti casi non sufficientemente documentata. Negli studi condotti sui nuovi chemioterapici vengono omessi end points forti come la mortalità e la sopravvivenza e vengono adottati criteri di valutazione "surrogati" come la diminuzione della massa tumorale o il tempo di progressione della malattia. Inoltre, la dimostrazione dei vantaggi che essi apporterebbero nei confronti dei farmaci disponibili è debole in quanto si tratta di farmaci valutati in studi di piccole dimensioni, spesso impostati per dimostrarne la non inferiorità rispetto ai "vecchi" trattamenti. Infine, per questi farmaci le garanzie di sicurezza vengono sostanzialmente trascurate: i follow-up sono brevi e non sono richiesti studi post-marketing.
Vi sono ampie aree grigie della prescrizione in cui si accettano come valide risposte al più marginali. Ci si riferisce all'impiego degli antipsicotici atipici (clozapina, risperidone, olanzapina, quetiapina) nei disturbi del comportamento dei soggetti con demenza o nel controllo dei sintomi psicotici indotti dal trattamento con L-dopa nei pazienti con morbo diParkinson. Pur disponendo di casistiche "dolorosamente" elevate, i trials vengono effettuati su poche centinaia di pazienti, nell'ambito di studi osservazionali in genere "in aperto", valutati con criteri rigorosi, ma al di fuori dal contesto e dalle storie fluide di questi malati. La cronicità stessa viene esplorata per poche settimane di osservazione14e le risposte che si ottengono non possono che essere poco significative. Di fronte alla marginalità delle risposte si richiederebbe un di più di creatività e di rigore, ma al contrario, chi propone questi farmaci chiede sconti metodologici invocando la priorità dei bisogni (in nome di malati gravi o gravissimi o penosi per i quali si deve fare comunque qualcosa)15.
Altro problema rilevante è quello della prescrizione sospettata di indurre la comparsa di effetti indesiderati ma scarsamente segnalata al sistema di farmacovigilanza. Sarebbe interessante cercare di capire per quale ragione il medico italiano, ospedaliero o di medici na generale, sia così poco ligio nel segnalare le reazioni avverse da farmaci che osserva nella propria pratica professionale. I motivi sono certamente molti: il doversi accollare volontariamente un nuovo carico di lavoro, il fastidio di affrontare una procedura vissuta come "burocratica", la fatica di tradurre dovendosi necessariamente documentare- il sospetto in probabile certezza, il timore che tutto questo sforzo non possa trovare adeguata attenzione nelle autorità preposte o, al contrario, che l'iter, una volta avviato, possa comportare ulteriori disagi "istruttori", il confine non sempre preciso tra eventi avversi ed eventi avversi gravi, e (soprattutto?) il timore di mettersi in cattiva luce con l'industria farmaceutica.
Un cenno merita la prescrizione aberrante, incolpevolmente trascinata da decisioni corrette delle autorità regolatorie. Gli acidi grassi poliinsaturi, PUFA n-3 od omega-3, per decisione della CUF sono stati riclassificati in classe A con la nuova indicazione "la prevenzione secondaria nei soggetti con pregresso infarto miocardico" sulla base dei risultati di un importante studio italiano condotto nell'ambito della medicina generale (GISSI-Prevenzione)16. Per questa indicazione esistono dati convincenti che l'assunzione giornaliera di un preparato contenente 1 g di omega-3 è efficace nel ridurre la mortalità, in particolare la morte improvvisa. Questa nuova indicazione si è, però, andata ad aggiungere alla precedente indicazione "riduzione dei livelli di trigliceridi", quando, più correttamente e coerentemente, avrebbe dovuto sostituirla. L'abbassamento dei livelli di trigliceridi nei soggetti sani non costituisce al momento una indicazione supportata dalle stesse evidenze disponibili in prevenzione secondaria, ma sta diventando, per effetto di trascinamento, un trattamento (al dosaggio di 3g/die) sempre più prescritto dai cardiologi e dai medici di medicina generale.
Un'ultima considerazione riguarda la prescrizione incrociata-sovrapposta da parte di più specialisti di varia estrazione e di diversa dignità reciprocamente all'oscuro, in ogni modo ignari, del contesto complessivo clinico e terapeutico. Questo problema, che sconcerta il medico di medicina generale che deve mediare al momento della trascrizione delle prescrizioni, così come quello correlato alle possibili interazioni farmacologiche, non viene mai affrontato (forse per le noiose frizioni deontologiche che solleverebbe?), quando invece, nell'interesse primario del paziente, meriterebbe attenzione e la ricerca di soluzioni praticabili.
Prescrivere è davvero difficile ed importante, per non dire sublime, comunque non delegabile ad alcuno. Nel "Politico" Platone fa dire allo Straniero (Socrate): "il medico somministra pozioni amare, che noi lo si voglia o no. O forse dovremmo raccoglierci in un'assemblea e ascoltare l'opinione della gente comune su malattie e farmaci ? E l'opinione del volgo osservarla per il tempo a venire?"
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