[Quasi] tutto quello che si vorrebbe dire in questo "invito editoriale" è documentato, commentato, discusso nel contributo del gruppo di lavoro sull'utilizzazione degli psicofarmaci nelle RSA, che può considerarsi un po' come il perno attorno a cui si articola questo numero di IsF. L'invito è dunque anzitutto e soprattutto a prendere sul serio, tanto da leggerlo non di fretta, quel testo.
Sperando che l'invito alla lettura "seria" sia preso alla lettera, l'obiettivo di questo editoriale (da leggere dunque dopo l'articolo) è quello di esplicitare che cosa sta al di là delle parentesi quadre che lo aprono. Il "quasi" rimanda di fatto a due riflessioni:
a) sul senso generale dell'etichetta di "atipicità" che continua a qualificare dei farmaci che sono una componente perfettamente integrata, e protagonista, della pratica prescrittiva e del mercato; b) sul se, quanto, come un robusto senso di "atipicità" potrebbe, o addirittura dovrebbe, essere la vera linea guida per la gestione dei pazienti-popolazioni simili a quella su cui qui si richiama l'attenzione (sono molte, infatti, le situazioni clinico-assistenziali che condividono le stesse caratteristiche-esigenze).
a) Gli antipsicotici "atipici" (così chiamati per il loro non-tipico profilo di effetti indesiderati) non hanno nulla di "atipico". Sono farmaci che rispetto ad altri sviluppati-proposti per una stessa indicazione hanno un profilo diverso, nè migliore, nè peggiore, di sicurezza, o di effetti indesiderati.
Il messaggio, neppure troppo implicito, che si voleva veicolare era di fatto quello di una novità complessiva tale da implicare un cambiamento di paradigma nella considerazione del loro ruolo. Una novità vera. Di fatto è largamente condivisa l'opinione che il criterio di riferimento per una novità terapeutica, che è l'efficacia, è tutt'altro che applicabile ai "nuovi" antipsicotici. L'unico che può vantare dati accettabili in questa direzione è di fatto la clozapina, per i sintomi negativi: è noto, però, che questa molecola viene dagli anni '70, quando il suo profilo farmacologico e la sua attività terapeutica, erano parte del "tipico" quadro generale degli antipsicotici: farmaci sintomaticamente efficaci, ma il cui ruolo nel risolvere-gestire strategie terapeutiche è fortemente dipendente dai contesti di "presa in carico" delle patologie-bersaglio. E' stata, e continua ad essere, "atipica" la estensione di uso di questi antipsicotici in contesti di controllo dei disturbi comportamentali dell'età anziana, che non appartengono alla nosologia, nè alle strategie assistenziali della psichiatria. Alcuni dei loro sintomi sono riconducibili a sintomi che caratterizzano alcune situazioni psicotiche: nient'altro.
E' forse tempo dunque - è il primo invito, che non ha ragioni solo formali o linguistiche - di non mantenere l'ambiguità dei termini, sia per la psichiatria, che per la sintomatologia che accompagna i disturbi di comportamento dell'età anziana. E' bene porsi nella condizione -"evidence based"- di avere oggi un gruppo di farmaci che permettono una maggiore flessibilità nella gestione specificamente di pazienti/contesti difficili o che non rispondono alla prima scelta prescrittiva. Maggiore flessibilità significa più, non meno attenzione ai contesti e alle storie. Se così non è, come sembra essere il caso per gli anziani, il profilo di beneficio-rischio si negativizza.
b) Il lavoro che si è invitato a leggere era noto, come strumento di riflessione e presa di distanza nel tempo dalla estensione "dovuta" delle indicazioni "atipiche": per ragionare sui dati, e non sulle affermazioni o l'[assenza di] linee guida. E' "tipico" di molta letteratura che riguarda [soprattutto] gli anziani: i suoi risultati sono [sostanzialmente] ripetitivi rispetto a ciò che è noto: sottolineano che c'è una strada non banale da fare per garantire a queste popolazioni complessivamente fragili un trattamento "appropriato", soprattutto perché non riescono ad essere sufficientemente interessanti-importanti da entrare in una progettualità. La cosa è tutt'altro che strana: è ben difficile essere "appropriati" quando l'"oggetto" dell'intervento non è sostanzialmente conosciuto perché rimasto marginale nella ricerca clinica controllata, non tanto nelle sue manifestazioni sintomatiche, ma nei suoi "esiti", di medio se non di lungo periodo. La psichiatria e la psicogeriatria sono ben note come aree fortemente carenti dal punto di vista della metodologia-adeguatezza-rappresentatività dei trial.L'invito - il secondo, il più importante per le sue possibili implicazioni - è a questo punto molto semplice. Occorre avere il coraggio di una forte "atipicità", culturale, di fondo, di atteggiamento, che possa tradursi in una atipicità operativa: le popolazioni psichiatriche e psicogeriatriche devono essere sottratte da trial farmacocentrici (e da ripetitivi esercizi di verifica di non-appropriatezza), per divenire soggetti di ricerca - sperimentazione che abbiano come obiettivo la valutazione comparativa (per periodi di tempo congruenti con il problema che si tratta) di progetti-percorsi assistenziali aventi come misura d'esito i gradi di autonomia "appropriati". La "atipicità " di cui avere il coraggio è duplice:
1) riconoscere che queste popolazioni hanno bisogno di un'assistenza non-ripetitiva, sostanzialmente palliativa, di contenimento, ma che sia, nel senso più pieno, una assistenza-ricerca: tutte/i questi pazienti sono "marginali" sia nella medicina che nella società. La coincidenza assistenza-ricerca è stata sottolineata come quadro di riferimento per la sperimentazione non-profit, con fini di salute pubblica: la psichiatria e la psicogeriatria dovrebbero essere prioritarie per la applicazione di questo principio che si è tradotto in decreto: sarebbe l'unico modo di rispettare i diritti di soggetti fragili. Non ci sono [molti?] segni che questo si stia verificando. Una scelta "atipica" in questa direzione, sembra dunque avere uno spazio.
2) L'atipicità di una scelta che pone al centro la progettualità e la focalizzazione su esiti di autonomia di vita coincide anche con l'atipicità di considerare i farmaci (tutti "tipici" di un atteggiamento terapeutico sintomatico) come una, non centrale, variabile su cui concentrare l'attenzione. E' anche "atipico" guardare alle RSA con il loro carico di variabilità organizzativa, e di [dis]attenzione ai bisogni di vita non come "territori di nessuno" cui applicare al massimo criteri burocratici di accreditamento. Una ricerca multicentrica molto estesa condotta da infermieri ha dimostrato che la loro marginalità-frammentarietà può essere trasformata in rete di ricerca, produttrice di conoscenza (Luisa Saiani. Epidemiologia dei problemi assistenziali degli anziani e farmacosorveglianza: la costruzione di un protocollo. Assistenza infermieristica e ricerca 2004; 23:1). Anche l'atipicità di lavorare effettivamente insieme - tutte/i coloro che hanno compiti di cura: familiari, personale infermieristico di varie qualificazioni, medici e altri specialisti in una assistenza-ricerca ha solo bisogno di essere adottata. Può darsi che qualche anno di lavoro in questa direzione possa rendere obsoleta la "atipicità" di non dare ai più fragili un "più" di attenzione.