Nonostante i soggetti con disturbi d'ansia siano alti fruitori dei servizi sanitari, con implicazioni significative sui costi diretti e indiretti dell'assistenza, solamente una minoranza di questi riceve una risposta specifica ed adeguata alla richiesta d'aiuto1. In particolare, sembra che il Disturbo da Attacchi di Panico (DAP) sfugga frequentemente al riconoscimento a causa della sbagliata interpretazione dei sintomi da parte del paziente, dei familiari e del medico. Proprio a causa di questa difficoltà di identificazione, legata a sua volta alle peculiari modalità di presentazione del disturbo che spesso mima un problema fisico, i soggetti colpiti da attacchi di panico sono abituali frequentatori dei servizi di Pronto Soccorso ed hanno una probabilità più elevata rispetto alla popolazione generale di essere ricoverati in ambito ospedaliero per motivi fisici2.
Purtroppo, anche quando riconosciuto e diagnosticato correttamente, il DAP tende ad essere non trattato oppure trattato in modo inadeguato. Scopo di questa rassegna della letteratura è pertanto quello di fornire elementi utili per un approccio terapeutico corretto ai soggetti con questo disturbo; a tale fine, di seguito verrà esaminata e discussa la letteratura sperimentale inerente l'efficacia dei trattamenti farmacologici nel DAP.
Inquadramento nosografico
Studiato per la prima volta nel 1960, quando un lavoro di Donald Klein (1962) suggerì la possibile utilità dell'imipramina nei soggetti con sintomi agorafobici3, il DAP è stato riconosciuto come entità diagnostica distinta dagli altri disturbi d'ansia solo nel 19804. Il DAP si caratterizza per la presenza di episodi di intensa paura o disagio, accompagnati da una serie di sintomi somatici e cognitivi che compaiono improvvisamente e raggiungono la loro massima intensità nel giro di 10 minuti (Tabella 1).
Durante le crisi sono anche presenti una sensazione di pericolo imminente e una spinta alla fuga. Questi attacchi si possono manifestare ripetutamente e rapidamente, e, una volta superati, perdura per ore un forte senso d'ansia. Per poter porre diagnosi di DAP, oltre agli attacchi devono essere presenti, per almeno un mese, una preoccupazione persistente di avere nuove crisi (ansia anticipatoria) e/o la preoccupazione riguardante le conseguenze dell'attacco stesso (paura ad esempio di avere un attacco cardiaco), o ancora una significativa alterazione del comportamento abituale che si concretizza nelle cosiddette condotte di evitamento fobico (Tabella 2).
A seconda della gravità e dell'entità dell'evitamento fobico, si possono distinguere un DAP senza agorafobia e un DAP con agorafobia. In quest'ultimo caso, il soggetto tende ad evitare luoghi o situazioni dai quali potrebbe essere difficile scappare, o imbarazzanti, o nei quali non potrebbe essere soccorso nel caso di un nuovo attacco. Il grado di evitamento può purtroppo raggiungere livelli molto gravi, fino a situazioni estreme in cui l'individuo rimane completamente isolato dal mondo esterno, di solito chiuso in casa per evitare l'esposizione a situazioni che sono ritenute in qualche modo responsabili del verificarsi delle crisi di panico.
A causa di questo quadro clinico molto disturbante, oltre la metà dei pazienti colpiti sviluppa un disturbo di tipo depressivo5; è inoltre aumentato il rischio di abuso di alcool o sostanze e la frequenza di problemi coniugali6-8. Tali disturbi sono associati ad una elevata morbilità e ad un incremento della mortalità, quest'ultima spiegata dal maggiore tasso di suicidi rispetto alla popolazione generale. Degno di nota, infine, è il fatto che circa il 40-50% dei pazienti con DAP soddisfa i criteri per almeno un disturbo della personalità9.
Per quanto riguarda l'epidemiologia del disturbo, la maggior parte degli studi ha rilevato percentuali di prevalenza nel corso della vita che oscillano tra l'1 e il 2%10. I soggetti con DAP rappresentano inoltre circa il 2% dei pazienti che si presentano presso gli ambulatori di medicina generale11. Il rischio di essere colpiti da attacchi di panico è circa doppio nel sesso femminile rispetto a quello maschile, mentre, in generale, l'età d'esordio si colloca tra la tarda adolescenza e i 35 anni10. Il DAP, infine, è circa 8 volte più frequente nei parenti di primo grado di soggetti affetti rispetto alla popolazione generale12.
Studiato per la prima volta nel 1960, quando un lavoro di Donald Klein (1962) suggerì la possibile utilità dell'imipramina nei soggetti con sintomi agorafobici3, il DAP è stato riconosciuto come entità diagnostica distinta dagli altri disturbi d'ansia solo nel 19804. Il DAP si caratterizza per la presenza di episodi di intensa paura o disagio, accompagnati da una serie di sintomi somatici e cognitivi che compaiono improvvisamente e raggiungono la loro massima intensità nel giro di 10 minuti (Tabella 1).
Durante le crisi sono anche presenti una sensazione di pericolo imminente e una spinta alla fuga. Questi attacchi si possono manifestare ripetutamente e rapidamente, e, una volta superati, perdura per ore un forte senso d'ansia. Per poter porre diagnosi di DAP, oltre agli attacchi devono essere presenti, per almeno un mese, una preoccupazione persistente di avere nuove crisi (ansia anticipatoria) e/o la preoccupazione riguardante le conseguenze dell'attacco stesso (paura ad esempio di avere un attacco cardiaco), o ancora una significativa alterazione del comportamento abituale che si concretizza nelle cosiddette condotte di evitamento fobico (Tabella 2).
A seconda della gravità e dell'entità dell'evitamento fobico, si possono distinguere un DAP senza agorafobia e un DAP con agorafobia. In quest'ultimo caso, il soggetto tende ad evitare luoghi o situazioni dai quali potrebbe essere difficile scappare, o imbarazzanti, o nei quali non potrebbe essere soccorso nel caso di un nuovo attacco. Il grado di evitamento può purtroppo raggiungere livelli molto gravi, fino a situazioni estreme in cui l'individuo rimane completamente isolato dal mondo esterno, di solito chiuso in casa per evitare l'esposizione a situazioni che sono ritenute in qualche modo responsabili del verificarsi delle crisi di panico.
A causa di questo quadro clinico molto disturbante, oltre la metà dei pazienti colpiti sviluppa un disturbo di tipo depressivo5; è inoltre aumentato il rischio di abuso di alcool o sostanze e la frequenza di problemi coniugali6-8. Tali disturbi sono associati ad una elevata morbilità e ad un incremento della mortalità, quest'ultima spiegata dal maggiore tasso di suicidi rispetto alla popolazione generale. Degno di nota, infine, è il fatto che circa il 40-50% dei pazienti con DAP soddisfa i criteri per almeno un disturbo della personalità9.
Per quanto riguarda l'epidemiologia del disturbo, la maggior parte degli studi ha rilevato percentuali di prevalenza nel corso della vita che oscillano tra l'1 e il 2%10. I soggetti con DAP rappresentano inoltre circa il 2% dei pazienti che si presentano presso gli ambulatori di medicina generale11. Il rischio di essere colpiti da attacchi di panico è circa doppio nel sesso femminile rispetto a quello maschile, mentre, in generale, l'età d'esordio si colloca tra la tarda adolescenza e i 35 anni10. Il DAP, infine, è circa 8 volte più frequente nei parenti di primo grado di soggetti affetti rispetto alla popolazione generale12.
Studiato per la prima volta nel 1960, quando un lavoro di Donald Klein (1962) suggerì la possibile utilità dell'imipramina nei soggetti con sintomi agorafobici3, il DAP è stato riconosciuto come entità diagnostica distinta dagli altri disturbi d'ansia solo nel 19804. Il DAP si caratterizza per la presenza di episodi di intensa paura o disagio, accompagnati da una serie di sintomi somatici e cognitivi che compaiono improvvisamente e raggiungono la loro massima intensità nel giro di 10 minuti (Tabella 1).
Durante le crisi sono anche presenti una sensazione di pericolo imminente e una spinta alla fuga. Questi attacchi si possono manifestare ripetutamente e rapidamente, e, una volta superati, perdura per ore un forte senso d'ansia. Per poter porre diagnosi di DAP, oltre agli attacchi devono essere presenti, per almeno un mese, una preoccupazione persistente di avere nuove crisi (ansia anticipatoria) e/o la preoccupazione riguardante le conseguenze dell'attacco stesso (paura ad esempio di avere un attacco cardiaco), o ancora una significativa alterazione del comportamento abituale che si concretizza nelle cosiddette condotte di evitamento fobico (Tabella 2).
A seconda della gravità e dell'entità dell'evitamento fobico, si possono distinguere un DAP senza agorafobia e un DAP con agorafobia. In quest'ultimo caso, il soggetto tende ad evitare luoghi o situazioni dai quali potrebbe essere difficile scappare, o imbarazzanti, o nei quali non potrebbe essere soccorso nel caso di un nuovo attacco. Il grado di evitamento può purtroppo raggiungere livelli molto gravi, fino a situazioni estreme in cui l'individuo rimane completamente isolato dal mondo esterno, di solito chiuso in casa per evitare l'esposizione a situazioni che sono ritenute in qualche modo responsabili del verificarsi delle crisi di panico.
A causa di questo quadro clinico molto disturbante, oltre la metà dei pazienti colpiti sviluppa un disturbo di tipo depressivo5; è inoltre aumentato il rischio di abuso di alcool o sostanze e la frequenza di problemi coniugali6-8. Tali disturbi sono associati ad una elevata morbilità e ad un incremento della mortalità, quest'ultima spiegata dal maggiore tasso di suicidi rispetto alla popolazione generale. Degno di nota, infine, è il fatto che circa il 40-50% dei pazienti con DAP soddisfa i criteri per almeno un disturbo della personalità9.
Per quanto riguarda l'epidemiologia del disturbo, la maggior parte degli studi ha rilevato percentuali di prevalenza nel corso della vita che oscillano tra l'1 e il 2%10. I soggetti con DAP rappresentano inoltre circa il 2% dei pazienti che si presentano presso gli ambulatori di medicina generale11. Il rischio di essere colpiti da attacchi di panico è circa doppio nel sesso femminile rispetto a quello maschile, mentre, in generale, l'età d'esordio si colloca tra la tarda adolescenza e i 35 anni10. Il DAP, infine, è circa 8 volte più frequente nei parenti di primo grado di soggetti affetti rispetto alla popolazione generale12.
I trattamenti farmacologici
Le categorie di farmaci impiegate nella gestione degli attacchi di panico sono gli antidepressivi e le benzodiazepine13. Tra gli antidepressivi, le classi più studiate sono gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), gli antidepressivi triciclici (TCA) e gli inibitori delle monoaminoossidasi (IMAO).
La maggior parte degli studi presenti in letteratura ha valutato l'efficacia a breve termine dei farmaci nel bloccare o ridurre la frequenza degli attacchi di panico13, la capacità di ridurne l'intensità dei sintomi (gravità degli attacchi), l'effetto sull'ansia anticipatoria e sull'evitamento fobico. In quasi tutti i lavori la misura di esito principale era la scomparsa (o la riduzione) del numero di attacchi di panico, calcolata come proporzione di pazienti "liberi da attacchi di panico" oppure come proporzione di pazienti che presentavano una pre-determinata riduzione del numero di attacchi.
Studi clinici controllati con placebo
Tutte le classi di farmaci sopracitate si sono dimostrate più efficaci del placebo nel ridurre la frequenza e il numero degli attacchi di panico (Tabella 3). Ciascuno dei cinque SSRI ad oggi in commercio nel nostro paese (fluoxetina, fluvoxamina, paroxetina, sertralina e citalopram) presenta dati sperimentali che ne documentano complessivamente l'efficacia nel DAP13. Fluvoxamina e sertralina sono, in tal senso, i farmaci con il maggior numero di studi controllati in doppio cieco e con il maggiore numero di pazienti arruolati (Tabella 3).
Il trattamento con fluvoxamina si è dimostrato efficace nel ridurre la frequenza degli attacchi di panico, con percentuali di persone libere da sintomi (i cosiddetti soggetti panic free) che oscillano, a seconda dello studio, tra il 43% e l'81% (mentre nei soggetti assegnati al placebo tali percentuali oscillano tra il 4% e 61%). Il confronto con il placebo, per quanto riguarda questa misura di esito, è risultato sempre a vantaggio della fluvoxamina con l'eccezione di due studi in cui gli elevati tassi di risposta al placebo non hanno permesso di mettere in evidenza differenze significative14,15. La paroxetina, nei due studi presenti in letteratura16,17, ha evidenziato percentuali di soggetti panic- free rispettivamente del 36% e del 75%. La proporzione di soggetti panic-free nel gruppo randomizzato al placebo, viceversa, è risultata significativamente inferiore (16% e 43%). Tale risultato è evidente solamente a dosaggi di 40 mg/die di paroxetina. In questi studi i tassi di soggetti che interrompono prematuramente lo studio erano simili nei due gruppi.
Anche la sertralina si è dimostrata efficace rispetto al placebo nel ridurre la frequenza degli attacchi, con percentuali di soggetti liberi da sintomi del 60% circa18-20. Infine la fluoxetina ha ottenuto risultati significativi rispetto al placebo solo utilizzando come indicatore di esito il confronto dei punteggi medi ottenuti mediante la somministrazione di una batteria di strumenti standardizzati, ma non per quanto riguarda la proporzione di soggetti liberi dagli attacchi di panico21.
Per quanto riguarda i tassi di interruzione prematura dello studio, utilizzati di solito come indicatore della tollerabilità dei trattamenti, questi appaiono sostanzialmente simili nei soggetti trattati con farmaco attivo e placebo. Purtroppo però nella maggior parte dei casi i dati disponibili permettono di analizzare solo i valori di drop-out d'insieme, senza poter distinguere tra coloro che interrompono a causa dalla comparsa di effetti collaterali e coloro che interrompono a causa della inefficacia della cura. Infine, per quel che riguarda i dosaggi impiegati, la paroxetina ha evidenziato una dose minima efficace pari a 40mg/die (superiore pertanto rispetto a quella necessaria per il trattamento della depressione, che è di 20mg/die), mentre fluoxetina e sertralina sembrano efficaci nel DAP alla stessa dose richiesta per la depressione (20mg/die e 50mg/die rispettivamente). Per quanto riguarda gli antidepressivi TCA, solamente l'imipramina e, in misura minore, la clomipramina sono supportati da una mole di studi in doppio cieco in soggetti affetti da attacchi di panico (Tabella 3). L'effetto antipanico dell'imipramina è risultato superiore al placebo nei vari studi condotti, con percentuali di risposta terapeutica del 45-70% nei pazienti randomizzati al farmaco attivo, e del 15-50% nei pazienti randomizzati al placebo. Lydiard e collaboratori hanno invece dimostrato che la desipramina, pur ottenendo una certa riduzione dell'ansia e dei sintomo fobici, non manifestava una efficacia globale superiore al placebo22. Mancano del tutto studi clinici controllati riguardanti l'amitriptilina e la nortriptilina. A questo proposito vale la pena evidenziare che la presunzione di una sostanziale equivalenza d'efficacia tra antidepressivi diversi nei disturbi d'ansia è in qualche modo contraddetta dai deludenti risultati ottenuti da alcuni composti come la maprotilina e l'amoxapina23. Questo potrebbe essere spiegato dal profilo farmacodinamico di queste molecole, che non presentano un'azione specifica sulla trasmissione della serotonina; viceversa, i TCA precedentemente menzionati e gli SSRI svolgono una importante azione pro-serotoninergica. Questo ha indotto ad attribuire un ruolo significativo alla serotonina nella patogenesi di molti disturbi d'ansia.
Gli studi clinici controllati che hanno valutato l'efficacia delle benzodiazepine nel DAP (Tabella 3) hanno confrontato, nella quasi totalità dei casi, l'alprazolam al placebo. Impiegato a dosaggi giornalieri compresi tra 4 e 6 mg, l'alprazolam è risultato più efficace rispetto al placebo già dopo una settimana di trattamento con percentuali di pazienti liberi da attacchi di panico del 50-75% per l'alprazolam e del 15-50% per il placebo. Nello studio numericamente più ampio, che includeva oltre 480 soggetti, la differenza a favore dell'alprazolam veniva meno se si consideravano solamente i pazienti che avevano terminato il trattamento24; questo è verosimilmente dovuto agli alti tassi di drop-out di soggetti non responder che assumevano il placebo e all'inevitabile effetto di sovrastima nell'efficacia di quest'ultimo che ne deriva includendo nell'analisi solo coloro che erano valutabili al follow-up.
Da quando il DAP è stato introdotto nei sistemi classificatori sono stati effettuati solo due studi controllati con placebo con gli IMAO moclobemide e brofaromina, dai risultati contrastanti25,26. Studi clinici controllati precedenti, comunque, riguardanti l'utilizzo della fenelzina nelle "nevrosi fobiche", hanno suggerito la possibile utilità di questo composto in questa dimensione psicopatologica (peraltro molto simile a ciò che oggi viene definito come DAP).
Studi clinici controllati con farmaco attivo
Per quanto riguarda il confronto tra farmaci appartenenti alla stessa classe (Tabella 4), non esistono a tutt'oggi studi che abbiano paragonato due SSRI. Pochi sono inoltre gli studi di comparazione diretta tra benzodiazepine e ancora più rari quelli di confronto diretto tra TCA. In due studi di confronto tra TCA, effettuati su piccoli campioni di soggetti, la clomipramina è risultata di maggiore efficacia sia rispetto all'imipramina che rispetto alla desipramina27,28. Più precisamente l'effetto della clomipramina è parso significativamente superiore all'imipramina per quanto riguarda il numero di pazienti liberi da attacchi di panico, il numero di crisi paucisintomatiche e la presenza di ansia anticipatoria. Rispetto alla desipramina, la clomipramina è apparsa superiore nel ridurre la frequenza di attacchi di panico e nelle principali scale che valutavano l'ansia. Entrambi i farmaci erano comunque di efficacia globale superiore al placebo.
Gli studi clinici controllati di confronto tra antidepressivi appartenenti a classi farmacologiche diverse sono riassunti nella Tabella 5. La fluvoxamina si è dimostrata di efficacia sovrapponibile alla clomipramina in un lavoro pubblicato oltre dieci anni fa29ed è stata documentata una sua superiorità rispetto alla maprotilina30, un TCA a prevalente azione noradrenergica. Rimangono invece contrastanti i dati di confronto con l'imipramina in quanto i due studi pubblicati hanno prodotto risultati diversi31,32. Se infatti nel primo i due farmaci non hanno evidenziato differenze significative in termini di efficacia, nel secondo lavoro l'imipramina è apparsa superiore al placebo nel ridurre il numero di attacchi di panico, mentre la fluvoxamina non produceva miglioramenti significativi rispetto al placebo. Certamente l'elevato tasso di drop-out a carico della fluvoxamina (oltre il 60% dei casi), come suggerito dagli stessi autori, spiega verosimilmente questi risultati.
Anche la paroxetina e il citalopram si sono dimostrati di efficacia simile alla clomipramina33,34, mentre la fluoxetina è risultata meno efficace della desipramina in uno studio pilota di piccole dimensioni del 199435. Per quanto riguarda la sertralina non esistono lavori di confronto con i triciclici. In letteratura esiste un unico studio di confronto tra un SSRI (paroxetina) e una benzodiazepina (alprazolam)36. In questo studio entrambi i principi attivi sono risultati di efficacia simile al placebo con percentuali di pazienti liberi da attacchi di panico rispettivamente del 59% per la paroxetina, del 62% per l'alprazolam e del 63% per il placebo; questo risultato è probabilmente legato all'elevato tasso di risposta al placebo rispetto ad altri studi nonché ai bassi dosaggi di farmaco attivo impiegati nello studio (in media 26 mg/die con paroxetina e 2,8 mg/die con alprazolam).
Un certo numero di lavori ha confrontato l'alprazolam con l'imipramina senza rilevare sostanziali differenze a 8-16 settimane di trattamento e a dosaggi rispettivamente di 6 e di 150 mg/die. Tra questi trial vale la pena segnalare un ampio studio multicentrico statunitense che ha arruolato più di 1100 soggetti con DAP e ha evidenziato come dopo 8 settimane di trattamento il 70% dei soggetti che assumevano alprazolam ed imipramina non presentava attacchi di panico, a differenza del gruppo randomizzato al placebo, in cui solo il 50% dei soggetti non presentava attacchi di panico37. Il tasso di drop-out in questo studio era rispettivamente del 17% per l'alprazolam, del 30% per l'imipramina e del 43% per il placebo (quest'ultimo risultato era dovuto principalmente all'inefficacia della cura). Un piccolo lavoro condotto in 25 pazienti ultrasessantenni che utilizzava dosaggi di farmaco dimezzati rispetto a quelli normalmente impiegati nei giovani non è stato in grado di evidenziare differenze di efficacia tra i due trattamenti in questa particolare sottopopolazione38.
Revisioni sistematiche della letteratura
Gli studi clinici controllati condotti nel corso degli anni sono stati oggetto di alcune revisioni sistematiche della letteratura che, impiegando tecniche di estrazione delle informazioni contenute negli studi originali, hanno analizzato tutti i dati che si riferiscono all'efficacia e alla tollerabilità dei farmaci nel DAP. Una metanalisi del 1995 ha preso in esame 27 studi clinici controllati riguardanti i farmaci ad azione serotoninergica, l'imipramina e l'alprazolam e ha cercato di confrontare la loro efficacia nel DAP39. Tutti i farmaci sono risultati di efficacia superiore al placebo, tuttavia i composti ad azione serotoninergica (gli SSRI e la clomipramina) sono apparsi significativamente più efficaci dell'imipramina e dell'alprazolam. Risultati differenti sono invece emersi da una metanalisi pubblicata di recente che ha cercato di quantificare l'entità della risposta terapeutica degli SSRI40. Questo lavoro, che includeva 12 trial che confrontavano gli SSRI al placebo e 9 studi che confrontavano l'imipramina al placebo, ha evidenziato una sostanziale uguaglianza di efficacia tra questi trattamenti. Gli autori concludono affermando che non vi sono evidenze a favore di una superiorità degli SSRI rispetto agli antidepressivi di vecchia generazione, e che il vero effetto dei primi sarebbe stato sopravvalutato anche a causa della mancata pubblicazione, da parte delle aziende produttrici, dei trial che davano esiti negativi.
Questo lavoro ha inoltre messo in luce una relazione inversa tra numerosità dei soggetti inclusi nei trial ed entità della risposta clinica complessiva ottenuta: in altri termini studi di piccole dimensioni campionarie sarebbero associati a risposte cliniche superiori rispetto agli studi con campioni più ampi, che invece presenterebbero dati di efficacia più contenuti. Gli autori sostengono che questo potrebbe aver influenzato il confronto tra i trattamenti, portando ad una sovrastima dell'efficacia dei farmaci ad azione serotoninergica che, soprattutto nelle prime pubblicazioni, presentavano campioni di piccole dimensioni. Gli autori hanno infine evidenziato che aggiustando l'analisi per numerosità dei soggetti inclusi, l'entità media della risposta clinica ai serotoninergici appariva sostanzialmente sovrapponibile a quella ottenuta con l'imipramina.
Tollerabilità e sicurezza
Gli studi pubblicati sul DAP non hanno evidenziato particolari peculiarità per quel che riguarda la diversa tollerabilità tra le varie classi di farmaci, rispetto a quanto già emerso nei lavori sulla depressione.
Gli effetti collaterali che si manifestano più di frequente con SSRI sono risultati la cefalea, l'irritabilità, la nausea e i disturbi gastrointestinali, l'insonnia, le disfunzioni sessuali, l'incremento dell'ansia, le vertigini ed il tremore. E' stata inoltre osservata la comparsa di effetti collaterali di tipo extrapiramidale (soprattutto acatisia). Una sindrome astinenziale è stata inoltre descritta nei primi giorni successivi alla sospensione brusca di questi farmaci, con l'insorgenza di una sintomatologia caratterizzata da vertigini, cefalea, incoordinazione motoria e nausea. Gli SSRI non sono letali in overdose e hanno scarsi effetti sulla funzione cardiaca. Sono inoltre praticamente privi di effetti anticolinergici.
I triciclici presentano frequentemente effetti anticolinergici (secchezza delle fauci, stipsi, difficoltà ad urinare, tachicardia, offuscamento visivo), aumento di peso, astenia e stanchezza, ipotensione ortostatica e vertigini, disfunzioni sessuali e disturbi del ritmo cardiaco. Sono inoltre tossici in overdose e pertanto non dovrebbero essere prescritti in soggetti con ideazione suicidaria. Anche i triciclici, alla sospensione brusca, provocano una sindrome da astinenza, prevalentemente caratterizzata da sintomi somatici e gastrointestinali.
Le differenze nel profilo di tollerabilità tra antidepressivi di vecchia e nuova generazione sono soprattutto qualitative. Da un punto di vista quantitativo, infatti, le revisioni sistematiche della letteratura non hanno evidenziato sostanziali differenze tra antidepressivi serotoninergici e triciclici quando la tollerabilità era espressa come tasso di drop-out dal trattamento. Purtroppo i dati pubblicati nei singoli studi non permettono di riconoscere i tassi di drop-out legati esclusivamente agli effetti indesiderati della cura (l'interruzione del trattamento può infatti avvenire per altri motivi come l'inefficacia del farmaco o la remissione spontanea dei sintomi) rendendo difficile trarre conclusioni al riguardo.
Gli effetti collaterali delle benzodiazepine, ai dosaggi indicati per controllare gli attacchi di panico, includono sedazione, aumento dei tempi di reazione, astenia ed atassia; negli anziani possono provocare deficit cognitivi (in particolare deficit mnesici), incoordinazione motoria ed eloquio impastato41. I problemi principali legati alla prescrizione di benzodiazepine, soprattutto nel lungo periodo, restano comunque lo sviluppo di tolleranza e dipendenza, con un'elevata incidenza di sintomi alla sospensione del trattamento.
Gli IMAO (fenelzina o tranilcipromina) sono farmaci poco maneggevoli a causa del rischio di crisi ipertensive secondarie alla concomitante ingestione di tiramina (presente in alcuni cibi) e della conseguente necessità di restrizioni dietetiche nel loro impiego. Altri effetti collaterali di una certa rilevanza includono l'ipotensione (con possibilità di sincope), l'aumento di peso, l'eccitamento ipomaniacale, le disfunzioni sessuali ed i disturbi del sonno.
I trattamenti non farmacologici
I trattamenti farmacologici non rappresentano certamente l'unico approccio terapeutico alla gestione del DAP; interventi non farmacologici, come ad esempio le psicoterapie, sono considerati ancora oggi il trattamento tradizionale del DAP. Tra le varie forme di psicoterapia, i trattamenti cognitivo-comportamentali sono quelli supportati da una maggiore mole di evidenze scientifiche. Molti studi hanno esaminato l'efficacia della esposizione comportamentale, una delle componenti della terapia cognitivo-comportamentale, nel trattamento dell'agorafobia42,43. Tali studi hanno evidenziato una buona efficacia nella riduzione dei sintomi fobici; tuttavia, la generalizzabilità di tale dato è limitata dal gran numero di soggetti che in questi studi non erano in grado o si rifiutavano di completare il programma di trattamento.
Ad ogni modo, attualmente si ritiene che entrambe le forme di trattamento - psicofarmacologico e cognitivo-comportamentale si debbano attentamente prendere in considerazione nella gestione dei pazienti con DAP. Spesso questi interventi si somministrano contemporaneamente: vi sono infatti studi che hanno suggerito come l'associazione tra imipramina ed esposizione comportamentale conferisca maggiori vantaggi rispetto a ciascuno dei due trattamenti usati singolarmente.Altre forme di psicoterapia, ad orientamento soprattutto psicodinamico, pur essendo ampiamente utilizzate nel DAP non sono supportate da adeguate prove sperimentali di efficacia.
Discussione
Questa discussione è, in un certo senso, già stata scritta e letta. E' sufficiente riprendere l'editoriale di pagina 143 del bollettino ("Finestre: di Metodologia, e di dignità", Informazioni sui Farmaci 2001; 25: 143-144) e rileggerlo in coda al testo del presente articolo. Si noterà come "Le presenze", "Le assenze" e "La coerenza" descritte in quell'occasione si adattano perfettamente ai contenuti di oggi.
Le presenze
Nelle sperimentazioni che valutano gli interventi farmacologici nel DAP la presenza costante e ripetitiva è quella dei piccoli numeri. Si tratta di trial che mediamente seguono, nei casi migliori, poche centinaia di soggetti. E questo è naturalmente un problema, poiché l'ipotetica superiorità di un farmaco sugli altri è difficilmente dimostrabile. Solo piccoli gruppi di pazienti sono stati inclusi in studi di comparazione diretta tra principi attivi all'interno di una stessa classe o appartenenti a classi farmacologiche diverse. Ad esempio, non esiste alcuno studio controllato di confronto tra due farmaci ad azione serotoninergica - i farmaci oggi più impiegati nel DAP. Questo rende di fatto impossibile compiere una scelta razionale. Per quanto riguarda gli antidepressivi triciclici, i pochissimi lavori di confronto pubblicati non sembrano in grado di definire una differenza di efficacia sostanziale tra clomipramina, imipramina o desipramina13. La stessa cosa vale per le benzodiazepine dove i pochi dati a disposizione sembrano suggerire una sostanziale somiglianza tra di esse. Rimangono inoltre impalpabili le supposte differenze - clinicamente rilevanti - tra farmaci di classi diverse. A tal proposito è interessante notare che la rapida accettazione degli SSRI come farmaci di prima scelta, e il loro conseguente massiccio impiego nel trattamento del DAP, sia avvenuta a prescindere dalle prove di efficacia esistenti. Questo, ancora una volta, ribadisce che la costante "presenza" in psichiatria di piccoli numeri nelle sperimentazioni ha non solo l'effetto negativo di lasciare popolazioni di pazienti orfane di risposte ai propri bisogni di cura, ma ha anche l'effetto negativo di permettere che altre logiche e dinamiche si inseriscano nel determinare l'uso nella pratica clinica dei farmaci.
Le assenze
Impietosamente, l'editoriale menzionato cita come cosa tipica "l'assenza" del buon senso dalla sperimentazione in psichiatria. Effettivamente in psichiatria i farmaci si valutano eliminando meticolosamente tutto ciò che circonda la prescrizione, considerando cioè il contesto di cura, le storie dei pazienti e le loro attese come variabili di confondimento, che debbono quindi essere soffocate ed eliminate ad ogni costo. Questo rende i pazienti reclutati, i medici prescrittori ed i servizi entro cui si stabilisce la relazione tra medico e paziente poco somiglianti alla pratica clinica quotidiana. Per esempio, tra tutti gli studi clinici analizzati nel presente articolo solamente uno, che ha studiato la fluvoxamina, è stato condotto nella medicina generale14. O ancora, nonostante i soggetti con DAP e comorbidità di tipo depressivo siano quasi il 60% dei casi totali, questi sono regolarmente esclusi dalle sperimentazioni. Tali soggetti confonderebbero infatti la valutazione, rendendo difficile misurare l'effetto netto dei farmaci sui sintomi del DAP. Il problema è però che nella pratica clinica è prioritario capire se e quale antidepressivo è utile proprio nei casi più difficili, quelli che hanno tanti sintomi appartenenti a patologie diverse, che magari noi vorremmo tenere separate o che non sappiamo come inquadrare. E magari si tratta di soggetti che si ritrovano negli ambulatori dei medici di medicina generale.
La coerenza
Inevitabilmente, in psichiatria il problema della rappresentatività dei pazienti conduce alla questione della diagnosi, che può essere considerata un vero e proprio baluardo di "coerenza". Il dover fronteggiare quadri clinici poco definiti da un punto di vista diagnostico e prognostico, nei sintomi e negli indicatori di esito, ha stimolato un approccio di estremo rigore formale, in cui i pazienti sono selezionati utilizzando criteri diagnostici molto sofisticati e valutati mediante strumenti di esito dalle proprietà psicometriche inattaccabili. Il problema è che si tratta di pazienti che raramente si vedono negli ambulatori dei medici di medicina generale o nei servizi psichiatrici, e mai i medici giudicano i miglioramenti usando tali strumenti. Per esempio, nelle sperimentazioni revisionate in questo articolo i pazienti venivano considerati "liberi da panico" quando non avevano un numero di sintomi sufficiente per poter soddisfare i criteri di DAP. Tuttavia, ciò non significa che fossero necessariamente liberi dai sintomi di panico. E' chiaro che una valutazione dell'efficacia di un farmaco, fatta in questo modo, appare limitata e parziale: l'obiettivo di un trattamento, infatti, dovrebbe essere il raggiungimento del benessere del paziente, il recupero di un buon grado di funzionalità nelle attività quotidiane ed il soddisfacimento dei bisogni di cura. Fra l'altro le valutazioni dell'esito basate solo sulla somministrazione di strumenti sono, per lo meno in questo settore, così inconcludenti che è addirittura oggetto di dibattito l'entità del beneficio apportato dai trattamenti farmacologici nel DAP. Questo perché, dall'analisi complessiva dei risultati, emerge che l'efficacia specifica dei farmaci, intesa come percentuale di pazienti che risponde al principio attivo meno quella che risponde al placebo, è stimata attorno al 15-20%, dato che, seppure statisticamente significativo, appare di dubbia rilevanza clinica.
Conclusione
La consapevolezza che i trattamenti farmacologici che quotidianamente proponiamo e somministriamo ai nostri pazienti non sono sempre sostenuti da prove di efficacia robuste e di alto valore metodologico è necessaria. Essa ci permette di tenere le aspettative e le opinioni sui farmaci saldamente ancorate alla realtà. Di fronte a tale consapevolezza, tuttavia, non possiamo permetterci di arrestarci in uno stato di attesa perenne e paralizzante di prove di efficacia adeguate. Tutti i giorni, infatti, siamo chiamati a dare risposte alle numerose richieste di aiuto che i nostri pazienti ci pongono e, fra queste, vi è con grande frequenza la somministrazione di farmaci, per esempio antidepressivi nei pazienti con attacchi di panico. E la consapevolezza che la somministrazione dell'antidepressivo non esaurisce il trattamento degli attacchi di panico ci complica molto le cose, proprio perché ci costringe a pensare, discutere e negoziare con il paziente, i familiari e talvolta anche con i colleghi quali altre strategie possibili esistono per rispondere alla sofferenza di quel singolo soggetto che siede di fronte a noi. E' faticoso, perché richiede tempo, e soprattutto perché l'assenza di una risposta totalmente preconfezionata ci mette in grande crisi, ma è anche l'unico modo che abbiamo per prendere realmente in carico, assieme ai pazienti, anche l'incertezza delle scelte terapeutiche. L'assenza di tale consapevolezza, l'assenza cioè di una attitudine critica sulla letteratura scientifica e sulle prove di efficacia, ci indurrebbe viceversa a credere che la sola somministrazione del farmaco antidepressivo esaurisca il nostro impegno terapeutico, svuotando così di contenuti la relazione con i nostri pazienti e, forse, rendendo meno favorevole la prognosi del disturbo stesso.
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