Contesto di riferimento
Nell'ambito dei trattamenti e delle strategie utili nella gestione dei soggetti con depressione maggiore i farmaci antidepressivi vengono comunemente impiegati per contrastarne i sintomi più caratteristici, come per esempio la deflessione del tono dell'umore, i sentimenti di autosvalutazione e colpa, i pensieri ricorrenti di morte e l'ideazione suicidaria1. Teoricamente, quindi, una efficace terapia antidepressiva dovrebbe associarsi ad una riduzione, o alla scomparsa, dell'ideazione suicidaria. Se, in termini di salute pubblica, l'uso corretto degli antidepressivi fosse uno strumento di prevenzione del suicidio, ci si dovrebbe attendere che l'aumento drammatico nel consumo di antidepressivi, avvenuto negli ultimi 20 anni in Italia e nella maggior parte dei paesi occidentali, abbia avuto un impatto epidemiologico positivo e rilevante sui tassi globali di suicidio.
L'introduzione degli antidepressivi di seconda generazione, avvenuta verso la fine degli anni ottanta, ha tuttavia generato un certo allarme rispetto al possibile aumento, negli utilizzatori di questi farmaci, di idee di morte e tentativi di suicidio. Nel 1990 sono stati descritti 6 casi di pazienti in trattamento con fluoxetina nei quali emergevano idee suicidarie che, secondo gli stessi autori, potevano essere messe in relazione all'effetto "attivante" della fluoxetina e all'irrequietezza motoria che questo farmaco può causare2.
Queste segnalazioni sono ritornate d'attualità in questi ultimi mesi allorquando un allarme analogo è stato generato in relazione all'utilizzo degli antidepressivi, in particolare la paroxetina, nei bambini e negli adolescenti (vedi nota del Ministero della Salute).
In questa fascia di età gli antidepressivi di nuova generazione sembrerebbero slatentizzare l'ideazione suicidaria in maniera analoga a quanto segnalato agli inizi degli anni novanta negli adulti.
Il trattamento con antidepressivi, dunque, da un lato dovrebbe rappresentare uno strumento per prevenire il suicidio, dall'altro potrebbe indurre esso stesso ideazione suicidaria. La prima questione, ovvero la ipotizzata relazione tra uso crescente di antidepressivi e tassi di suicidio, è stata in questi anni indagata da studi epidemiologici che hanno cercato di mettere in relazione i due fenomeni utilizzando dati nazionali sui consumi di antidepressivi e sui suicidi. La seconda questione, ovvero la ipotizzata slatentizzazione dell'ideazione suicidaria indotta dagli antidepressivi, è stata esaminata raccogliendo le sperimentazioni cliniche controllate e calcolando la frequenza di eventi autolesivi nei soggetti randomizzati agli antidepressivi rispetto ai soggetti randomizzati al placebo. Obiettivo di questo articolo è quello di revisionare criticamente questa letteratura, al fine di trarne indicazioni utili per la pratica clinica quotidiana.
Studi epidemiologici
Una prima informazione rilevante si riferisce all'andamento dei tassi di suicidio nei vari paesi del mondo. Recentemente, sono stati analizzati i dati disponibili a livello mondiale e immagazzinati nel database della Organizzazione Mondiale della Sanità3. I dati si riferivano al periodo compreso tra il 1960 e il 1999, e includevano 47 paesi: 32 in Europa, 2 in Nord America, 5 in America Latina e nei Carabi, 1 in Africa, 5 in Asia e 2 in Oceania. Questa analisi ha evidenziato una riduzione nel tasso di suicidio del 10% per i maschi in Europa (ma non negli USA) nelle ultime due decadi, e una riduzione nelle donne sia in Europa che negli USA. Allo stesso tempo, si è registrato un aumento nei suicidi nei giovani maschi durante gli anni '80 in molti paesi europei, inclusi Regno Unito, Spagna e Italia. E' emersa, inoltre, una differenza di circa 10 volte tra paesi quali la Russia e la Finlandia, che hanno tassi elevati di suicidio, e la Spagna o l'Italia, che hanno tassi sensibilmente più bassi.
In questo contesto di riferimento, caratterizzato da un trend verso la riduzione, seppur moderata, dei tassi di suicidio in molti paesi, si collocano gli studi epidemiologici che hanno valutato l'associazione tra uso di antidepressivi e suicidio.
In Finlandia, nel periodo compreso tra il 1990 e il 1995, l'utilizzo di antidepressivi è aumentato in modo importante, passando da 9,3 dosi definite giornaliere (DDD) a oltre 21 DDD per 1.000 abitanti al giorno. Nello stesso periodo il tasso totale di suicidi si è solo leggermente ridotto, passando da 30 a 27 casi per 100.000 abitanti4.
I dati raccolti in Italia hanno permesso di descrivere l'andamento dei suicidi dal 1988 al 1996, periodo di forte espansione del mercato degli antidepressivi. Nel periodo preso in esame l'utilizzo di antidepressivi è cresciuto da 1.843 a 2.814 confezioni di farmaco per 10.000 abitanti, un aumento di oltre il 50%. Nello stesso tempo, i tassi di suicidio aumentavano moderatamente nei maschi, da 9,8 a 10,2 casi per 100.000 abitanti, e diminuivano moderatamente nelle femmine, da 3,9 a 3,2 casi per 100.000 abitanti. Sebbene in questo studio gli autori non abbiano impiegato alcuna tecnica statistica per mettere in relazione i due andamenti, non si evidenziava alcun impatto positivo sui tassi di suicidio da parte dell'aumento delle vendite di antidepressivi5.
In Islanda, dati recenti hanno mostrato che l'aumento drammatico nella vendita degli antidepressivi non si associava ad alcun decremento nel tasso di suicidio6.
Per quanto riguarda altri paesi nordici, è stata effettuata una analisi dei dati disponibili a livello nazionale nel periodo 1976-1996 per la Svezia, e nel periodo 19901996 per Danimarca, Norvegia e Finlandia7. I tassi di suicidio non correlavano né con il consumo di alcol né con la disoccupazione. Viceversa, sembrava emergere una correlazione tra la diminuzione dei tassi di suicidio, calcolata nell'ordine del 20% nel periodo considerato, e il parallelo aumento nelle vendite di antidepressivi. Stranamente, tuttavia, nelle donne sotto i 30 anni e sopra i 75 anni, in 4 delle 23 aree di studio, i tassi di suicidio rimanevano inalterati nonostante l'incremento nel consumo di antidepressivi. La conclusione era che l'utilizzo di questi farmaci appariva come uno tra i tanti fattori coinvolti nel determinare l'andamento dei suicidi7,8.
Sempre in Svezia, una analisi ha confrontato l'andamento dei suicidi prima e dopo l'introduzione degli antidepressivi inibitori della ricaptazione della serotonina9. Negli uomini le vendite di antidepressivi sono passate da 4,2 DDD/1.000 abitanti al giorno nel periodo 1977-1979 a 21,8 DDD/1.000 abitanti al giorno nel periodo 1995-1997; nelle donne le vendite di antidepressivi sono passate da 8,8 DDD/1.000 abitanti al giorno nel periodo 1977-1979 a 42,4 DDD/1.000 abitanti al giorno nel periodo 1995-1997. Durante gli stessi periodi, i tassi di suicidio sono diminuiti del 30% negli uomini e del 34% nelle donne. Nonostante questi dati sembrino suggerire una relazione tra i due fenomeni, gli autori, nel commento ai propri dati, suggeriscono cautela nel trarre una relazione di causa-effetto, poiché i tassi di suicidio erano in progressivo calo ben prima dell'introduzione degli antidepressivi sul mercato svedese9.
In Ungheria l'analisi dei tassi di suicidio (i più elevati al mondo fino al 1992) ha mostrato un declino progressivo, da 45,9 casi per 100.000 abitanti nel 1984, a 32,1 casi per 100.000 abitanti nel 1998. Questo calo è avvenuto in un contesto sociale in grande evoluzione, caratterizzato, fra l'altro, da un aumento del tasso di disoccupazione di circa sei volte, un aumento di circa il 25% del tasso di alcolismo, un aumento del 21% nel tasso di divorzi, e anche da un aumento significativo del numero di pazienti seguiti nei dipartimenti psichiatrici. Nello stesso periodo, il consumo di antidepressivi, soprattutto di nuova generazione, è aumentato da 2,6 DDD a 12 DDD per 1.000 abitanti al giorno10.
Infine, uno studio recente ha esaminato l'associazione tra consumo di antidepressivi e andamento dei suicidi in Australia nel periodo 1991-200011. Negli anni presi in esame, i tassi di suicidio sono progressivamente diminuiti negli anziani ma aumentavano nei giovani adulti, soprattutto maschi. L'esposizione ai farmaci antidepressivi, sempre nello stesso periodo, era maggiore nelle donne rispetto agli uomini, e aumentava progressivamente. L'analisi statistica degli autori trovava una correlazione tra i due eventi, concludendo in favore di un effetto preventivo sul suicidio esercitato dagli antidepressivi. L'analisi, tuttavia, è stata aspramente criticata per quanto riguarda la metodologia seguita in successivi contributi12.
Studi sperimentali
(vedi Tabella 1)
Nel 1991, in risposta alle segnalazioni aneddotiche di casi di gesti autolesivi in soggetti in trattamento con fluoxetina, la ditta produttrice del farmaco ha rivisto i dati provenienti dalle sperimentazioni verso placebo13. Le conclusioni affermano che "i dati di questi trial non mostrano che la fluoxetina aumenti il rischio di atti o pensieri autolesivi nei pazienti depressi". Questo lavoro ha suscitato accese discussioni. Recentemente14sono stati sottolineati tutti i problemi di quell'analisi, tra cui: nessuno degli studi inclusi era stato disegnato per verificare quel tipo di associazione, il che implica che l'assenza di differenze, teoricamente, potrebbe essere legata allo scarso potere statistico dell'analisi; alcune sperimentazioni incluse erano state respinte dalle agenzie regolatorie statunitensi, e questo mette in dubbio la qualità di tali studi; solo una piccola parte dei soggetti inclusi nelle sperimentazioni della fluoxetina (3.067 su un totale di circa 26.000 pazienti) è stata inclusa nella metanalisi; non si fa menzione del possibile concomitante utilizzo di benzodiazepine per minimizzare l'agitazione causata dalla fluoxetina; infine, i soggetti che interrompono lo studio non sono presi in considerazione, e questo è grave dal momento che le interruzioni erano più frequenti nei soggetti randomizzati alla fluoxetina14.
Nel 2000 sono stati analizzati gli studi clinici controllati sottoposti all'autorità regolatoria statunitense, la FDA, per valutare l'opportunità di continuare ad usare il placebo negli studi sui farmaci antidepressivi15. Come indicatore di esito gli autori hanno utilizzato l'incidenza di suicidi e tentati suicidi, generando in questo modo informazioni utili per capire se l'utilizzo di antidepressivi di nuova generazione induca ideazione suicidaria con maggiore frequenza del placebo. L'analisi includeva quasi 20.000 pazienti con depressione, randomizzati a trattamenti farmacologici con antidepressivi di nuova generazione, farmaci di riferimento e al placebo. In totale, 34 soggetti sono deceduti per suicidio (circa lo 0,8% dei soggetti depressi trattati per 12 mesi). Stratificando questo dato nei tre gruppi, gli autori evidenziano un tasso annuale di suicidi dello 0,4% nei soggetti randomizzati al placebo, dello 0,7% nei soggetti randomizzati al farmaco standard, e dello 0,8% nei soggetti randomizzati agli antidepressivi di nuova generazione. I numeri piccoli dell'evento suicidio non hanno permesso di trarre informazioni certe, anche se, in termini assoluti, i soggetti randomizzati al trattamento farmacologico, con farmaci di vecchia e nuova generazione, commettono quasi il doppio di suicidi rispetto ai soggetti depressi randomizzati al placebo. Ciò è sorprendente se si considera che, per definizione, il trattamento ha come obiettivo la riduzione dell'evento suicidio. Questi dati sono stati successivamente rivisti16 e sono stati espressi in termini assoluti, distinguendo il periodo di washout da quello di trattamento. Gli autori hanno inoltre aggiornato l'analisi includendo informazioni provenienti da altri studi pubblicati. La nuova analisi ha portato a calcolare il rischio di suicidio e di tentato suicidio sotto forma di odds ratio (OR). Il rischio di suicidio nei soggetti in trattamento con antidepressivi di nuova generazione, rispetto al placebo, generava un OR di 4,40; il rischio di suicidio nei soggetti in trattamento con antidepressivi inibitori della ricaptazione della serotonina (inclusa la venlafaxina), rispetto al placebo, generava un OR di 2,46 con un intervallo di confidenza compreso tra 1,6 e 3,7. Secondo gli autori, sebbene non in modo conclusivo, questa analisi suggerirebbe un eccesso di rischio suicidario nei soggetti in trattamento con antidepressivi di nuova generazione16.
In una nuova analisi del database della FDA17 è stata ribadita l'assenza di dati a supporto di un eccesso di rischio suicidario negli utilizzatori di antidepressivi: il tasso annuale di suicidi in coloro che assumevano antidepressivi inibitori della ricaptazione della serotonina era pari allo 0,59%, in coloro che assumevano antidepressivi di vecchia generazione era pari allo 0,76%, e in coloro che assumevano placebo era dello 0,45%. Non si registrerebbe, dunque, alcun eccesso di suicidi negli utilizzatori di antidepressivi. Tuttavia, si potrebbe osservare che, letti in altro modo, questi dati sembrerebbero indicare che l'utilizzo di antidepressivi non sia una strategia utile per prevenire il suicidio, dato che coloro che non assumono questi farmaci non commettono atti di questo tipo più frequentemente di coloro che li assumono17.
Per quanto riguarda l'ideazione suicidaria, i tentativi di suicidio, e i suicidi portati effettivamente a termine nei bambini e negli adolescenti in trattamento con antidepressivi, vi sono dati che hanno generato un certo allarme. E' molto preoccupante "scoprire" dopo tanto tempo, anche da parte della autorità regolatorie, che c'è stato un nascondimento dei dati da parte delle ditte produttrici e che i "grandi" benefici complessivi anche rispetto al placebo sono tutt'altro che solidissimi. La recente segnalazione del Ministero della Salute ha focalizzato l'attenzione sui dati provenienti dalle sperimentazioni in corso con la paroxetina: la proporzione di pensieri di morte e gesti autolesivi nei bambini che assumevano paroxetina era del 3,4% (25/738) mentre nei bambini randomizzati al placebo era del 1,2% (8/647)18,19.
Questi dati sono stati recentemente confermati da una rassegna sistematica delle sperimentazioni pubblicate e non pubblicate, comparsa su Lancet20, nella quale gli autori hanno calcolato un rischio di comportamenti suicidi simile nei bambini che assumevano fluoxetina rispetto a coloro che assumevano placebo (3,6% verso 3,8%); il rischio risultava aumentato nei bambini che assumevano paroxetina rispetto al placebo (3,7% verso 2,5%), in coloro che assumevano sertralina rispetto al placebo (2,6% verso 1,1%), in coloro che assumevano citalopram rispetto al placebo (7,1% verso 3,6%) e infine in coloro che assumevano venlafaxina rispetto al placebo (7,7% verso 0,6%). Sebbene gli ampi intervalli di confidenza di queste stime suggeriscano cautela, questo studio conferma l'importanza della segnalazione del Ministero della Salute e portano alla raccomandazione di non prescrivere farmaci antidepressivi nei bambini e negli adolescenti con sintomi depressivi.
Implicazioni per la pratica clinica
Ad oggi, la letteratura epidemiologica e quella sperimentale non chiariscono con certezza la relazione tra utilizzo di antidepressivi e rischio di suicidio. Ci sono tuttavia alcune considerazioni che vale la pena ribadire e tenere presente nella pratica clinica quotidiana.
In primo luogo, non tutti i soggetti che commettono atti autolesivi soffrono di depressione. Si stima che solo nel 50% dei suicidi portati effettivamente a termine era presente un episodio depressivo. Di questo 50%, solo una piccola frazione, circa il 10%, era in trattamento con antidepressivi. Vi è infatti un importante utilizzo di antidepressivi in soggetti che non soffrono di depressione. Appare di conseguenza piuttosto debole l'ipotesi secondo cui un generico aumento dei consumi di antidepressivi dovrebbe determinare un generico calo nei tassi di suicidio, proprio perché la maggior parte di questi farmaci non sono prescritti a soggetti depressi. Nella pratica ambulatoriale dei medici di famiglia è quindi importante riconoscere che l'evento suicidio rappresenta l'esito finale di una serie di eventi, problemi e situazioni di vita che solo in una certa misura possono essere ricondotti alla depressione (vedi box)21.
Il medico di famiglia, allorquando riconosca in un singolo paziente alcuni dei fattori di rischio elencati nel box, dovrebbe includere nel proprio assessment alcune domande specifiche, come, per esempio: "Ha mai pensato di farsi del male o di togliersi la vita?" In caso di risposta affermativa, si può proseguire con "Ha un piano per farlo?" e, se la risposta è ancora affermativa "Qual è?" Queste domande non dovrebbero essere evitate per il timore di suggerire al paziente l'idea del suicidio. Se un paziente sente di non essere in grado di resistere a un istinto di questo genere, o se il medico è cosciente che un certo tipo di paziente non cercherebbe aiuto prima di farlo, l'intervento psichiatrico diviene di importanza critica. E anche in assenza di rischio immediato, il medico dovrebbe sottolineare al paziente l'importanza di riportare idee suicide, specialmente se diventano più intense o frequenti. Vi sono numerosi studi che hanno messo in evidenza il sollievo soggettivo dei pazienti nel poter discutere con un professionista le proprie idee autolesive, e di come la discussione e condivisione di questi pensieri sia, di fatto, un primo passo per la gestione corretta della situazione.
Per quanto riguarda il ruolo dei farmaci antidepressivi è importante ribadire che, allo stato attuale delle conoscenze, essi devono essere impiegati, assieme agli interventi non farmacologici, nel trattamento degli episodi depressivi. L'episodio depressivo è una condizione clinica piuttosto definita in termini di sintomi, gravità e decorso. Nei soggetti depressi il trattamento accelera la remissione dei sintomi; viceversa, nei soggetti con depressione sottosoglia, minore, lieve e in tutte le circostanze di umore deflesso in assenza di depressione maggiore, l'efficacia degli antidepressivi non è dimostrata. Nella pratica clinica, quindi, vi saranno situazioni chiare, caratterizzate da importanti episodi depressivi, che richiedono un adeguato trattamento, ma anche situazioni meno chiare, dai contorni sfumati, in cui caso per caso sarà necessario valutare pro e contro del trattamento antidepressivo. In questi casi vi deve essere consapevolezza che gli antidepressivi sono gravati da effetti collaterali, e che tra questi vi potrebbe essere agitazione, irrequietezza motoria e, forse, pensieri e atti autolesivi. I dati di vendita degli antidepressivi sembrano viceversa indicare un utilizzo acritico, basato sulla convinzione che "tanto non fanno male" più che su una attenta discussione con il paziente della loro utilità e dei loro limiti5.
Ben diverso è il caso dei bambini e degli adolescenti. Ad oggi non vi sono convincenti prove di efficacia a sostegno dell'utilizzo di farmaci antidepressivi nelle forme depressive che si manifestano in queste fasce di età. Come conseguenza di questa assenza di evidenze, gli antidepressivi non hanno l'indicazione al trattamento della depressione nel bambino e nell'adolescente. I medici di medicina generale e gli psichiatri devono essere quindi consapevoli che tali prescrizioni sono off-label, sono cioè al di fuori delle indicazioni registrate. In aggiunta alla mancanza di dati di efficacia, le recenti segnalazioni di eventi autolesivi suggeriscono di non utilizzare tali farmaci nella gestione di bambini e adolescenti con sintomi depressivi e/o problemi comportamentali.
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