M. A. è una signora quarantenne, in buona salute. I suoi unici problemi sono la familiarità diabetica e il sovrappeso, contro il quale lotta strenuamente da anni senza vincere la battaglia. Ha provato diverse diete, seguendo sempre quelle mainstream. Giorni fa è venuta in ambulatorio, trionfante, con degli stampati: “Questa volta risolvo il problema! Non è vero che siamo quello che mangiamo, dobbiamo mangiare quello che siamo, quello che ci dice il nostro DNA”. In pratica aveva una dieta genetica, cioè un piano dietetico elaborato in base a test genetici. Le ho confessato che avevo dei dubbi, ma che comunque mi sarei documentato meglio.
In un articolo precedente abbiamo trattato il tema della medicina di precisione (MP)1. Ci sembra utile una puntualizzazione sulla cosiddetta nutrizione di precisione (NP) che, analogamente alla MP, si propone di personalizzare gli interventi nutrizionali, sulla base delle caratteristiche del singolo individuo, utilizzando le conoscenze di nutrigenetica, nutrigenomica e nutriepigenomica (vedi box) per prevenire o contribuire a trattare malattie croniche come l’obesità, il diabete tipo 2, le neoplasie e altre condizioni patologiche come le alterazioni lipidiche e il metabolismo della vitamina D.
Genetica, dieta e rischio di malattia
Lo stile di vita alimentare è un determinante fondamentale di rischio per le malattie croniche a maggiore diffusione nel mondo occidentale: cardiovascolari, obesità, diabete e molte neoplasie. Esistono molte linee guida, basate su studi epidemiologici su vasta scala, rivolte alla popolazione generale o a gruppi omogenei di pazienti che condividono la stessa condizione di possibile rischio o di patologia.
E’ peraltro noto che la risposta individuale alla stessa tipologia di alimentazione è variabile, sia per quanto riguarda gli esiti clinici sia per la modulazione del rischio di malattia per cause psicosociali, culturali ed economiche, che per le attese interazioni, molto meno note, complesse, tra fattori genetici e ambientali, certamente ad oggi non facilmente qualificabili in modo affidabile.
La disponibilità di nuove tecnologie e le sempre maggiori conoscenze in ambito “omico”1 hanno fatto ipotizzare una possibile evoluzione verso una nutrizione personalizzata. L’analisi molecolare del genoma e del metaboloma ha infatti evidenziato numerose varianti diversamente associate con fattori dietetici, ed in questo senso potenzialmente riconducibili alla suscettibilità a molte malattie croniche.
Nutrigenetica: scienza che studia gli effetti delle variazioni genetiche sulla risposta ai nutrienti, allo scopo di individuare gli alimenti più adatti ad una determinata persona. Nutrigenomica: scienza che studia gli effetti dei nutrienti sulla espressione dei geni, cioè come i nutrienti agiscono direttamente a livello del DNA e quindi a livello di proteoma e metaboloma. Nutriepigenomica: scienza che studia gli interventi nutrizionali specifici in grado di far regredire favorevolmente le alterazioni epigenetiche.
Alle enormi potenzialità di questi sviluppi non corrispondono attualmente risultati validati in ambito clinico, pur essendo fortemente suggestivi in termini di basi fisiopatologiche2,3. Gli esempi di varianti genetiche coinvolte nel rischio di malattia, attraverso l’interazione con la dieta, sono numerose e riguardano molte condizioni ad alta prevalenza, ad esempio ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia, cancro della mammella, osteoporosi, sindrome metabolica, diabete tipo 2, obesità, steatosi epatica non alcolica.
Nell’ambito del metabolismo glucidico sono state identificate circa 100 varianti genetiche per il diabete tipo 2 e oltre 40 per il tipo 1, in grado di interagire con l’assunzione sia di carboidrati sia di fibre per modulare, debolmente, il rischio di malattia4,5. Si segnalano inoltre i polimorfismi del gene del recettore della vitamina D (VDR), associato a osteoporosi post menopausale nelle donne che assumono poco calcio6, e le varianti dei geni che regolano il metabolismo della omocisteina, ad esempio MTHFR e MTR, associate al rischio di cancro della mammella nei soggetti con basse assunzioni di folati, vitamina B6 e B127.
Gli studi genetici hanno inoltre evidenziato 97 loci riferiti ad accumulo di tessuto adiposo e altri 49 relativi alla distribuzione del grasso. Le varianti del primo cosiddetto “gene dell’obesità” identificato, FTO (fat mass and obesity associated), sono strettamente associate con l’aumento del BMI (body mass index), soprattutto in presenza di diete ricche di grassi e proteine. Un comune polimorfismo del gene PLIN (perilipina), coinvolto nella regolazione dell’accumulo di grasso negli adipociti, può ridurre il rischio di obesità in associazione ad una dieta ricca di carboidrati ma aumentarlo in caso di ridotta assunzione8. Questi dati contribuiscono a spiegare i notissimi, ed attesi, scarsi risultati dell’abituale approccio generalizzato (one-size fits all) alla riduzione del peso corporeo2.
Nota metodologico-linguistica importante: l’uso del termine associazione non è casuale: in epidemiologia e statistica indica una relazione sostanzialmente descrittiva tra “cause” ed “effetti” ma non spiega se un fenomeno è causa dell’altro: indica cioè una possibile linea di ricerca.
Genetica e personalizzazione della dieta
Studi riguardanti il metaboloma hanno individuato marker che, modificabili con la dieta, possono costituire una premessa per studi sulla stratificazione degli interventi dietetici nel diabete tipo 2. Ad esempio, in una metanalisi di 8 studi prospettici, condotti su 8.000 individui, dei quali 1.940 diabetici tipo 2, è stata riscontrata una associazione positiva tra il rischio di diabete e la concentrazione plasmatica di alcuni aminoacidi a catena ramificata (leucina e valina) e aromatici (tirosina e fenilalanina), mentre la glicina e la glutamina hanno dimostrato una correlazione inversa9.
In uno studio caso-controllo, su una coorte di circa 30.000 soggetti dello studio EPIC-InterAct, mentre si è confermata l’importanza dell’obesità come fattore di rischio universale di diabete, a qualunque livello di rischio genetico, non è emersa una correlazione significativa tra punteggio poligenico di rischio diabetico e dieta mediterranea10. Uno studio di coorte prospettico ha evidenziato che una migliore aderenza a pattern dietetici salutari ha ridotto gli effetti delle varianti genetiche associate all’aumento di peso, soprattutto nei soggetti ad alto rischio di obesità11, mentre uno studio caso-controllo prospettico, su oltre 8.000 soggetti dello studio INTERHEART e quasi 20.000 del FINRISK, ha evidenziato l’effetto favorevole di una dieta ricca di frutta e verdura su soggetti a rischio di infarto miocardico su base genetica12. Al contrario, diete non salutari, ricche di zuccheri semplici e grassi saturi, sono risultate in grado di amplificare gli effetti delle varianti genetiche predisponenti all’obesità13.
La tipologia di alimentazione può avere un impatto, favorevole o sfavorevole, attraverso l’influenza diretta sull’espressione dei geni che regolano le vie metaboliche14. Ad esempio, in uno studio cross-sectional su 220 soggetti in buona salute, la dieta occidentale ha determinato un profilo di espressione genetica pro-infiammatorio e cancerogeno aumentato rispetto ad una alimentazione di tipo mediterraneo15. In maniera simile, una dieta ricca di carne rossa, associata a particolari varianti genetiche, ha determinato pattern metabolici associati ad aumentato rischio di cancro del colon16.
Molti studi hanno valutato le complesse interazioni tra fattori nutrizionali ed alterazioni epigenetiche, prodotte da sostanze che modulano la trascrizione e la traduzione dell’informazione contenuta nel DNA. Ad esempio, in uno studio su 120 pazienti affetti da cancro del colon, la carenza di folati, vitamina A, vitamina B, potassio, ferro, è risultata correlare con l’ipermetilazione di geni onco-soppressori e quindi avere un possibile ruolo nel manifestarsi delle neoplasie17. Al contrario, specifici interventi nutrizionali potrebbero essere in grado di far regredire le alterazioni epigenetiche e quindi di ottenere un possibile effetto favorevole sulla prevenzione e il trattamento delle malattie croniche18. Alcuni sono gli stessi fattori che sarebbero in grado di ridurre il rischio anche con altri meccanismi, ad esempio resveratrolo, curcumina, genisteina, polifenoli, tanto che è stato proposto l’ottimistico concetto di “dieta epigenetica”, allo scopo di utilizzare una strategia mirata in grado di contribuire alla riduzione dell’incidenza di obesità e condizioni patologiche associate19.
I profili genetici sono stati utilizzati anche per valutare la predittività di risposta ai trattamenti nutrizionali. Ad esempio, sono stati evidenziati alcuni biomarker epigenetici teoricamente in grado di consentire una previsione dei responder e dei non responder ad una dieta ipolipidica e, in maniera più debole, dei soggetti maggiormente predisposti a perdere effettivamente peso e di quelli che tenderanno o meno a recuperare la massa corporea, dopo averla inizialmente ridotta20,21.
Sono stati prodotti studi randomizzati, che hanno confrontato diversi interventi nutrizionali in funzione dell’interazione con differenti profili genetici e pattern di metaboliti circolanti, peraltro analizzando outcome in massima parte surrogati (Tabella 1). Ad esempio, un lavoro ha studiato gli effetti della dieta in funzione della suscettibilità genetica nei confronti del diabete tipo 2. Lo studio ha coinvolto 594 soggetti, sovrappeso o obesi, di età 30-70 anni, randomizzati a 4 diversi interventi nutrizionali, caratterizzati da diverse composizioni di macronutrienti. Dopo 2 anni di follow-up, i soggetti con profilo genetico caratterizzato da ridotto rischio per il diabete tipo 2 hanno ottenuto un miglioramento dell’insulino-resistenza e della HbA1c con diete ipoproteiche, mentre i pazienti con profilo ad alto rischio hanno maggiormente beneficiato di una dieta iperproteica. Gli autori propongono diversi possibili meccanismi fisiopatologici ma una spiegazione definitiva richiede ulteriori studi22. In un lavoro simile, pazienti ad alto rischio diabetico hanno presentato un migliore controllo glicemico con una dieta iperlipidica23.
Un altro studio ha coinvolto una coorte di 800 soggetti, sovrappeso nel 54% dei casi e obesi nel 22%, non diabetici, che, sottoposti a monitoraggio continuo della glicemia per una settimana, hanno mostrato una grande variabilità di risposta a parità di alimentazione. Un algoritmo computazionale ha integrato i dati tradizionali (diario alimentare, dati antropometrici, parametri fisiologici, livelli di attività fisica) con il profilo del microbioma intestinale, realizzando un modello predittivo di risposta glicemica, successivamente testato su una coorte di 100 persone e infine su 26 partecipanti, randomizzati a diversi interventi nutrizionali. In un contesto strettamente sperimentale, le diete personalizzate si sono dimostrate più efficaci, nella riduzione delle fluttuazioni glicemiche e della glicemia post-prandiale, rispetto alle tradizionali27. Studi di questo genere sono curiosi “prototipi” ma non consentono al momento nessuna applicazione alla pratica quotidiana (vedi anche abstract grafico a lato, tratto da 27).
Conclusioni
La NP rappresenta al momento un ipotetico approccio per la predizione, la prevenzione e il trattamento di alcune delle principali malattie croniche nel singolo individuo. E’ pertanto necessaria estrema cautela prima di annunciare l’inizio di una nuova era. L’associazione tra profilo genetico e rischio di malattie croniche è in generale meno forte rispetto a test genetici come il BRCA 1 per il rischio di cancro della mammella. Sono state identificate numerose varianti in grado di influenzare i parametri metabolici, ma è arbitrario attribuire al profilo genetico individuale un ruolo determinante per malattie come il diabete e l’obesità, la cui espressione fenotipica è caratterizzata da patogenesi complesse, multifattoriali, dinamiche, in gran parte sconosciute.
Nonostante i risultati preliminari, le prove di efficacia per una nutrizione di precisione sono molto deboli. Individui con genotipi diversi rispondono in maniera dissimile a differenti interventi nutrizionali, ma gli studi al momento disponibili non consentono di utilizzare le informazioni genetiche per un approccio dietetico individualizzato. I risultati sono a volte discordanti, le tecnologie costose. Esistono importanti problemi metodologici come l’eterogeneità delle malattie croniche, la scarsa riproducibilità dei risultati, la bassa sensibilità e specificità delle analisi metabolomiche e microbiomiche. La cautela sopra evocata con il termine di associazione rimane la ovvia regola da seguire nel leggere, ascoltare, e ancor più, applicare quanto emerge dalla ricerca di base, come possibilità e viene tradotto, nei media ad alta risonanza, in raccomandazione o necessità. Sono necessari studi di efficacia, metodologicamente robusti, su grandi numeri, outcome clinici, in grado di valutare l’effettivo valore incrementale dell’approccio nutrigenetico rispetto a quello dietetico classico, iniziando dai soggetti con genotipi per i quali esistono le migliori conoscenze, “associati” a ben documentati bisogni-rischi senza risposte facilmente accessibili.
In pratica, questa breve e non sistematica review mi farà dire alla signora M.A. che, attualmente, la nutrizione di precisione si può paragonare ad un treno…. partito per territori impervi e oscuri, con biglietti a caro prezzo e destinazione ancora molto incerta.
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