La rilevanza epidemiologica e clinica della cirrosi epatica è ben nota al medico di medicina generale che è chiamato ad adottare interventi preventivi e/o terapeutici di vario tipo volti al miglioramento della sopravvivenza e della qualità di vita dei pazienti. Molti cirrotici, però, sono seguiti anche dallo specialista (internista, gastroenterologo o epatologo) e spesso vengono ricoverati in ospedale a causa delle numerose complicanze cui vanno incontro. Di conseguenza, sempre di più le scelte terapeutiche e il percorso assistenziale dipendono da una positiva interazione tra medico generico e specialista. Scopo dell'articolo è quello di indicare quanto può essere fatto nell'ambito della medicina di base e quanto invece richiede l'apporto dello specialista o il ricorso al regime di ricovero ospedaliero. L'approccio terapeutico si pone alcuni chiari obiettivi (Tabella 1), primo tra tutti rallentare, ove possibile, la progressione del danno epatico parenchimale e trattare (o prevenire) le gravi complicanze che caratterizzano la storia clinica del paziente cirrotico.
Rallentamento della progressione o regressione della malattia
Oggi si può rallentare la progressione o far regredire la malattia epatica e la possibilità è strettamente condizionata dalla causa responsabile del processo cirrotico e dalla disponibilità di farmaci efficaci. Il medico non deve, quindi, assumere un atteggiamento terapeutico negativo legato al convincimento preconcetto dell'irreversibilità del processo cirrotico, ma deve, invece, tenere presente che in alcune situazioni cliniche una risposta è ottenibile anche in presenza di una cirrosi conclamata. Esemplificative in tal senso sono le cirrosi su base alcolica, autoimmune e virale, nelle quali si è in grado di intervenire sul meccanismo etiopatogenetico modificandone la prognosi infausta.
Cirrosi alcolica
E' ampiamente dimostrato come la totale astinenza dall'alcol riesca a migliorare la sopravvivenza dei pazienti cirrotici. Purtroppo, il raggiungimento di uno stato di astinenza completa è assai problematico, malgrado l'aiuto di psicologi o gruppi di sostegno formati da pazienti e loro familiari. Un ruolo importante per riuscire a modificare la prognosi infausta della cirrosi alcolica lo gioca anche la precocità dell'intervento di sostegno che porta all'astinenza; sfortunatamente, molti etilisti diventano sintomatici e vengono così individuati solo dopo che la loro malattia epatica è talmente progredita da risultare difficilmente reversibile. Approcci farmacologici, come gli steroidi anabolizzanti, il propiltiouracile, la colchicina, la lecitina polinsatura e la metadoxina, pur se citati in letteratura, non hanno alcuna rilevanza terapeutica e sono stati ormai giustamente abbandonati.
In sintesi, il medico di medicina generale può e deve svolgere un ruolo fondamentale nell'aiutare il paziente a uscire dalla dipendenza dall'alcol rafforzando in lui il convincimento che tale sforzo può avere successo e che nulla è perduto anche se la storia di etilismo è presente da tempo. Analogo intervento va fatto nei confronti dei familiari del paziente che devono partecipare al lavoro di sostegno svolto in genere da associazioni come quelle degli "Etilisti anonimi".
Cirrosi da epatite autoimmune
E' l'esempio classico di una cirrosi responsiva ai corticosteroidi e/o immunosoppressori, anche se la diagnosi viene posta in ritardo. Il trattamento, specie se instaurato precocemente, è in grado di mandare in remissione l'epatite e impedirne la progressione verso la cirrosi. La presenza di una cirrosi conclamata aumenta, però, il rischio dei fallimenti terapeutici. Perché il trattamento abbia successo, risultano molto importanti una diagnosi corretta e l'attenta valutazione del rapporto beneficio/rischio di una terapia che va protratta nel tempo, spesso in soggetti giovani e di sesso femminile. Alcune linee guida suggeriscono l'impiego dei farmaci solo in presenza di chiari segni di attività della malattia (aumento delle transaminasi, istologia), ma questa scelta, di competenza specialistica, non è sempre confortata da dati provenienti da studi clinici controllati per cui a tutt'oggi non è chiaro quale sia la soluzione migliore. Compito del medico di medicina generale è quello di seguire attentamente il paziente che assume corticosteroidi e/o immunosoppressori [azatioprina o ciclosporina (Sandimmun)], soprattutto per quanto riguarda i possibili effetti indesiderati del trattamento cronico.
Cirrosi da epatite cronica da virus C
Il 20-30% dei pazienti con infezione cronica da HCV sviluppa una cirrosi nell'arco di 20-30 anni. In questi ultimi tempi, si sono resi disponibili farmaci virtualmente in grado di guarire l'epatite cronica, rallentare o arrestare la progressione della cirrosi epatica e ridurre il rischio di epatocarcinoma. L'associazione tra interferone pegilato (PegIntron e Pegasis) e ribavirina (Rebetol) rappresenta oggi la terapia standard di riferimento in quanto più efficace e meglio tollerata di quella che utilizza l'interferone alfa standard da solo o associato a ribavirina. Sarà compito dello specialista scegliere il paziente, definire lo schema posologico e la durata del trattamento, mentre il medico di medicina generale dovrà occuparsi del monitoraggio del paziente, sorvegliarne la compliance e riconoscere per tempo i numerosi effetti indesiderati (talora gravi) del trattamento.
Cirrosi da epatite cronica da virus B
Anche l'epatite cronica da virus B può evolvere verso un quadro cirrotico (12-20% in 5 anni) e la cirrosi, a sua volta, può andare incontro a scompenso (20-23% in 5 anni) o degenerare in epatocarcinoma (6-15% in 5 anni). Le terapie disponibili nel trattamento dell'epatite B cronica hanno un'efficacia limitata nel lungo termine e il loro utilizzo richiede esperienza specifica sia nella selezione dei pazienti che nell'impiego dei farmaci, tanto da rendere indispensabile un raccordo costante tra lo specialista e il medico di medicina generale. I farmaci più utilizzati sono l'interferone alfa (es. Intron A, Roferon A) e agenti antivirali quali la lamivudina (Zeffix) e l'adefovir (Hepsera), ai quali se ne stanno affiancando altri come il famciclovir (Ziravir) e il tenofovir (Viread). Sulla base dei pochi dati sinora disponibili, il loro impiego in monoterapia e/o in combinazione può migliorare il quadro clinico e istopatologico dell'epatite cronica sia pure al prezzo di effetti indesiderati e costi rilevanti.
Complicazioni della cirrosi L'ascite
Il decorso clinico del paziente con cirrosi epatica è caratterizzato dalla comparsa di numerose complicazioni che possono comprometterne la sopravvivenza e la qualità di vita, prima tra tutte l'ascite. Nell'arco di 10 anni, il 50% circa dei cirrotici con malattia ben compensata sviluppa un versamento ascitico e la metà di loro muore entro 2-4 anni. La comparsa dell'ascite è il risultato finale di una serie di anomalie anatomiche, fisiopatologiche e biochimiche che caratterizzano il paziente cirrotico e che iniziano con lo sviluppo di una ipertensione portale e terminano con una vasodilatazione arteriolare e una circolazione iperdinamica. Tali modifiche emodinamiche portano alla attivazione di vasocostrittori endogeni, alla ritenzione di acqua e di sodio e ad una vasocostrizione renale.
Diagnosi
Il primo problema che il medico di medicina generale deve affrontare è quello diagnostico legato alla necessità o meno di ricorrere ad un accertamento invasivo quale la paracentesi. In presenza di una storia clinica chiara, che consenta di identificare con sufficiente precisione la natura del quadro cirrotico e nel contempo di escludere una forma complicata (infettiva o neoplastica), è possibile iniziare il trattamento senza effettuare una paracentesi diagnostica. Nel caso in cui ci si trovi di fronte ad una ascite mai riscontrata prima o ad un quadro ricorrente e/o scarsamente rispondente alla terapia, risulta indispensabile eseguire la paracentesi e una ecografia addominale. Questi accertamenti vengono eseguiti in regime di ricovero e rimangono compito dello specialista, anche se per la loro semplicità e scarsa invasività potrebbero essere effettuati anche al letto del paziente. L'esame del liquido ascitico deve includere la conta granulocitaria e il dosaggio delle proteine totali e dell'albumina al fine di diagnosticare una ascite complicata. Si potrà quindi procedere al trattamento specifico.
Trattamento non farmacologico
Nel paziente con ascite non complicata, non bisogna commettere l'errore di pensare solo alla terapia farmacologica. Altri interventi di tipo preventivo e/o terapeutico vanno attentamente considerati in quanto altrettanto rilevanti e sinergici con i farmaci. Quelli più importanti sono i seguenti :
- ottenere la garanzia di una completa astinenza dall'alcol;
- prescrivere una dieta povera di sale (assunzione di sodio non superiore a 2 g al giorno);
- insegnare al paziente come controllare gli effetti della terapia diuretica tramite l'accurato controllo del peso corporeo, il miglior parametro di valutazione dell'eventuale accumulo o perdita di liquidi;
- evitare provvedimenti non supportati da dati scientifici, come ad esempio allettare il paziente nella speranza che questa misura possa favorire lo svuotamento dell'ascite;
- evitare restrizioni idriche in caso di iponatremia, salvo che quest'ultima sia <120 mEq/l.
L'attuazione di queste misure non è, però, semplice, richiede un impegno costante e interferisce con le abitudini di vita del paziente.
La terapia farmacologica
La terapia diuretica rappresenta il mezzo più efficace per ridurre il volume del liquido in addome e gli edemi periferici concomitanti, nonché per impedirne il riaccumulo. Non vi è alcuna evidenza da studi clinici controllati che l'eliminazione dell'ascite e degli edemi periferici possa migliorare la sopravvivenza del paziente cirrotico, anche se i diuretici abbassano la pressione portale. Tuttavia, i vantaggi della terapia diuretica sono numerosi, a partire dal miglioramento della qualità della vita legato ad un soggettivo benessere, migliore cenestesi, minore dispnea. A ciò si aggiunge un rischio più basso di complicanze quali la peritonite spontanea batterica nonché di ernie, rotture diaframmatiche e un minor dispendio di energie. La terapia diuretica, inoltre, ove condotta in modo corretto, risulta ben tollerata e di facile somministrazione.
Poiché nel paziente cirrotico con ipertensione portale lo sviluppo dell'ascite e degli edemi periferici è dovuto alla ritenzione di acqua e sodio a livello renale, il primo obiettivo terapeutico sarà quello di indurre un bilancio negativo del sodio, limitandone l'introito alimentare a meno di 2 grammi al giorno. La sola restrizione dietetica del sodio non è, però, in grado di risolvere il problema della ritenzione idrica e ad essa va perciò associata, nella grande maggioranza dei pazienti cirrotici, la terapia diuretica. Il successo della restrizione dietetica di sodio dipende in gran parte dall'educazione del paziente che deve comprenderne a pieno l'importanza. Il paziente che segue con attenzione questa misura presenta, infatti, una risposta migliore e più rapida ai diuretici, un rischio più basso di recidiva e minore necessità di diuretici. Al contrario, il paziente che non la rispetta andrà incontro a ripetuti ricoveri e a maggiori complicanze dovute alla terapia diuretica. Spetta al medico di medicina generale svolgere questo ruolo educativo.
Quali farmaci e quale regime terapeutico adottare?
I risultati degli studi clinici controllati sono contrastanti, ma esiste ormai largo consenso nel ritenere di scelta la terapia combinata tra un inibitore dell'aldosterone [spironolattone (es. Aldactone)] e un diuretico dell'ansa [furosemide (es. Lasix)]. Questa associazione risulta più efficace della monoterapia e meglio tollerata in termini di minori squilibri elettrolitici (normokaliemia).
In presenza di ascite e di edemi periferici (la forma di presentazione più usuale), la terapia diuretica va iniziata utilizzando la dose più bassa dei due farmaci: 100 mg di spironolattone e 50 mg di furosemide, in dose unica orale, al mattino. In caso di scarsa risposta, il dosaggio può essere aumentato gradualmente, ogni 3-5 giorni, sino ad un massimo di 400 mg di spironolattone e 150 mg di furosemide, da somministrare insieme sempre al mattino per evitare una possibile interferenza della minzione con il sonno. Lo spironolattone può rendersi responsabile di una ginecomastia dolorosa; se il fastidio dovesse risultare di entità tale da compromettere la compliance del paziente si potrebbe ricorrere all'amiloride, ma nell'unica specialità medicinale che la contiene (Moduretic) l'amiloride è associata ad un tiazidico per il trattamento dell'ipertensione. La terapia, accompagnata dalla restrizione dietetica del sodio, risulta efficace in una altissima percentuale dei casi purché vengano evitati alcuni frequenti errori terapeutici (vedi Tabella 2).
Il modo migliore per valutare la risposta alla terapia diuretica è quello di pesare giornalmente il paziente e verificare che la riduzione ponderale si aggiri attorno ai 300-500 g/die.
Tale è infatti la riduzione massima consentita in quanto la mobilizzazione del liquido ascitico può avvenire esclusivamente tramite i capillari peritoneali. Un calo di peso superiore, sino a 800-1000 g/die, indica una maggiore risposta al diuretico e può essere accettabile solo se all'ascite si associano edemi periferici. In questo caso, infatti, esistono minori rischi che la terapia diuretica più intensa possa causare una deplezione intravascolare, conseguente ipotensione e possibile compromissione della funzionalità renale. Da qui l'importanza del monitoraggio quotidiano del peso corporeo. Un progressivo, graduale, calo di peso, accompagnato da una riduzione degli edemi, assenza di sintomi da ortostatismo, accompagnati da un benessere soggettivo del paziente sono segnali di una risposta ottimale alla terapia e di "compliance" del paziente al trattamento prescritto. Periodicamente (ad intervalli più lunghi), sarà necessario monitorare anche la funzionalità renale (creatininemia, azotemia) e il quadro idroelettrolitico (Na e K sierici), prestando particolare attenzione alla comparsa di ipokaliemia dato che la deplezione potassica può stimolare un'aumentata produzione renale di ammonio con possibile precipitazione di coma epatico (encefalopatia porto-sistemica).
L'assenza di risposta al trattamento deve far sospettare la mancata adozione di una dieta povera di sale o la comparsa di un'altra complicazione per cui il paziente va rinviato allo specialista per identificarne la causa.
Un problema di pertinenza specialistica è quello del trattamento dell'ascite di largo volume e sotto tensione che provoca sintomi fastidiosi (dolore addominale, dispnea, decubito obbligato) e che può associarsi a "resistenze" alla terapia diuretica. Questa condizione richiede il ricovero del paziente per una paracentesi di largo volume (5-6 litri) e per riconsiderare la terapia in atto (eventuale incremento della dose dei diuretici e restrizione dell'apporto di sodio). In simili circostanze, la paracentesi ha eminentemente lo scopo di ridurre i sintomi del paziente, ma va tenuto presente come la concentrazione di Na nel liquido ascitico sia equivalente a quella plasmatica (130 mEq/l) per cui una paracentesi di 5 litri comporta una rimozione di 650 mEq/l di Na. Il ricorso seriato (ogni 2 settimane) alla paracentesi di largo volume è in grado di controllare efficacemente l'ascite anche nei pazienti che non eliminano sodio con le urine, ma va riservato ai casi di ascite refrattaria (vedi Tabelle 3 e 4) e come misura estrema nei pazienti non rispondenti alla usuale terapia.
Dopo una singola paracentesi di largo volume non è necessario infondere liquidi per evitare l'ipovolemia; l'infusione di liquidi risulta invece indispensabile ove si adotti tale trattamento seriato nel lungo periodo. In questo caso, ogni paracentesi deve essere seguita dalla infusione di soluzioni elettrolitiche o succedanei plasmatici o di albumina. Non ci sono dati di studi clinici controllati che indichino quale sia il trattamento infusionale migliore. L'albumina (impiegata alle dosi di 5-10 g/litro di liquido rimosso) può essere sostituita con le meno costose e probabilmente più sicure soluzioni elettrolitiche (cristalloidi). Non esiste alcuna giustificazione fisiopatologica e clinica per l'impiego endovenoso (così diffuso a livello domiciliare) di albumina per "correggere" l'eventuale ipoalbuminemia. Al contrario, è dimostrato come l'infusione di albumina possa aumentare in modo rilevante la degradazione dell'albumina sierica stessa.
Il sanguinamento di varici esofagee
Nel tempo, il paziente cirrotico sviluppa una ipertensione portale per la combinazione di un aumento del flusso portale dovuto alla dilatazione arteriolare splancnica e di una elevata resistenza al deflusso portale attraverso i sinusoidi epatici distorti. Le varici si formano in risposta all'ipertensione portale al fine di decomprimere la vena porta. Una riduzione della pressione portale indotta farmacologicamente o con altra procedura terapeutica può essere in grado di ridurre la formazione di varici e, di conseguenza, anche il rischio di rottura e di sanguinamento. Il sanguinamento è un evento frequente (1/3 dei pazienti) e grave per l'elevata morbilità e mortalità: impone il ricovero urgente e una assistenza specialistica. Per la prevenzione, il medico di medicina generale ha a disposizione 2 classi di farmaci potenzialmente efficaci: i beta-bloccanti e i nitrati.
Beta-bloccanti
L'unica forma di prevenzione primaria del sanguinamento da varici nel paziente cirrotico che si è dimostrata efficace in studi clinici randomizzati controllati è quella che utilizza i beta-bloccanti non selettivi [propranololo (Inderal) e nadololo (Corgard)]. I beta-bloccanti riducono il flusso portale inibendo la dilatazione delle arteriole mesenteriche mediata dal simpatico e lasciando prevalere la vasocostrizione indotta dal tono alfa-adrenergico. Il grado di riduzione della pressione portale che si può ottenere con un beta-bloccante non selettivo è variabile da soggetto a soggetto e dipende dalla dose utilizzata. Nonostante questa variabilità interindividuale, negli studi clinici, il trattamento ha ridotto del 50% rispetto al placebo il rischio di un primo sanguinamento di varici. La profilassi non è, però, in grado di prevenire la formazione delle varici e il sanguinamento nei pazienti cirrotici senza varici evidenti. L'efficacia della profilassi sembra essere minore nei pazienti con più grave compromissione epatica e con varici di grandi dimensioni. La scelta del paziente cui proporre la profilassi, del tipo di farmaco e della dose iniziale spetta allo specialista, mentre al medico di medicina generale compete il controllo nel tempo dell'efficacia e della tollerabilità della profilassi.
La dose di beta-bloccante va individuata partendo da una dose molto bassa (20-40 mg/die) per entrambi i farmaci (dando la preferenza al nadololo somministrabile una sola volta al giorno) aumentando gradualmente il dosaggio sino ad ottenere una frequenza cardiaca a riposo compresa tra i 50-60 battiti/min. in assenza di effetti indesiderati importanti (ipotensione, broncocostrizione, scompenso cardiaco e impotenza sessuale). Va utilizzata la dose massima tollerata.
Nitrati
Anche i nitrati sono in grado di ridurre la pressione portale. I risultati dei vari studi clinici controllati sull'isosorbide mononitrato non sono, però, univoci e indicano comunque una efficacia minore rispetto ai beta-bloccanti. L'isosorbide mononitrato (es. Monoket) andrebbe, perciò, utilizzata (20 mg 2 volte al giorno) solo nei pazienti con controindicazioni ai beta-bloccanti.
Beta-bloccanti + Nitrati
In due studi randomizzati, controllati, l'associazione tra isosorbide mononitrato e beta-bloccante ha fornito risultati contrastanti, ragione per cui non è raccomandabile come prima scelta.
In conclusione, tutti i pazienti con cirrosi devono essere sottoposti ad esame endoscopico per documentare la presenza o meno di varici e il rischio di rottura così da individuare e sottoporre a profilassi con beta-bloccanti i possibili candidati. Nei pazienti che non tollerano la terapia farmacologica può essere tentata la legatura transendoscopica delle varici anche se mancano dati convincenti sulla efficacia di questa procedura nel ridurre il rischio di sanguinamento.
La peritonite batterica spontanea
E' una complicanza frequente, ma spesso non diagnosticata o diagnosticata solo con ritardo; la diagnosi, infatti, non può essere posta con certezza su base clinica, ma richiede una paracentesi che documenti la presenza di batteri e una conta leucocitaria elevata (>250/mm3). La positività di queste due indagini, in assenza di altre possibili cause di infezione addominale, conferma la diagnosi che è di stretta pertinenza specialistica. Va detto, però, che la sola conta leucocitaria è sufficientemente accurata nel determinare chi deve essere sottoposto a terapia antibiotica. Il trattamento richiede il ricovero, l'impiego di una terapia antibatterica a largo spettro e l'attento monitoraggio del paziente. L'identificazione dei fattori di rischio che favoriscono la comparsa di una peritonite batterica spontanea (contenuto proteico del liquido ascitico <1 g/dl, presenza di sanguinamento da varici e precedenti episodi di peritonite batterica spontanea) ha indotto a valutare le possibilità di prevenzione con una profilassi antibatterica. Numerosi studi clinici controllati hanno dimostrato l'efficacia della norfloxacina nella prevenzione della peritonite batterica e ne suggeriscono l'impiego a lungo termine, alla dose di 400mg/die per via orale, nei pazienti con ascite a basso contenuto proteico e in quelli con pregresso episodio peritonitico. Sarà cura del medico di medicina generale accertare se sussistono le condizioni per questo uso profilattico e valutarne il rapporto beneficio/rischio. Considerando che il rischio più grande è rappresentato dalla selezione di germi resistenti (in particolare Gram-negativi), per le indicazioni sopra riportate, la profilassi antibatterica ha probabilmente un rapporto beneficio/rischio favorevole. Nel paziente che non tollera la norfloxacina (es. Noroxin), può essere preso in considerazione il cotrimossazolo (es. Bactrim).
L'encefalopatia epatica
L'encefalopatia epatica (o portosistemica) è una grave complicanza, caratterizzata da un insieme di segni e sintomi di tipo psichiatrico e neurologico (es. turbe del sonno, deficit neurologici localizzati, astenia, tremori, iperreflessia) che si aggiungono a quelli tipici della insufficienza epatica grave, quali ittero, ascite, telangectasie, ipotrofia muscolare. La diagnosi, anche se talora problematica, può essere fatta dallo specialista al letto del paziente sulla base del quadro clinico, di specifici tests psicometrici e di alcuni parametri laboratoristici (aumento dell'ammoniemia). Il medico di medicina generale è nelle condizioni di sospettare la complicanza sulla base del quadro clinico e della storia del paziente (che può aver presentato precedentemente altri episodi di encefalopatia), ma in genere ricorre al ricovero per confermare la diagnosi e/o trattare il quadro acuto.
Il trattamento della complicanza acuta consiste nel correggere i fattori precipitanti l'encefalopatia (ipovolemia, emorragie di varici esofagee, ipokaliemia, peritonite batterica spontanea) e nel cercare di ridurre la formazione del principale agente neurotossico cioè l'iperammoniemia.
Un impegno e una responsabilità ben maggiori sono invece da attribuire al medico di medicina generale nella terapia di mantenimento del paziente che presenta episodi ricorrenti di encefalopatia epatica (encefalopatia ricorrente) o una encefalopatia subclinica. In questo caso sarà fondamentale instaurare una terapia cronica specifica volta a prevenire nuovi episodi. Anche se la patogenesi della encefalopatia epatica è poco conosciuta, esiste consenso unanime nel giudicare rilevante l'incremento della concentrazione di ammonio, incremento che è riscontrabile nella grande maggioranza dei pazienti con encefalopatia portosistemica. Il trattamento (terapia e/o profilassi) mira perciò a ridurre e/o inibire la produzione intestinale di ammonio o a incrementare la sua eliminazione, principalmente tramite:
- la correzione dell'ipokaliemia (ove presente), che può aumentare la produzione renale di ammonio;
- l'utilizzo di disaccaridi sintetici come il lattulosio (es. Laevolac EPS) o lattitolo (Portolac EPS) che, somministrati per bocca o per clisma, vengono scissi dalla flora batterica intestinale ad acidi a catena corta che abbassano il pH intestinale riducendo così l'assorbimento dell'ammonio e la sua concentrazione plasmatica. I due disaccaridi vengono impiegati alla dose di 40-60 g/die. Il dosaggio ottimale va, però, ricercato variando la dose in modo da ottenere 2-3 scariche alvine al giorno a pH < 6. I due farmaci sono da considerare tra loro equivalenti, anche se il lattitolo appare meglio tollerato.
Altri possibili interventi teoricamente in grado di ridurre l'assorbimento e/o la produzione di ammonio (antibiotici orali, probiotici, ornitina aspartato e sodio benzoato) non trovano supporto in studi clinici adeguati e non vanno perciò utilizzati. Alla stessa stregua, di incerta efficacia è il trattamento dell'encefalopatia con aminoacidi a catena ramificata che consentirebbero di aumentare la quota proteica della dieta del paziente cirrotico senza compromettere la funzione cerebrale (precipitazione di una encefalopatia).
Conclusioni
Il paziente con cirrosi richiede interventi diagnostici e trattamenti (profilattici e/o terapeutici) i più vari. La patologia è complessa, necessita di competenze specifiche e richiede la stretta collaborazione tra specialista e medico di medicina generale. A quest'ultimo spetta il compito di seguire il paziente affinché rispetti gli indirizzi terapeutici concordati, di cogliere per tempo segni e sintomi che denunciano la presenza di una delle pericolose, gravi complicanze che caratterizzano la storia naturale della malattia e di individuare gli effetti indesiderati della terapia in corso. Lo specialista, invece, deve prestare il proprio intervento per trattare precocemente e al meglio le complicanze cui incorre il paziente cirrotico. Un reciproco, continuo, scambio di informazioni faciliterà il lavoro di entrambi con evidenti benefici per il paziente.
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