Premessa
La riorganizzazione su base aziendale del Servizio Sanitario Nazionale con l'obiettivo di ridurre i costi e migliorare l'efficienza del sistema ha modificato talora in modo sostanziale la natura dei problemi che il Medico di Medicina Generale (MMG) si trova a dover affrontare.
Uno di questi problemi è rappresentato dalla patologia infettiva nosocomiale. Sino a tempi relativamente recenti, infatti, i pazienti ricoverati in ospedale rimanevano in genere degenti sino a che i loro problemi non erano completamente chiariti e risolti. Questo valeva in particolar modo per i pazienti sottoposti ad interventi diagnostico-terapeutici invasivi che, in conseguenza di ciò, potevano presentare complicanze impreviste, soprattutto di natura infettiva. Oggi, invece, il paziente tende ad essere dimesso dall'ospedale il più rapidamente possibile e spesso ben prima che eventuali complicanze si siano manifestate o risolte. Di qui la necessità per il MMG di confrontarsi con sindromi infettive e patogeni che precedentemente erano appannaggio quasi esclusivo del medico ospedaliero e con problemi diagnostico-terapeutici nuovi. Non solo, ma la diffusione della "day surgery" ha reso ancora più attuale il problema. E' necessario perciò che il medico conosca le principali infezioni nosocomiali (acquisite cioè in ospedale) in tutti gli aspetti epidemiologici, clinici e terapeutici. Scopo di questo articolo è quello di descrivere i problemi che possono presentarsi più frequentemente alla osservazione del MMG a causa di infezioni originate in ospedale ma che si manifestano a domicilio dopo un tempo variabile dalla dimissione. Queste infezioni, che potremmo chiamare "nosocomiali - domiciliari", hanno una grande rilevanza in termini di mortalità, morbilità e costi, costituendo così un problema sia medico che economico. L'epidemiologia
Le infezioni nosocomiali rappresentano un fattore importante di mortalità e morbilità nonché di costi rilevanti sul piano economico. E' stato calcolato che negli USA, il 5% circa dei pazienti ammessi in un ospedale per acuti sviluppa una infezione nosocomiale e questo significa più di 2 milioni di infezioni nosocomiali l'anno con un costo stimato di oltre 2 milioni di dollari. Non solo, ma il rischio di mortalità dei pazienti con una infezione nosocomiale è doppio rispetto al rimanente della popolazione.
I quadri clinici che il MMG si trova a dovere affrontare con maggiore frequenza sono relativamente poco numerosi e questo può favorire il loro riconoscimento e l'approccio terapeutico.
La presenza o la comparsa di febbre in un paziente di recente sottoposto in ospedale ad un intervento chirurgico (o comunque invasivo) costituisce il quadro di esordio clinico più comune di una infezione nosocomiale e può essere accompagnato o meno da altri sintomi e segni a seconda della sindrome infettiva diagnosticata.
Le infezioni più importanti sono quattro: le infezioni della ferita chirurgica, le infezioni delle vie urinarie, quelle delle basse vie respiratorie e le infezioni batteriemiche correlate all'impiego dei cateteri venosi centrali. Ciascuna di queste infezioni riconosce degli agenti etiologici principali che sono diversi da quelli riscontrabili nelle infezioni a origine extraospedaliera. Non solo i patogeni responsabili sono diversi, ma presentano anche un diverso profilo di resistenza ai più comuni antibiotici, il che comporta l'utilizzo di farmaci e di modalità di somministrazione inusuali nella pratica di medicina generale. Pur tenuto conto del fatto che l'epidemiologia locale gioca un ruolo particolarmente rilevante, soprattutto in termini di profilo di resistenza batterica, i patogeni prevalenti sono rappresentati da bacilli gram-negativi pluriresistenti, da stafilococchi coagulasi-negativi meticillino-resistenti, daStafilococco aureo e Pseudomonas aeruginosa. Le infezioni della ferita chirurgica
La presenza o la comparsa di febbre in un paziente sottoposto di recente ad un intervento chirurgico deve sollevare immediatamente il dubbio di una infezione della ferita chirurgica. Anche se l'incidenza di tali infezioni è di difficile valutazione, esse rappresenterebbero il 20% circa delle infezioni nosocomiali (Tabella 1).
In genere, una attenta valutazione clinica della ferita alla ricerca dei segni di flogosi, di secrezioni patologiche o di deiscenza è in grado di confermare il sospetto diagnostico. Questo, però, può non essere così vero per procedure chirurgiche quali quelle che impiegano materiale protesico o quelle cardiochirurgiche (sternotomia). In questi casi l'infezione può avere un decorso oligosintomatico, insidioso e manifestarsi a distanza anche di settimane dall'intervento. L'infezione può estendersi così ai tessuti circostanti (es. osso) o alle protesi che devono essere rimosse. Di qui l'importanza di una diagnosi precoce e di un trattamento appropriato.
Una febbre, anche non elevata, la presenza di secrezioni anche solo sierose, una ferita che tende a non guarire devono insospettire il medico specie in presenza di uno o più dei fattori in grado di aumentare il rischio di una infezione chirurgica.
Lo sviluppo di una infezione della ferita chirurgica è, infatti, chiaramente condizionato dalla presenza di alcuni fattori di rischio connessi alla procedura chirurgica stessa, all'operatore e alle caratteristiche del paziente (Tabella 2).
A questo proposito occorre sottolineare come una corretta profilassi antibiotica perioperatoria, secondo linee guida internazionali ampiamente validate, sia in grado di ridurre drasticamente l'incidenza delle infezioni della ferita chirurgica. La terapia empirica di una ferita infetta deve rivolgersi ai patogeni di più frequente riscontro (in genere stafilococchi coagulasi-negativi, Stafilococco aureo, streptococchi di gruppo A) ed è in genere facilitata dal possibile aiuto fornito dal laboratorio microbiologico. Non sempre risulta necessario ricorrere alla somministrazione di una terapia antibiotica in quanto talora è sufficiente una "pulizia" della ferita stessa e una medicazione accurata per un breve periodo di tempo. La terapia antibatterica sistemica va però considerata nelle situazioni di flogosi più rilevanti e che non guariscono malgrado la accurata revisione della ferita o nei pazienti a maggior rischio di complicazioni. Ove si sospetti un quadro complicato (osteomielite, infezione protesica) è d'obbligo il ricorso allo specialista che ha trattato il paziente. L'impiego di antibiotici per via topica va proscritto perché inefficace e fonte di aumentato rischio di induzione di resistenze batteriche. Antisettici come la clorexidina possono essere utilmente impiegati sulla circostante cute integra. Le infezioni delle vie urinarie
Le infezioni delle vie urinarie sono le infezioni nosocomiali di più frequente riscontro rappresentando il 40% circa del totale (Tabella 3). Peraltro esse sono spesso facilmente diagnosticabili sia dal punto di vista clinico (rilievo di febbre e sintomi-segni caratteristici, quali disuria, pollachiuria, dolore al fianco, leucocitosi, sedimento urinario patologico) che microbiologico (urinocoltura positiva in assenza di terapia antibiotica).
Importanti fattori di rischio (per la gran parte attribuibili alle manovre strumentali a carico delle vie urinarie cui il paziente è stato sottoposto) da ricercare con accuratezza, aiutano a orientare la diagnosi nella giusta direzione. Il primo e più importante è la presenza di un catetere urinario a permanenza o la storia di cateterizzazione per più giorni. Il catetere in situ favorisce nella donna la colonizzazione periuretrale con la flora microbica fecale e la migrazione di tali batteri dall'uretra alla vescica con conseguenti infezioni. Nell'uomo, invece, questa colonizzazione non si verifica e la migrazione dei batteri avviene tramite il lume del catetere stesso. Nella patogenesi di tali infezioni i fattori da considerare sono due: la durata della cateterizzazione e l'accurata gestione del sistema di drenaggio e raccolta delle urine.
Il rischio di sviluppare una infezione urinaria (cistite o pielonefrite) è direttamente proporzionale al tempo di permanenza del catetere stesso ed è stimato in un incremento dell'1-5% per ogni giorno di permanenza. Nel tentativo di ridurre il rischio infettivo, in questi pazienti viene spesso effettuata una profilassi antibiotica sistemica. Purtroppo, questa prassi risulta non solo inefficace, se la permanenza del catetere urinario è superiore ai 6 giorni, ma è anche causa di selezione di batteri pluriresistenti complicando così la terapia da adottare per controllare l'infezione. Pertanto, non appena diagnosticata l'infezione, l'obiettivo primario per il medico dovrà essere quello di togliere al più presto il catetere in situ. Ove ciò non fosse possibile, va posta la massima attenzione alla corretta gestione del catetere e del sistema di raccolta delle urine, riducendo al minimo la disconnessione dei due sistemi ed evitando del tutto prassi inutili e pericolose come i "lavaggi" del catetere o la somministrazione intravescicale di antibiotici.
Talora la complicanza infettiva è precipitata dalla ostruzione del catetere e in questo caso l'infezione può manifestarsi con un quadro settico che va prontamente riconosciuto e trattato se si vuole evitare un esito infausto.
I batteri di più frequente riscontro sono rappresentati da bacilli gram-negativi spesso pluriresistenti, da enterococchi o da Pseudomonas aeruginosa.
La scelta del farmaco da impiegare dovrà tenere conto di tale epidemiologia, perlomeno sino al referto del laboratorio di microbiologia, nonché della gravità clinica dell'infezione che può essere diversa da paziente a paziente (più grave nel paziente anziano, diabetico o con insufficienza renale) o a seconda della localizzazione (più grave nella infezione delle alte vie urinarie o in caso di ascesso perirenale). E' opportuno che la terapia empirica iniziale comprenda comunque un farmaco attivo contro lo Pseudomonas aeruginosa (es. fluorochinolone).
In caso di mancata risposta alla terapia, va rivista criticamente la diagnosi, ponendosi il quesito se l'isolamento batterico dalle urine sia solo espressione di una colonizzazione o di un inquinamento involontario. Questo soprattutto se il paziente pur febbrile, è asintomatico, se il sedimento urinario non è significativo e/o nell'urinocoltura è presente una flora mista o un patogeno inusuale.
Ove però la gravità del quadro clinico fosse evidente non va posposta la decisione di rinviare il paziente all'ospedale e/o di iniziare il trattamento. Le polmoniti nosocomiali
Rappresentano il 14% delle infezioni nosocomiali, ma se si considerano i pazienti sottoposti ad una ventilazione assistita la percentuale è più che raddoppiata (Tabella 4).
Anche per queste infezioni esistono alcuni fattori di rischio che possono giustificare l'insorgenza di una infezione delle basse vie respiratorie.
I presupposti che si devono realizzare per consentire il verificarsi di una polmonite nosocomiale sono tre: la compromissione dei meccanismi di difesa locali o sistemici, l'aspirazione nelle basse vie respiratorie di un inoculo di secrezioni orofaringee contenenti una sufficiente carica batterica o un germe particolarmente aggressivo. Questi fattori sono presenti in modo peculiare nelle procedure di ventilazione meccanica, ma molto spesso anche nelle procedure anestesiologiche e broncoscopiche. La depressione dello stato di coscienza indotta dall'anestesia favorisce l'inalazione delle secrezioni orofaringee colonizzate da germi patogeni nelle basse vie respiratorie dando luogo a infezioni "ab ingestis" mentre le pratiche broncoscopiche inoculano direttamente nell'albero bronchiale le secrezioni infette stesse. Ciò può avvenire con maggiore frequenza in presenza di patologie croniche polmonari e in pazienti anziani.
Fattori di rischio importanti risultano essere anche il posizionamento di un sondino naso-gastrico e l'impiego di farmaci H2-antagonisti o di inibitori della pompa protonica e antiacidi utilizzati per ridurre l'acidità gastrica come profilassi delle ulcere da stress. La modifica del pH gastrico consentirebbe infatti una sovracrescita di batteri a livello gastrico, batteri che poi potrebbero essere inalati e causare così l'infezione respiratoria nosocomiale.
Gli agenti eziologici responsabili sono i più vari in rapporto alla durata più o meno lunga dell'ospedalizzazione e alla presenza o meno di fattori di rischio aggiuntivi (diabete, insufficienza renale).
In presenza di un paziente con sintomi e segni sospetti per una polmonite nosocomiale e con chiari fattori di rischio anamnestici, il medico deve innanzitutto confermare il dubbio clinico e valutare la gravità del quadro stesso. Una polmonite nosocomiale è evento grave che non può essere trattato domiciliarmente dovendo essere espletati accertamenti diagnostici strumentali e laboratoristici di norma non praticabili al di fuori dell'ospedale. Non solo, ma i farmaci cui si deve fare ricorso sono rappresentati da classi terapeutiche da utilizzare per via endovenosa (es. cefalosporine di 3a generazione, aminoglicosidi, glicopeptidi). Nel caso in cui, invece, il paziente si presenti dopo la dimissione dall'ospedale in fase di convalescenza da tale infezione sarà compito del medico sorvegliare l'andamento clinico del paziente ed eliminare, ove possibile, quei fattori di rischio che risultano modificabili (es. farmaci antiulcera, sondino nasogastrico, uso troppo prolungato di una terapia antibiotica). Batteriemie relate ai cateteri intravascolari
Negli ultimi anni, il numero di pazienti nei quali viene utilizzato un Catetere Venoso Centrale (CVC) è notevolmente aumentato. Molti degli approcci terapeutici chemioterapici antitumorali richiedono, infatti, l'utilizzo di un CVC sia per l'infusione dei farmaci sia per consentire procedure trapiantologiche (aferesi); la pratica di una alimentazione totale parenterale tramite CVC trova indicazioni sempre più numerose e l'utilizzo di cateteri vascolari in medicina palliativa si va sempre più estendendo nella pratica clinica. E' ovvio perciò che anche il medico di medicina generale si possa trovare a dover affrontare alcuni dei problemi di gestione di questi cateteri, specie in merito alla prevenzione e al trattamento delle infezioni correlate ai cateteri stessi (Tabella 5).
I problemi principali che il MMG deve affrontare sono due: formulare una diagnosi precoce di batteriemia legata al CVC e collaborare alla messa in atto di tutte le precauzioni necessarie per ridurre queste infezioni nosocomiali che sono gravate da una alta morbilità e mortalità.
La comparsa di febbre in un paziente portatore di CVC deve far sospettare subito una infezione batteriemica a partenza dal catetere. Il sospetto viene ulteriormente rafforzato se il catetere è in situ da lungo tempo, se la febbre è comparsa all'improvviso in pieno benessere a seguito della manipolazione del catetere stesso, se un esame accurato del catetere e dell'area di cute viciniore mette in evidenza segni di flogosi nel punto di inserzione (exit site) del catetere o lungo la sede di impianto (tunnel) del catetere, se il paziente è immunocompromesso.
In una simile evenienza è indispensabile che il MMG riconosca la natura dell'infezione e possa avere un percorso privilegiato per ricorrere alla struttura specialistica che segue il paziente e che è in grado di affrontare con competenza ed efficienza l'iter diagnostico (esami colturali appropriati) e terapeutico (terapia empirica precoce e successivamente mirata quando il laboratorio microbiologico abbia identificato l'agente patogeno responsabile). Le decisioni che seguiranno, cioè se togliere o meno il CVC e quale terapia antibiotica scegliere, esulano dalla competenza del MMG.
Diverso, invece, il ruolo che il MMG può svolgere nella prevenzione delle infezioni correlate al CVC. Il primo compito è quello di far rispettare una regola ferrea: un CVC va impiegato solo se il suo impianto è pienamente giustificabile sul piano clinico e deve essere rimosso il più presto possibile. L'impianto di un CVC non è infatti privo di rischi (infezioni, tromboflebiti, trombosi) e il MMG dovrà svolgere un ruolo primario nella informazione da dare al paziente perché possa dare il suo consenso informato alla procedura invasiva.
Le precauzioni da adottare per prevenire almeno in parte l'insorgenza di una infezione legata al catetere sono numerose (Tabella 6). Alcune di queste non rientrano nei compiti attribuibili al MMG, altre invece lo sono come l'attenta sorveglianza dell'area di inserzione del catetere fatta a giorni alterni per cogliere i primi segni di una possibile infezione (infezione dell'"exit site" o del "tunnel"), e la supervisione di una gestione del CVC che sia corretta, vedi ad esempio la pulizia con clorexidina e la protezione con garza sterile da cambiare periodicamente. Anche se sono ipotizzabili compiti più rilevanti, essi richiederebbero una organizzazione nella quale il MMG possa far parte integrante e più attiva di un gruppo di operatori in grado di affrontare insieme tutti i problemi di gestione del CVC.
Altre infezioni nosocomiali
Senza pretendere di avere esaurito tutte le possibili evenienze, può essere utile ricordare due altri esempi di infezioni nosocomiali che spesso trovano la loro piena estrinsecazione a domicilio.
Esse riguardano la colite pseudomembranosa causata dal Clostridium difficile e le piaghe da decubito. La loro rilevanza clinica è notevole e i problemi di ordine diagnostico-terapeutico che esse pongono meritano una trattazione a parte. Conclusioni
Uno dei convincimenti più condivisi in tema di infezioni batteriche ha riguardato sinora la certezza della diversità esistente tra ospedale e territorio per quanto attiene alla prevalenza degli agenti etiologici e del loro profilo di resistenza agli antibiotici. Esiste, cioè, una realtà epidemiologica nosocomiale diversa da quella domiciliare (della collettività) e di conseguenza il MMG ha il proprio compito diagnostico-terapeutico facilitato. Tale divisione si sta però gradatamente dissolvendo per almeno due ragioni. La prima è già stata illustrata in premessa (cioè le dimissioni precoci e la "day surgery"), la seconda è dovuta alla sempre più diffusa "compromissione" (immunologica e non) dei pazienti che vengono oggi trattati al di fuori dell'ospedale.
Questo processo si accentuerà sempre più nel futuro prossimo riducendo le diversità sino ad oggi riscontrate in campo epidemiologico infettivo e non solo. Le diversità tra ospedale e territorio si andranno via via riducendo e chiederanno al MMG una uguale attenzione e competenza. Queste considerazioni trovano già un riscontro oggettivo nel campo delle infezioni ed evidenziano come sia necessario un rapido aggiornamento delle competenze del MMG e un rinnovo dell'assetto organizzativo dell'assistenza per far fronte a nuovi, seri problemi. Bibliografia 1. DS Kernodle, AB Keiser. Surgical and trauma-related infections. In Mandell GL, Bennett JE, Dolin R: Principles and practice of infectious diseases 2000 Churchill Livingstone. 2. R Platt, DA Goldmann, CC Hopkins. Epidemiology of nosocomial infections. In Infectious Diseases. S. Gorbach, JG Bartelett, N. Blacklow 1998 Saunders Co. 3. DF Zaleznik. Hospital-acquired and intravascular device-related infections. Harrison's online. Chapter 135, 2003. 4. SK Fridkin et al. Surveillance of antimicrobial resistance in United States hospitals: Project ICARE phase 2. Project Intensive Care Antimicrobial Resistance Epidemiology (ICARE) hospitals. Clin Infect Dis 1999: 29:245. 5. M. Garrouste-Oregeas et al. Oropharyngeal or gastric colonization and nosocomial pneumonia in adult intensive care unit patients. Am J Respir Crit Care Med 1997; 156:1647. 6. KA Marr et al. Catheter-related bacteremia and outcome of attempted catheter salvage in patients undergoing hemodialysis. Ann Intern Med 1997; 127: 275. 7. National Nosocomial Infections Surveillance (NNIS) System: Report, data summary from october 1986 april 1998, issued june 1998. Am J Infect Control 1998; 26: 522. 8. MJ Richards et al. Nosocomial infections in medical intensive care units in the United States. National Nosocomial Infections Surveillance System. Crit Care Med 1999; 27: 887. 9. D Veenstra et al. Efficacy of antiseptic-impregnated central venous catheters in preventing catheter-related bloodstream infection. A meta-analysis. JAMA 1999; 281: 261. 10. RO Darouiche et al. A comparison of two antimicrobial-impregnated central venous catheters. N Engl J Med1999; 340: 1.