Dieci anni di farmaci oncologici: un bilancio non esaltante
Italo Portioli
La situazione
La valutazione a distanza dei risultati della terapia oncologica è materia rara. Ordinare con sapienza i criteri che contribuiscono a comporla, definirne il peso relativo nel bilancio finale di efficacia dei farmaci, non è una pratica di ricerca propriamente invitante: le difficoltà si rivelano rapidamente tali da suggerire l’abbandono dell’impresa.
Il primo approccio sistematico al problema è stato pubblicato online gli ultimi giorni del 2016, Salas-Vega et al.1 hanno valutato gli effetti terapeutici comparati di tutti i nuovi i farmaci oncologici approvati negli Stati Uniti e in Europa, dalla FDA (Food and Drug Adninistration) e dall’EMA (European Medicines Agency) nel decennio 2003-2013 utilizzando in modo integrato le valutazioni di HTA (Health Tecnology Assessment), di tre agenzie nazionali, la inglese NICE (National Institute for Health and Care Excellence), la francese HAS (Haute Autoritè de Santè) e la australiana PBAC (Pharmaceutical Benefits Advisory Committee). Gli outcomes misurati erano i tre end points forti canonici: sopravvivenza (Overall Survival OS), qualità della vita (Quality of Life QoL) e sicurezza (Safety S). La valutazione dei risultati è finita nel maggio 2015, ovvero i risultati sono computati al 2015.
Esaminiamone i contenuti. I farmaci antitumorali considerati, approvati nel decennio, erano 53. Il primo dato generale è che essi hanno contribuito in misura molto diversa a determinare la migliore sopravvivenza: 23 su 53 (ovvero il 43%) vi hanno contribuito nell’aumentarla di 3 mesi e oltre; 6 su 53 (ovvero l’11%) vi hanno contribuito per meno di 3 mesi; di 8 su 53 (ovvero del 15%) il contribuito era indeterminabile; 16 su 53 (ovvero il 30%) non avevano dimostrato alcuna evidenza di efficacia. Se si prendono in esame gli effetti dei nuovi farmaci sui 3 singoli end points, si trovano informazioni inattese:
a) sopravvivenza. Rispetto ai trattamenti in atto sino al 2003, l’impiego dei nuovi farmaci oncologici ha prodotto, in 10 anni, un aumento medio totale della sopravvivenza di 3,43 mesi. Quando questo dato viene disaggregato e si analizza il guadagno di sopravvivenza prodotto nei tumori dei singoli organi i risultati sono: 0 (zero) mesi per tiroide e carcinosi peritoneali ascitogene; 2,09 mesi per il cancro del polmone; 2,61 mesi per le neoplasie ematologiche globalmente considerate; 2,90 mesi per i tumori di stomaco-intestino; 3,17 mesi per il cancro prostatico; 4,65 mesi per i tumori della cute; 6,27 mesi per quelli del rene e, massimo risultato raggiunto, 8,43 mesi per il tumore della mammella;
b) qualità della vita: 22 su 53 nuovi farmaci (42%) erano associati con un aumento della qualità della vita ma solo per 17 su 22 il giudizio derivava da strumenti validati, per gli altri 5 il giudizio era basato su testimonianze dei pazienti o di clinici esperti;
c) sicurezza: solo 8 dei 53 farmaci (15%) miglioravano la sicurezza, mentre 24 (45%) risultavano peggiorarla (pur su disaccordo tra valutatori inglesi e australiani);
d) il beneficio clinico della terapia sui tre criteri indicati era, come prevedibile, dissociato. Per esempio, dei 23 (sui 53) che aumentano la sopravvivenza di almeno 3 mesi, 15 (65%) migliorano anche la qualità della vita mentre gli altri 8 (35%) non la influenzano. Solo 5 dei 23 “buoni” (22%) migliorano la sicurezza, 11 (48%) la riducono, 5 (22%) hanno evidenze contrastanti, 2 (9%) non la modificano.
Incrociando i dati dei risultati dei farmaci sui 3 criteri di outcomes, gli Autori arrivano ad una prima conclusione generale e cioè che 42 dei 53 nuovi farmaci - il 79% - mostravano qualche evidenza di beneficio o su OS, o su QoL o su sicurezza. Questa conclusione ha anche avuto un feedback positivo sugli Autori da parte di 2 esperti della FDA e sembra indicare che la innovazione nel mercato dei farmaci oncologici porti valore al paziente ed alla società.
Una rilettura critica, come in contro-luce, degli stessi dati fa però loro rilevare, ancora conclusivamente, che 1 su 3 farmaci approvati (il 30%) non ha alcun beneficio sulla sopravvivenza e che 1 su 5 (il 20%) non migliora né la qualità della vita né la sicurezza. Se alcuni farmaci hanno dunque buone ragioni per motivare spese ingenti - e in continua crescita - per altri il beneficio per la salute sembra scarso o inesistente.
Quanto alla osservazione che i benefici sono concentrati in particolari classi di farmaci, bisogna tenere in conto che al 2013 erano usati solo 10 farmaci genericamente “immunologici” - la maggior parte ad azione targeting sulle cellule neoplastiche - e che questi aumentavano la OS rispetto ai non immunologici (5,7 mesi versus 2,3 mesi), bevacizumab a parte. Soprattutto è rilevante che all’epoca era in uso solo uno dei farmaci di terapia immunitaria propriamente detta, cioè dei modulatori del check point immunitario (anti PD-1, anti PDL-1), l’ipilimumab, che peraltro dimostrava un miglioramento di sopravvivenza marginale (5,7 mesi).
Discussione
Lo studio, molto complesso, presenta limiti, in parte inevitabili. Ogni singola grande agenzia ha dovuto mettere insieme già nel suo proprio contesto anche inputs di dati non validati, o confronti con farmaci non targeted o vecchi, che riflettevano comunque la pratica del tempo. A questo si aggiunga che, per i farmaci che sono stati valutati da tutte tre le agenzie, esisteva spesso disaccordo tra i regolatori, in specie circa i benefici legati all’aumento della OS; vi erano soprattutto contrasti tra le valutazioni inglese e australiane: gli inglesi sono più propensi ad attribuire benefici dei miglioramenti della OS, al contrario gli australiani; l’accordo tra loro diminuisce a misura che il livello dei benefici cresce. Per misurare l’accordo inter-agenzie gli Autori hanno utilizzato il -a me ignoto- coefficiente di Krippendorff2 che è risultato di un valore (0,39) che viene considerato da basso a moderato. Questo indice aumentava quando dal computo venivano tolte le valutazioni inglesi. È facile osservare che il disaccordo tra agenzie non può essere attribuito a un problema di diversa “regionalità” culturale, come può accadere ad es. per la riclassificazione della terapia antibiotica3: i tre paesi da cui derivano i dati hanno un livello socio-economico e organizzativo quasi del tutto sovrapponibile.
In ogni modo, si tratta di dati che meritano un commento anche da qualcuno “laterale” al mondo oncologico. Per formularlo potrebbe non bastare il senso clinico, ma con qualche sostegno di senso comune esso può arrivare ad una conclusione, diciamo, distaccata, laica. E questa conclusione non può non essere che di sconforto. È vero, si possono avanzare riserve di metodo per il meccanismo con cui i dati sono stati ricavati o estratti e poi ricomposti partendo da differenti contesti regolatori, resta tuttavia la sensazione che il dato macro- che ne risulta sarà comunque difficile da smentire, ammesso che qualcuno voglia cimentarsi in uno sforzo di pari portata.
Se ricordiamo che il guadagno medio totale di sopravvivenza è stato di 3,43 mesi in 10 anni – anni peraltro fertilissimi per la ricerca oncologica – o che il 30% di farmaci non ha alcun effetto sulla sopravvivenza e che 1 farmaco su 5 non agisce neppure su qualità della vita e sicurezza, non si può non essere per lo meno perplessi. Così, viene da porsi qualche domanda.
La prima è: come è stato possibile che siano entrati in una pratica terapeutica delicata come quella oncologica 16 farmaci, il 30% dei 53, che alla fine sono risultati privi di qualsiasi efficacia? La seconda domanda è come mai un lavoro di sintesi sistematica dei risultati a distanza dell’uso di nuovi farmaci oncologici non ha avuto risonanza e sollevato dibattito, nel mondo oncologico e, fuori, nella comunità civile?
Proviamo a rispondere
Una prima risposta al primo quesito (perché approvati 16 farmaci del tutto inefficaci) solleva un tema antico, purtroppo familiare a chi ha esperienza dei procedimenti che conducono alla registrazione dei farmaci. Il tema è quello delle registrazioni accelerate. A generare questo problema, e ad imporsi quasi come ineluttabile, contribuiscono fattori che in gran parte sono estranei alla stretta valutazione scientifica. Sul campo oncologico, come in qualche altro ambito medico di particolare rilevanza epidemiologica e gravità clinica, si esercitano pressioni sociali di peso ed estrazione diversa, non facilmente contenibili e univocamente convogliate: la speranza dei pazienti soprattutto, l’angoscia dei familiari che interrogano, la spinta degli sperimentatori cui preme di non essere esclusi dalla risonanza di un potenziale risultato di prestigio, l’impegno degli accademici e dell’editoria, quello, più discreto, dei responsabili amministrativi della sanità, sempre sfiorati dal sospetto, come “politici”, di un sostanziale disinteresse per il bene dei cittadini, la leva dei produttori infine cui sta a cuore, e non solo, il rientro dai (pur tanto discussi) pesanti oneri della sperimentazione clinica. Si tratta di ragioni con una loro legittimità, spesso generose quando non primarie e assillanti, ma che finiscono per incidere sulla “terzietà” con cui le autorità regolatorie dovrebbero gestire questi temi.
Una seconda risposta a questa prima questione è più tecnica. Nei trials da cui sono stati ricavati questi risultati vengono per così dire trascinati anche pazienti affetti da neoplasie la cui caratterizzazione genomica è così definita e settorata da farli sfuggire all’azione di farmaci che, come i 53 indicati, sono stati pensati “genericamente” per agire su una data neoplasia d’organo e che su questa sono stati testati. Questo è anche il motivo per cui i risultati della stessa targeted therapy non sono diversi da quelli ottenuti con terapia convenzionale (studio SHIVA)4; essa fallisce l’obiettivo distintivo perché i farmaci non sono abbastanza targeted5. Per non dire poi dei tumori rari, che risultano irraggiungibili dalle comuni terapie oncologiche. Per questi tumori si prospetta ormai di fare non più RCTs generalisti ma trials su singoli gruppi di pazienti con storia naturale ben definita e con specifica caratterizzazione genomica, condivisa da neoplasie anatomicamente e istologicamente molto distanti6. In uno studio trans-tumorale non comparativo, su 12 diversi istotipi tumorali (ghiandole salivari, sarcomi delle parti molli, fibrosarcomi infantili, tumori di tiroide, colon, polmone, mammella, pancreas, appendice, colangiocarcinoma) che hanno in comune una sola mutazione, la mutazione 17TRK fusione-positiva, un inibitore altamente selettivo di TRK, il larotrectinib ha ottenuto percentuali di risposte (ORR, overall response rate) dell’80% (75% di queste mantenute a 1 anno). La pur bassa incidenza di questi segmenti genomici rende i (classici) RCTs challenging, una sfida7.
Quella dell’approccio trans-tumorale (nei “basket trials”) è tra l’altro l’ultima strada concettuale con cui, nella pur breve storia della terapia delle neoplasie, vengono “scelti” (e poi classificati e storicizzati) i diversi bersagli della cosiddetta “precision oncology”. Se uno va a cercare su Google Scholar8 l’uso del termine precision oncology trova che esso indica, nel tempo concetti - e atti clinici - diversi. All’inizio esso descrive le targeted therapies come quella contro il VEGF (bevacizumab) o il BCR ABL (imatinib); in un secondo tempo la scelta delle terapie è basata sui dati di biomarcatori - per es. il panel di test genomici come Oncotype Dx per decidere se fare o no la terapia adiuvante nel cancro della mammella; più recente è l’uso dei dati derivati dalla NGS, Next Generation Sequencing, che permette di testare con un solo prelievo un grande numero di alterazioni genomiche, come guida per la cura; l’ultima scelta7 è quella di orientare la terapia, indipendentemente dall’organo e dal tipo di cancro, sulle mutazioni, per cui, già nella pratica clinica “normale”, pazienti con malattie tra loro molto lontane, per esempio leucemia mieloide acuta e cancro della mammella, ma che condividono la mutazione BRAF V600E sono trattate allo stesso modo. Curiosamente, si potrebbe osservare che, in punto di teoria, l’approccio trans-tumorale è anche al fondo dell’impiego dei farmaci che modulano il check point immunitario, ripristinando la risposta immunologica al tumore.
Questa lunga parentesi per dire che i risultati deludenti riportati nel decennio 2003-2013 hanno anche una interpretazione in quella che oggi possiamo leggere, ma solo a posteriori, come una debolezza metodologica dell’approccio.
Una terza risposta al quesito iniziale riguarda i risultati, contraddittori o irrilevanti, ottenuti con i farmaci oncologici sulla qualità della vita. Una spiegazione possibile è che nei 10 anni prima del 2013 non era ancora invalsa la pratica dei Patient Reported Outcomes (PROs) cioè di un metodo standardizzato per misurare il punto di vista dei pazienti sul loro stato di salute9. I PROs, che completano gli outcomes clinici tradizionali di sopravvivenza e sicurezza, sono oggi parte centrale nella valutazione della qualità della vita. Sono anche qualcosa di più se si considera che l’aver integrato la raccolta routinaria e il feedback dei pazienti ha molto migliorato il livello delle loro cure10 e questo non solo a livello individuale, nel senso della risultata migliore comunicazione, ma anche a livello organizzativo, con la possibilità di aggregare dati e di confrontare performances di cura.
Anche qui, per migliorare la condivisione, resta però ancora molto da fare. Nel raccomandare l’inclusione dei PROs nei protocolli dei trials resta per esempio da definire quali outcomes considerare e quanti (ben 16 sono dichiarati “specifici” nel progetto EQUATOR)11 e soprattutto come arrivare finalmente a “promuoverli” ad outcomes primari e non solo satelliti, negli studi controllati. Questo, oggi. Prima del 2013 (ma qualcuno ritiene anche dopo)12 i disegni dei protocolli di registrazione e dei trials, anche oncologici, non prevedevano di esplorare le opinioni e l’interesse del paziente, almeno nel modo in cui poi questi sono stati formalizzati nei PROs; questo ha reso la rilevazione dei dati sulla qualità di vita dei pazienti indiretta e fragile, dunque povera. Sembra logico pensare che proprio la marginalità dei PROs negli studi del tempo sia alla base del calo del loro peso nella valutazione finale della QoL.
Una seconda domanda infine, umana questa, meno impellente, che ci si può porre è ancora un “come mai”. Perché quello che, a detta degli Autori, è il primo studio di sintesi sistematica dei risultati a distanza dell’uso di nuovi farmaci oncologici, ricavato dall’assemblaggio del lavoro - che si immagina faticoso - delle tre tra le più agguerrite agenzie di HTA di Regno Unito, Francia, Australia, non ha avuto risonanza e sollevato dibattito, nel mondo oncologico e fuori, in quello dei regolatori o dei farmacologi clinici o, e soprattutto, nella sensibilità pubblica della comunità dei malati e delle loro famiglie? Perché il silenzio su un dato tanto importante? Le risposte sono imbarazzanti. Esse rimandano in parte alle risapute citate pressioni sociali ma il quesito resta in larga misura aperto. Forse perché non tutte le risposte potrebbero essere ugualmente nobili.
Bibliografia
1. Salas-Vega S, et al. Assessment of overall survival, quality of life, and safety benefits associated with new cancer medicines. JAMA Oncol 2017;3:382-390. doi: 10.1001/jamaoncol.2016.4166. 2. Krippendorff K. Content analysis: an introduction to its methodology. Second Edition. SAGE Publications; Thousand Oaks, CA.2004. 3. Sharland M, et al. Magrini N, on behalf of the 21 st WHO Expert Committee on selection and use of Essential Medicines Classifying antibiotics in the WHO Essential Medicines List for optimal use – be AwaRe. Lancet ID 2018;18:18-20. 4. Le Tourneau C, et al. Molecular targeted therapy based on tumoral molecular profiling versus conventional therapy for advanced cancer (SHIVA): a multicentre open-label, proof-of-concept, randomised, controlled phase 3 trial. Lancet Oncol 2015;16:1324-44. 5. Portioli I. Nominalism in Medicine: the case of personalized medicine or precision medicine. Ital J Med 2017;11:417-423. 6. Andrè F. Developing anticancer drugs in orphan molecular entities. N Engl J Med 2018;378:763-765. 7. Drilon A, et al. Efficacy of Larotrectinib in TRK fusion-positive cancers in adults and children. N Engl J Med 2018;378:731-739. 8. Prasad V, et al. What precisely is precision medicine and will it work? TheASCOPost, 25 January 2017. Available from:http://www.ascopost.com/issues/january-25-2017. 9. Gilbert A, et al. Use of patient-reported outcomes to measure symptoms and health related quality of life in the clinic. Gynecol Oncol 2015;136:429-39. 10. Perlis N, et al. The bladder utility symptom scale (BUSS): a novel patient-reported outcome instrument in bladder cancer. J Urol 2018;piiS0022-5347(18)42498-6. doi: 10.1016/j.juro.2018.03.006. 11. Calvert M, et al. Guidelines for inclusion of Patient-reported outcomes in clinical trials protocols. The SPIRIT-PRO extension. JAMA 2018;319:483-494. 12. Van Der Wees PJ, et al. Integrating the use of patient-reported outcomes for both clinical practice and performances measurement: views of experts from 3 countries. Milbank Q. 2014;92: 754-75.