Statine in prevenzione primaria nel diabete di tipo 2
Almeno una persona su 40 è affetta da diabete mellito di tipo 2 e la prevalenza è in aumento1. Questi pazienti sono più a rischio di altri di sviluppare malattie cardiovascolari e di morire a causa delle loro complicanze2-7. Le statine sono utili nella profilassi degli eventi cardiovascolari nei pazienti ad alto rischio, indipendentemente dal fatto che abbiano o meno il diabete, e rappresentano il trattamento standard per la prevenzione secondaria8-14. Nell’articolo discuteremo dell’opportunità o meno di un impiego routinario delle statine in prevenzione primaria delle patologie cardiovascolari nei pazienti con diabete di tipo 2, indipendentemente dalla presenza di altri fattori di rischio.
Il quadro di riferimento Gli studi condotti solo su pazienti diabetici Il Colaborative Atorvastatin Diabetes Study (CARDS), uno studio in doppio cieco, randomizzato, controllato, ha valutato l’efficacia dell’atorvastatina, somministrata al dosaggio di 10mg/die, in prevenzione primaria in 2.838 pazienti con diabete di tipo 2 ed almeno un fattore di rischio addizionale (fumo, microalbuminuria, retinopatia o ipertensione)15. I partecipanti avevano un’età di 40 o più anni (età media circa 62 anni) e un livello di colesterolo LDL £160mg/dl; gli uomini erano il 68%. Lo studio è stato interrotto precocemente (dopo un follow-up medio di 3,9 anni) perché l’atorvastatina ha ridotto in modo evidente il rischio di un evento coronarico acuto, di un intervento di angioplastica e il rischio di ictus [la misura di esito primaria; dal 9,0% al 5,8%; hazard ratio (HR) 0,63; 95% IC 0,48-0,83); numero di pazienti da trattare (NNT) 31]. La riduzione dei livelli di colesterolo LDL è stata maggiore nel gruppo trattato con atorvastatina [diminuzione media di circa 46mg/dl rispetto al gruppo trattato con placebo; 95% IC1,17-1,23; p<0,0001]. Il beneficio in termini di esito primario si manteneva invariato indipendentemente dal fatto che i livelli iniziali di colesterolo LDL fossero superiori o inferiori a 116mg/dl, il valore mediano all’ingresso nello studio.
Il German Diabetes and Dialysis Study (4D), uno studio in doppio cieco, randomizzato, controllato, ha valutato l’efficacia dell’atorvastatina, somministrata al dosaggio di 40mg/die, in 1.255 pazienti con diabete di tipo 2 e nefropatia richiedente una emodialisi di mantenimento (un gruppo di pazienti con un rischio molto elevato di sviluppare una patologia cardiovascolare)16. L’età media dei pazienti era intorno ai 66 anni e il colesterolo LDL di 120mg/dl; gli uomini erano il 54% del campione. Dopo un follow-up medio di 4 anni circa, l’atorvastatina ha abbassato i livelli di colesterolo LDL [in media di 20mg/dl in più rispetto a placebo], ma non ha ridotto la mortalità cardiovascolare, il rischio di eventi coronarici non fatali o di ictus (l’esito primario; 37% con atorvastatina vs. 38% con placebo; p=0,37). Il motivo per cui il trattamento con statine non si è dimostrato efficace in questo gruppo di pazienti ad alto rischio non è chiaro, ma secondo gli autori iniziare il trattamento nei pazienti con nefropatia terminale può essere troppo tardivo ai fini di ridurre il rischio cardiovascolare.
L’Atorvastatin Study for Prevention of coronary heart disease Endpoints in Non-insulin-dependent diabetes mellitus (ASPEN), uno studio randomizzato, controllato, in doppio cieco, ha valutato l’efficacia dell’atorvastatina, somministrata al dosaggio di 10mg/die, in 2.410 pazienti con diabete di tipo 2 e un’età compresa tra 40 e 75 anni17. Originariamente, lo studio era stato impostato come studio di prevenzione secondaria, ma l’aggiornamento delle linee guida per il trattamento della malattia coronarica ha compromesso l’arruolamento. Di conseguenza, il protocollo è stato modificato e sono stati arruolati in prevenzione primaria 1.905 pazienti con pochi fattori di rischio addizionali ed un rischio basso di coronaropatia (età media 60 anni circa; 62% uomini). Il follow-up mediano dello studio era di 4 anni, ma dato che i pazienti in prevenzione primaria sono stati arruolati più tardi, il loro follow-up medio è stato di soli 2 anni. Nel gruppo di pazienti in prevenzione primaria, l’atorvastatina non ha ridotto la mortalità cardiovascolare, l’incidenza di infarto del miocardio non fatale, di ictus non fatale, di ricanalizzazione, di bypass coronarico, di rianimazione per arresto cardiaco, o di ricoveri per aggravamento di angina instabile(la misura di esito primario; 10,4% vs. 10,8%; HR 0,97; 95% IC 0,74-1,28).
Studi che hanno incluso un sottogruppo di pazienti diabetici
L’Heart Protection Study (HPS), uno studio randomizzato, controllato, in doppio cieco, ha valutato l’efficacia della simvastatina, somministrata al dosaggio di 40mg/die, in 20.536 pazienti di età compresa tra 40 e 80 anni con un rischio importante a 5 anni per cardiopatia ischemica, arteriopatia non coronarica, diabete o ipertensione; i maschi erano il 75% del campione18. Lo studio ha incluso 5.963 pazienti diabetici (il 90% con diabete di tipo 2), dei quali 3.982 senza coronaropatia nota18,19. All’ingresso nello studio, in questo gruppo di pazienti i livelli medi di colesterolo LDL erano 130mg/dl. Dopo un follow-up medio di 5 anni, la simvastatina ha ridotto il colesterolo LDL (in media 38mg/dl in più rispetto al placebo) e l’incidenza di un primo evento vascolare maggiore (mortalità coronarica, infarto miocardico non fatale, ictus fatale e non fatale o rivascolarizzazione; la misura di esito primaria: dal 13,5% al 9,3%; p=0,0003; NNT 24), indipendentemente dai livelli di colesterolo LDL iniziali19.
L’Antihypertensive and Lipid-Lowering treatment to prevent Heart Attack Trial (ALLHAT) era uno studio in aperto, randomizzato, controllato, il cui obiettivo era quello di confrontare tra loro classi di farmaci antipertensivi (un diuretico tiazidico, un ACE-inibitore, un calcio-antagonista diidropiridinico, un alfa-bloccante) in pazienti ipertesi con età ³55 anni con almeno un fattore di rischio addizionale; il 51% erano uomini20,21. Nell’ambito di questo studio, il Lipid-Lowering Trial (ALLHAT-LLT) ha randomizzato 10.355 pazienti con una colesterolemia LDL basale di 116-190 mg/dl, media 142mg/dl circa, compresi 3.638 pazienti con diabete di tipo 2, a pravastatina o alla terapia abituale. Dopo 6 anni dall’inizio dello studio, il 70% circa dei pazienti randomizzati a pravastatina ne assumeva 40mg/die, il 7% una dose più bassa e il 23% aveva interrotto il trattamento20. La pravastatina ha abbassato il colesterolo LDL di 15mg/dl in più rispetto al placebo. Non vi è stata alcuna differenza nella mortalità totale a 6 anni (la misura primaria di esito), né per quanto riguarda la totalità dei pazienti arruolati nei due gruppi [rischio relativo (RR) 0,99; 95% IC 0,89-1,11] né nel sottogruppo di pazienti diabetici (RR 1,03; 95% IC 0,86-1,22)20. Diversi fattori potrebbero avere contribuito a ridurre le differenze tra i gruppi. In particolare, nel corso dello studio, sono stati pubblicati i risultati di altri studi sulle statine e un trattamento ipocolesterolemizzante più aggressivo è diventato lo standard di riferimento nella pratica clinica22. Queste circostanze e il fatto che lo studio fosse in aperto, possono spiegare il motivo per cui un quarto circa dei pazienti randomizzati alla “terapia usuale” è passato al trattamento con la statina alla fine dello studio (questo vale sia per il sottogruppo dei pazienti diabetici che per la totalità dei pazienti arruolati) e il colesterolo LDL è diminuito più del previsto nel gruppo randomizzato alla “terapia usuale”20. Inoltre, i pazienti non in trattamento con statine da includere nel gruppo di controllo erano di meno e questo ha ridotto la potenza dello studio22.
L’Anglo-Scandinavian Cardiac Out- comes Trial (ASCOT), uno studio randomizzato, controllato, in doppio cieco, si proponeva di confrontare i “nuovi” regimi antipertensivi (ACE-inibitore più calcio-antagonista diidropiridinico) con i “vecchi” (beta-bloccante più diuretico tiazidico) in pazienti ipertesi (pressione arteriosa >160/100mmHg) di età compresa tra 40 e 79 anni, senza storia di coronaropatia23. La metà circa dei pazienti arruolati (10.305 pazienti, compresi 2.532 con diabete di tipo 2) con una colesterolemia totale £250mg/dl è stata successivamente randomizzata al trattamento con atorvastatina (10mg/die) o a placebo23. Requisito era la presenza di almeno tre fattori di rischio cardiovascolare tra i seguenti: sesso maschile (i maschi erano il 77%), età superiore a 55 anni, fumo, diabete di tipo 2, microalbuminuria o proteinuria, rapporto tra colesterolemia totale e HDL uguale o superiore a 6, storia familiare di coronaropatia prematura; ipertrofia ventricolare sinistra; altre specifiche anomalie dell’ECG; arteriopatia periferica; pregresso infarto o attacco ischemico transitorio. Il braccio statina è stato interrotto prematuramente (dopo un follow-up mediano di 3,3 anni) per evidenza di beneficio: si è verificata una riduzione relativa del 35% della principale misura di esito rappresentata dagli eventi coronarici fatali e dall’infarto miocardico non fatale (riduzione assoluta del rischio dal 3,0% all’1,9%; NNT 91). Nel sottogruppo di pazienti con diabete, l’atorvastatina ha ridotto la colesterolemia LDL di 38mg/dl in più rispetto al placebo, tuttavia non si è avuta alcuna riduzione significativa rispetto all’esito primario (3,6% vs. 3,0%); ma l’analisi statistica non era abbastanza potente.
Metanalisi
Secondo una metanalisi dei dati relativi a 90.056 pazienti arruolati in 14 studi randomizzati, controllati (inclusi CARDS, HPS, ALLHAT e ASCOT), la terapia con statine ha ridotto il rischio di eventi coronarici maggiori (infarto miocardico non fatale, mortalità cardiovascolare) nei diabetici senza malattie vascolari preesistenti (5,4% dei 6.815 pazienti trattati con statine vs. 7,1% dei 6.690 pazienti appartenenti al gruppo controllo; RR 0,74 per ogni 40mg/dl in meno di colesterolo LDL; 95% IC 0,62-0,88; NNT 59)13. La riduzione del rischio per mg/dl in meno di colesterolemia LDL non dipendeva dai livelli di colesterolo LDL iniziali e il beneficio eratanto maggiore quanto più elevata era la riduzione.
Una seconda metanalisi, pubblicata recentemente, ha incluso i dati di 5 studi randomizzati, controllati (inclusi HPS; ALLHAT e ASCOT) che hanno valutato l’efficacia delle statine in prevenzione primaria nei pazienti con diabete di tipo 224. La metanalisi ha dimostrato che le statine producono una riduzione relativa simile del rischio di eventi coronarici maggiori (mortalità per cardiopatia, infarto miocardico non fatale o interventi di rivascolarizzazione) nei pazienti diabetici (RR 0,80; 95% IC 0,71-0,90; NNT 37) e non diabetici (RR 0,79; 95% IC 0,68-0,93; NNT 47). Non è emerso alcun beneficio assoluto significativo per l’impiego in prevenzione primaria nei pazienti diabetici rispetto a quelli non diabetici. Gli autori hanno escluso lo studio CARDS perché i criteri di inclusione prevedevano esplicitamente solo gli studi che avevano arruolato sia pazienti con diabete che senza, poiché l’obiettivo era quello di valutare i benefici di una terapia ipolipidemizzante in entrambi i gruppi di pazienti. Tuttavia, gli autori hanno affermato che “data la sua importanza, abbiamo effettuato un’analisi di sensibilità includendo lo studio (CARDS) nella metanalisi e abbiamo trovato una riduzione del rischio di eventi coronarici maggiori simile per i pazienti diabetici trattati con statine in prevenzione primaria: 23% (da 14% a 31%; p<0,00001) (col CARDS) rispetto al 21% (da 11% a 30%; p<0,0001) senza il CARDS”. L’NNT era di 37, indipendentemente dal fatto che i dati dello studio CARDS fossero o meno inclusi.
Controindicazioni
Le statine sono controindicate in gravidanza e durante l’allattamento25,26. Non dovrebbero essere impiegate nei pazienti che presentano test di funzionalità epatica costantemente alterati o in presenza di epatopatia attiva, in quanto possono causare un aumento dei livelli delle transaminasi epatiche25,26. Dovrebbero essere eseguiti test di funzionalità epatica prima di iniziare il trattamento con una statina, dopo 3 mesi dall’inizio della terapia e, successivamente, a cadenza di 6 mesi per 1 anno26. La terapia dovrebbe essere interrotta se i livelli sierici delle transaminasi superano persistentemente tre volte il limite superiore dell’intervallo di normalità26.
Cosa dicono le linee guida?
In Inghilterra, il National Institute for Health and Clinical Excellence (NICE) raccomanda l’impiego delle statine in prevenzione cardiovascolare primaria nei pazienti con diabete di tipo 2 in cui il rischio cardiovascolare stimato sia almeno del 20% in 10 anni27. Tradizionalmente, il calcolo del rischio cardiovascolare si è basato su “carte” derivate da studi longitudinali come il Framingham, uno studio di coorte condotto su 2.489 uomini e 2.856 donne di età compresa tra 30 e 74 anni senza diagnosi di cardiopatia all’ingresso dello studio, seguiti per 12 anni28. Tuttavia, poiché lo studio ha incluso pochi pazienti diabetici, le valutazioni basate sui suoi risultati possono sottostimare fino al 50% il rischio cardiovascolare nei diabetici29. Le carte più recenti basate sul UK Prospective Diabetes Study (UKPDS) sono specifiche per i pazienti diabetici e si basano su dati relativi ad un numero più elevato di pazienti affetti da questa patologia30,31.
Diversamente dal NICE, le linee guida della Joint British Societies affermano che una valutazione formale del rischio non è necessaria nei diabetici perché hanno tutti un rischio cardiovascolare elevato32. In base a queste linee guida, tutti i pazienti con diabete di tipo 2 e un’età di almeno 40 anni (cioè l’età dei pazienti inclusi negli studi) dovrebbero assumere una statina. Inoltre, raccomandano la terapia con statine nei diabetici di tipo 2 con un’età compresa tra 18 e 39 anni che presentano almeno una delle seguenti complicanze: retinopatia, nefropatia, scarso controllo glicemico (es. livelli di HbA1c superiori al 9%), ipertensione richiedente un trattamento antipertensivo, ipercolesterolemia [colesterolemia ³230mg/dl], quadro indicativo di sindrome metabolica [obesità addominale, livelli di trigliceridi a digiuno >150mg/dl e/o livelli di colesterolo HDL <38mg/dl negli uomini o 46mg/dl nelle donne], storia familiare di morte cardiovascolare prematura in un parente di primo grado. Non è chiaro, però, su quali evidenze si basino le raccomandazioni relative ai pazienti più giovani.
Negli Stati Uniti, secondo il National Cholesterol Education Program e l’American Diabetes Association il diabete di tipo 2 va considerato un “fattore di rischio equivalente alla coronaropatia”33. Ciò significa attribuire al diabete lo stesso peso di una coronaropatia clinicamente manifesta nel determinare il rischio di ulteriori eventi avversi e prevedere, nel diabetico, un trattamento ipolipemizzante aggressivo quanto quello nei pazienti con patologia cardiovascolare nota.
A livello europeo, le linee guida del Third Joint Task Force of European and other Societies on Cardiovascular Disease Prevention in Clinical Practice definiscono i diabetici come pazientiautomaticamente ad alto rischio di evento cardiovascolare fatale34. Questo approccio è sostenuto dai risultati di studi che hanno dimostrato come nei pazienti con diabete di tipo 2, con un’età compresa tra 45 e 64 anni, il rischio di eventi cardiovascolari sia simile a quello di pazienti non diabetici ma con coronaropatia preesistente, dopo aggiustamento per età, sesso, fumo, ipertensione e colesterolemia2,35-37. Uno studio di coorte, retrospettivo, recente, condotto su una popolazione di 379.003 adulti diabetici e 9.018.082 non diabetici, ha indicato che l’età a cui uomini e donne diabetici entravano a far parte della categoria con un rischio cardiovascolare elevato era rispettivamente di 41 e 48 anni2. Nei diabetici di sesso maschile con età ³50 anni, la mortalità per tutte le cause era uguale a quella dei pazienti di sesso maschile che avevano avuto un infarto miocardico nei 3 anni precedenti. Tuttavia, tra gli uomini più giovani e le donne di qualunque età, i diabetici avevano una mortalità più bassa rispetto ai pazienti che avevano avuto un infarto miocardico recente.
Conclusioni
In base ai risultati degli studi pubblicati, nei pazienti con diabete di tipo 2 di età > o = 40 anni e con almeno un fattore di rischio addizionale è utile la prevenzione primaria con una statina. Inoltre, in base ai risultati di studi osservazionali, negli uomini con più di 50 anni, il diabete di tipo 2 comporta lo stesso rischio cardiovascolare dei pazienti di sesso maschile con pregresso infarto miocardico. Per questo motivo, sembra opportuno trattare con una statina entrambi questi gruppi di pazienti diabetici. Non è noto se questo approccio possa rappresentare una misura di prevenzione primaria in altre categorie di diabetici. In questi pazienti, è necessario calcolare il rischio cardiovascolare prima di procedere ad un trattamento con una statina. In particolare, le donne non rientrano nella categoria ad alto rischio fino a 48 anni e, dati i problemi di teratogenicità, nelle donne in età fertile occorre un calcolo del rischio.
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