Ausilia Maione, Antonio Nicolucci Dip. di Farmacologia Clinica e Epidemiologia Consorzio Mario Negri Sud, S. Maria Imbaro
N.d.R. La visibilità e l'importanza clinica, epidemiologica, assistenziale del diabete di tipo 2 rendono lo sviluppo di nuovi approcci farmacologici sempre più rilevante dal punto di vista terapeutico, e, ovviamente, ancor più attraente dal punto di vista del mercato (Nathan DM. Finding new treatments for diabetes - How many, how fast... how good? N Engl J Med 2007; 356: 437-40).
Si è ritenuto utile "fare il punto" sulle tante opzioni farmacologiche:
accentuando gli aspetti comparativi delle indicazioni attuali, delle singole molecole e delle loro combinazioni (vedi soprattutto la Figura sui siti e meccanismo d'azione, e la Tabella comparativa);
sottolineando i più recenti risultati degli studi clinici controllati;
fornendo uno sguardo in avanti con il profilo di molecole ancora non disponibili in Italia, ma in fase di registrazione in Europa.
Al di là delle conclusioni proposte, che rimangono fedeli all'approccio farmacologico, senza entrare nel merito dei percorsi assistenziali, sta a chi legge dare un giudizio sul se e quanto il contributo del versante farmacologico rappresenta, e/o rappresenterà nei prossimi anni, una risposta adeguata alla rilevanza della epidemiologia di questa condizione clinica.
Il diabete di tipo 2 (DM2) è una patologia cronica molto diffusa che rappresenta un serio problema di salute pubblica, data la prevalenza in continua crescita sia nei paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo. Nei prossimi anni lo scenario non è dei migliori, date le previsioni di crescita del 40% dei casi diagnosticati1, con un parallelo aumento del carico assistenziale, legato soprattutto alle complicanze macrovascolari. È pertanto di fondamentale importanza intervenire tempestivamente sul controllo metabolico, modificando innanzitutto le abitudini di vita (aumento dell'attività fisica, riduzione dell'apporto calorico). Tuttavia, poiché la maggior parte dei soggetti con diabete di tipo 2 non riesce a mantenere un adeguato controllo nel tempo, è quasi sempre necessario intervenire farmacologicamente, cercando di controbilanciare i meccanismi alla base del complesso disordine metabolico che caratterizza il DM2. Il DM2 deriva da una ridotta sensibilità dei tessuti periferici (muscoli e fegato) all'azione dell'insulina, che a lungo andare si associa ad un progressivo danno a livello delle cellule-ß pancreatiche e ad una conseguente riduzione nella secrezione insulinica. Questi sono i target fondamentali da tenere presenti nel trattamento del DM2; i farmaci correntemente utilizzati rispondono, infatti, a tre principali modalità d'azione: incremento della secrezione insulinica (secretagoghi), miglioramento della risposta dei tessuti periferici all'insulina (sensibilizzanti all'insulina), riduzione dell'assorbimento di carboidrati (inibitori dell'alfa-glucosidasi).
La Figura schematica che si propone rappresenta in questo senso (insieme alla Tabella comparativa) l'asse portante e la guida di lettura di questo contributo. Secretagoghi Sulfoniluree
Le sulfoniluree rappresentano la prima classe di ipoglicemizzanti orali introdotta in commercio. I primi composti (clorpropamide e tolbutamide) sono stati rimpiazzati da quelli più sicuri ed efficaci di seconda generazione, glibenclamide o gliburide (es. Euglucon 5, Gliboral), glipizide (Minidiab), glimepiride (Amaryl, Solosa), approvati per il trattamento del DM2 sia come monoterapia, che in combinazione ad altri ipoglicemizzanti orali (ad eccezione di altri secretagoghi) o all'insulina. Le sulfoniluree hanno un effetto diretto sulle cellule-ß pancreatiche: attraverso il legame con recettori presenti sulle cellule-ß stimolano la secrezione di insulina, a differenza di quanto avviene fisiologicamente, in maniera indipendente dal livello glicemico presente. Diversi studi clinici randomizzati hanno dimostrato come le sulfoniluree, se confrontate con il placebo, siano in grado di assicurare una riduzione dei livelli di HbA1c pari all'1-2%2. Inoltre, i risultati dello studio UKPDS hanno confermato la loro efficacia e sicurezza a lungo termine nei soggetti con DM2 non obesi (peso <120% del peso ideale)3. Il controllo glicemico è ovviamente migliore nei pazienti che intraprendono la terapia prima che la funzionalità pancreatica sia già gravemente compromessa, quando il numero di cellule-ß, sensibili all'azione secretagoga delle sulfoniluree è più elevato. La terapia si associa frequentemente a due effetti indesiderati ben definiti: l'ipoglicemia e l'incremento di peso. Gli eventi ipoglicemici che si registrano soprattutto negli anziani, con alterazione della funzionalità renale ed in trattamento con le sulfoniluree a più lunga durata d'azione (glibenclamide:12-24 ore), possono essere riconducibili al meccanismo d'azione tipico di questa classe di farmaci. Le sulfoniluree, infatti, stimolano il rilascio di insulina anche quando i livelli di glicemia sono al di sotto del limite soglia (circa 90 mg/dl), che fisiologicamente si associa ad una aumentata secrezione insulinica4. L'incremento ponderale (1-4 kg) deriva dall'aumento dei livelli plasmatici di insulina e dal conseguente effetto anabolizzante4; per questo, nei soggetti obesi con DM2, in cui i livelli insulinemici sono già elevati, le sulfoniluree non vengono considerate farmaci di prima scelta5. Derivati della meglitinide
Il meccanismo d'azione dei derivati della meglitinide, repaglinide (Novonorm) e nateglinide (non disponibile in Italia), è sovrapponibile a quello delle sulfoniluree, dalle quali si distinguono per l'emivita più breve, che si traduce in un'immediata, ma breve, stimolazione della secrezione insulinica pancreatica. Questa rapidità d'azione implica un miglior controllo della glicemia postprandiale rispetto alla glicemia a digiuno ed una riduzione del rischio di ipoglicemia rispetto alle sulfoniluree. I derivati della meglitinide, conosciuti anche come "regolatori della glicemia postprandiale", vengono somministrati prima dei pasti (circa 15 minuti prima) ed assicurano un immediato controllo dei valori glicemici che non supera le 3-4 ore4. Come le sulfoniluree, i derivati della meglitinide consentono di ottenere una riduzione dell'1-2% dei livelli di HbA1c rispetto al placebo6. In due studi randomizzati, in doppio cieco, condotti in soggetti con DM2, nei quali la repaglinide è stata confrontata con la gliburide, i due farmaci sono risultati equivalenti nel mantenere un controllo glicemico adeguato in termini di glicemia a digiuno e di livelli di HbA1c per un periodo di 1 anno7,8. Anche per quanto riguarda la sicurezza della terapia, in particolare per il numero di eventi ipoglicemici, i derivati della meglitinide sono sovrapponibili alle sulfoniluree e non esistono evidenze significative7,8 che dimostrino come l'incremento di peso indotto da repaglinide sia meno marcato rispetto a quello osservato con le sulfoniluree. Pertanto, anche se in alcuni studi i derivati della meglitinide si sono associati ad una frequenza più bassa di eventi ipoglicemici e di aumento ponderale rispetto alle sulfoniluree, mancano ancora studi a lungo termine che confermino questo dato9. Attualmente la repaglinide è approvata in Italia sia come monoterapia, che in combinazione con metformina; l'eventuale associazione con una sulfonilurea non porterebbe alcun vantaggio nell'efficacia, poiché agiscono sul medesimo sito d'azione. La necessità di somministrazioni frequenti, in corrispondenza di ogni pasto (15-30 minuti prima), e i costi più elevati della terapia, a fronte di un'efficacia comparabile alle sulfoniluree, spiegano l'utilizzo di questa classe di farmaci in nicchie ristrette di pazienti con DM2, in particolare in quelli che necessitano di farmaci secretagoghi e che hanno uno stile di vita irregolare nell'organizzazione dei pasti4. Inibitori dell'alfa-glucosidasi
Gli inibitori dell'alfa-glucosidasi sono farmaci antidiabetici che, non essendo assorbiti a livello sistemico (quota di farmaco assorbita <2%), svolgono la loro azione a livello intestinale mediante l'inibizione dell'enzima alfa-glucosidasi, presente sull'orletto a spazzola degli enterociti che rivestono i villi intestinali. In tal modo impediscono all'enzima di scindere i disaccaridi e gli oligosaccaridi in monosaccaridi assorbibili, rallentando così la digestione dei carboidrati e di conseguenza attenuando i picchi glicemici postprandiali4. Appartiene a questa classe di ipoglicemizzanti orali l'acarbose (Glicobase, Glucobay) approvato sia come monoterapia, che in associazione alle sulfoniluree. L'efficacia degli inibitori dell'alfa-glucosidasi è considerevolmente minore rispetto a quella della metformina e delle sulfoniluree, in quanto la riduzione dei livelli di HbA1c è solo dello 0,5-1% rispetto al placebo4. In particolare, in uno studio controllato con placebo, randomizzato, della durata di 1 anno, condotto in soggetti con DM2 già in trattamento con dieta, dieta e metformina, dieta e sulfonilurea, dieta e insulina, le riduzioni dei livelli di HbA1c ottenute con acarbose sono state 0,9%, nel gruppo con dieta da sola; 0,8%, nel gruppo con metformina; 0,9%, nel gruppo con sulfonilurea; 0,4%, nel gruppo con insulina10. Inoltre è stato osservato che l'effetto ipoglicemizzante è maggiore sulla glicemia postprandiale rispetto alla glicemia a digiuno.
Lo studio STOP-NIDDM ha valutato l'efficacia dell'acarbose come strategia preventiva del DM2, dimostrando come possa ridurre del 25% il rischio di progressione dallo stato di IFG (Impaired Glucose Tolerance) a diabete di tipo 2 conclamato11. Gli inibitori dell'alfa-glucosidasi, grazie all'assenza di effetti sistemici, non aumentano i livelli di insulina e non provocano nè ipoglicemia nè aumento di peso. Gli effetti indesiderati più frequenti interessano l'apparato gastrointestinale e derivano dal rallentato transito intestinale dei carboidrati: dolore addominale, diarrea e flatulenza sono spesso per il paziente motivo di interruzione della terapia. Nello studio STOP-NIDDM, il 31% dei pazienti trattati con acarbose ha interrotto la terapia in corso, a fronte del 19% dei pazienti nel gruppo di confronto11. Per la scarsa tollerabilità a livello gastrointestinale, l'efficacia limitata al controllo della glicemia postprandiale e il costo relativamente elevato, gli inibitori dell'alfa-glucosidasi sono indicati come monoterapia solo in quei soggetti con DM2 inadeguatamente controllato da strategie non farmacologiche (dieta ed attività fisica) ed in associazione alle sulfoniluree per il controllo di stati diabetici più avanzati. Sensibilizzatori all'azione insulinica
Il meccanismo d'azione di biguanidi e tiazolidindioni è riconducibile ad un effetto di sensibilizzazione dei tessuti epatici e periferici all'azione dell'insulina. Si tratta, dunque, più che di farmaci ipoglicemizzanti, di euglicemizzanti, in grado di riportare nei valori normali i livelli di glicemia, senza provocare uno stato di iperinsulinemia seguito da ipoglicemia.
Biguanidi
Alla classe delle biguanidi appartengono la fenformina (ritirata dal commercio negli anni '70, per episodi di acidosi lattica), la buformina (non in commercio in Italia) e la metformina (es. generici, Glucophage, Metforal), diventata farmaco di largo utilizzo per il trattamento del DM2. Poiché la metformina non è un farmaco secretagogo, ma sensibilizzatore all'azione dell'insulina endogena, la sua efficacia nel controllo del DM2 dipende dalla presenza di cellule-ß pancreatiche ancora in grado di secernere insulina. In particolare, la metformina riduce l'eccessiva produzione di glucosio a livello epatico (gluconeogenesi), incrementando la sensibilità epatica all'insulina, aumenta la captazione di glucosio da parte dei tessuti periferici (muscoli scheletrici) e riduce la glicogenolisi a livello epatico. Studi randomizzati, controllati con placebo, hanno dimostrato che, al pari delle sulfoniluree, la metformina è in grado di ridurre i livelli di HbA1c dell'1-2%2. Nei confronti diretti con le sulfoniluree, la metformina ha assicurato un controllo glicemico equivalente, ma con meno eventi ipoglicemici e incremento di peso. Nello studio UKPDS 34, nei soggetti in soprappeso, la metformina ha ridotto significativamente le complicanze legate al diabete rispetto alla terapia con sulfoniluree o insulina12, causando un aumento ponderale sensibilmente minore nei soggetti obesi con DM2 rispetto alle sulfoniluree o all'insulina12. I dati di un recente studio osservazionale retrospettivo13, riguardanti il trattamento a lungo termine in soggetti con DM2 non obesi, indicano come la metformina sia in grado di controllare in modo efficace la glicemia non solo nei soggetti obesi (BMI = o > 30 kg/m2), ma anche nei soggetti normali (BMI <25 kg/m2) e in quelli sovrappeso (BMI=25-29,9 kg/m2). L'algoritmo recentemente proposto dall'American Diabetes Association in accordo con la European Association for the Study of Diabetes propone la metformina come farmaco di prima scelta da associare agli interventi sulle abitudini di vita sin dal momento della diagnosi di DM2, a prescindere dal peso corporeo14.
Dopo anni di trattamento con metformina, le cellule-ß pancreatiche riducono la loro capacità secretagoga tanto da rendere necessaria l'aggiunta di altri farmaci per migliorare il controllo glicemico15. La metformina è approvata sia come monoterapia che in associazione alle sulfoniluree e agli altri secretagoghi, ai tiazolidindioni e all'insulina. L'aggiunta di metformina in soggetti già trattati con insulina consente di diminuirne il dosaggio e quindi di ridurre i tipici effetti indesiderati della terapia insulinica, quali l'incremento di peso e gli eventi ipoglicemici. In genere, la metformina si associa ad un'unica somministrazione serale di insulina a lunga durata d'azione (lenta) o ad una duplice somministrazione giornaliera di insulina NPH.
Effetti indesiderati gastrointestinali (dolori addominali, nausea, diarrea, perdita di appetito) interessano più del 50% dei pazienti16. Poiché tali sintomi sono dose-dipendenti, è possibile alleviarne l'intensità diminuendo il dosaggio della metformina; tuttavia, circa il 5% dei soggetti non è in grado di tollerare gli effetti indesiderati del trattamento, indipendentemente dalla dose utilizzata16. Per il rischio ipotetico di acidosi lattica, l'uso della metformina è controindicato in presenza di ridotta funzionalità renale (valori di creatininemia = o > 1,5 mg/dl per gli uomini e = o > 1,4 mg/dl per le donne). I numerosi risultati positivi ottenuti dall'importante studio UKPDS, unitamente al costo non elevato della terapia, fanno della metformina uno degli ipoglicemizzanti più utilizzati. Tiazolidindioni
I tiazolidindioni (TZD), più comunemente conosciuti come "glitazoni", migliorano la sensibilità all'insulina endogena dei tessuti periferici (muscoli scheletrici ed adipe) e del fegato mediante la regolazione dell'espressione genica. Questi farmaci sono dei potenti ligandi per i recettori nucleari denominati PPAR-gamma (Peroxisome Proliferator-Activated Receptor-gamma) che, quando attivati, si legano a specifiche zone sensibili del DNA (PPAR response elements), alterando la trascrizione dei geni che regolano il metabolismo dei carboidrati e dei lipidi17. In particolare i TZD, legando i PPAR-gamma, incrementano l'espressione del trasportatore del glucosio GLUT-4, consentendo così di veicolare il glucosio all'interno delle cellule dei tessuti periferici e del fegato e di ridurne quindi la quota presente nel circolo sanguigno. Una conseguenza diretta del fatto che i glitazonici agiscano a livello molecolare è che la riduzione dei livelli glicemici avviene con un ritardo di circa 10-14 settimane dall'inizio della terapia18. Il primo TZD commercializzato nel 1997, il troglitazone, è stato ritirato nel 2000 per casi di mortalità dovuta a reazione idiosincrasica a livello epatico. I TZD in commercio, pioglitazone (Actos) e rosiglitazone (Avandia), non hanno mostrato epatotossicità come quella evidenziata con troglitazone. I TZD, così come la metformina, non stimolano le cellule-ß pancreatiche a secernere più insulina, ma incrementano l'efficacia e la sensibilità delle ß-cellule all'insulina19. Per questo con i TZD, così come con la metformina, è necessaria la presenza di un'adeguata produzione di insulina endogena per poter ottenere l'effetto anti-iperglicemizzante. Inoltre, poiché i TZD non aumentano i livelli di insulina, il rischio di ipoglicemia è minimo.
In studi randomizzati verso placebo, i TZD hanno mostrato di equivalere alle sulfoniluree e alla metformina nel mantenere un adeguato controllo glicemico e nel ridurre i livelli di HbA1c in soggetti con DM2 (riduzioni di 0,5-1,5%)20. I risultati ottenuti da studi clinici della durata di 16-52 settimane dimostrano che le riduzioni dei livelli di HbA1c raggiunte con pioglitazone sono simili a quelle ottenute con rosiglitazone o glimepiride, non inferiori a quelle osservate con metformina e gliclazide, ma superiori a quelle con acarbose o glibenclamide21. Recentemente, in uno studio di confronto fra rosiglitazone, metformina e gliburide come terapie iniziali in soggetti con DM2 (ADOPT)22, l'incidenza del "fallimento della terapia" (definito come raggiungimento di livelli di glicemia a digiuno >180 mg/dl) dopo 5 anni è stata del 15% con rosiglitazone, 21% con metformina e 34% con gliburide. Tuttavia, la maggiore efficacia del rosiglitazone rispetto alla metformina interessa solo alcuni sottogruppi (soggetti con età > 50 anni e circonferenza vita > 110 cm).
La terapia con TZD si associa ad un incremento di peso comparabile a quello con le sulfoniluree (1-4 kg), come probabile conseguenza della replicazione degli adipociti dovuta alla stimolazione dei PPAR-gamma23. Rosiglitazone e pioglitazone causano ritenzione idrica e riduzione dei livelli di emoglobina e quindi espongono al rischio di edema e anemia. Per questo, prima di iniziare il trattamento, oltre ad una valutazione dei livelli di emoglobina, è bene accertarsi dell'assenza di patologie come lo scompenso cardiaco. Inoltre, nonostante manchino evidenze di epatotossicità, è consigliabile in via precauzionale valutare la funzionalità epatica prima e durante il trattamento con TZD. Per quanto riguarda l'efficacia in termini di protezione cardiovascolare, lo studio PROACTIVE ha messo in luce come in realtà il pioglitazone, se confrontato con il placebo, non sia in grado di ridurre in maniera significativa il rischio di eventi cardio- e cerebrovascolari maggiori (endpoint primario) nei soggetti con DM2 ad elevato rischio cardiovascolare24 ed anzi sia associato ad un'incidenza superiore di casi di scompenso cardiaco.
I TZD sono molto costosi e sono indicati come monoterapia (in Europa solo in caso di controindicazione o di intolleranza alla metformina) o in associazione con metformina o con sulfoniluree. I TZD sono controindicati in associazione all'insulina (con la combinazione è stato osservato un incremento dei casi di edema e scompenso cardiaco)21. Nuove terapie
Circa il 50% dei pazienti trattati con sulfoniluree dopo 5-7 anni di terapia necessita di una terapia insulinica25. Dati come questi dimostrano che la progressiva diminuzione di sensibilità nei soggetti con DM2 all'azione ipoglicemizzante dei farmaci antidiabetici in commercio crea la necessità di nuove alternative terapeutiche in grado di garantire un controllo glicemico più duraturo.
Mimetici dell'incretina
La ricerca si sta orientando verso lo studio degli ormoni secreti a livello gastrointestinale in risposta al consumo di cibo e in grado di influenzare la secrezione pancreatica di insulina. Si tratta di sostanze denominate "incretine", fra cui il GLP-1 (Glucagon-Like Peptide 1) è di rilevante importanza per il controllo glicemico. Il GLP-1, secreto dalle cellule intestinali durante i pasti, è in grado di potenziare la secrezione insulinica glucosio-dipendente, stimolando la crescita e la differenziazione delle cellule-ß pancreatiche e l'espressione dei geni per l'insulina26. Questi meccanismi sono in grado di assicurare normalmente una riduzione dei livelli glicemici postprandiali. Poiché nei soggetti con DM2 vi è ridotta secrezione di GLP-1, l'obiettivo è quello di reintegrare questa carenza. Tuttavia, poiché il GLP-1 dopo esser stato secreto, viene degradato molto rapidamente dall'enzima plasmatico DPP-4 (Dipeptidil Peptidasi-4), è stato necessario sviluppare (liraglutide) o isolare in natura (exenatide) molecole simili al GLP-1, ma resistenti all'azione della DPP-4, o sintetizzare molecole in grado di inibire l'enzima DPP-4 (inibitori della DPP-4).
Exenatide
L'exenatide è un peptide strutturalmente identico all'exendina-4, un peptide che è stato isolato nella saliva di una lucertola del deserto (mostro di Gila). L'affinità per i recettori del GLP-1 è equivalente a quella dello stesso GLP-127, ma a differenza di quest'ultimo, l'exenatide è resistente all'inattivazione della DPP-4. Inoltre viene rapidamente assorbita dopo iniezione sottocutanea, e la sua emivita è di 2,5 ore28.
L'exenatide agisce mediante differenti meccanismi d'azione28: sopprime la secrezione di glucagone e stimola la secrezione di insulina in relazione ai livelli di glicemia circolanti (evitando così picchi ipoglicemici a digiuno e picchi iperglicemici post-prandiali); per questo effetto glucosio-dipendente l'exenatide non influenza l'attività insulinica nei soggetti non diabetici. Inoltre rallenta lo svuotamento gastrico facendo così diminuire la velocità di assorbimento e passaggio in circolo del glucosio. Nell'ambito di studi condotti in vitro e su animali29, è emerso come l'exendina-4 sia in grado di promuovere la proliferazione e differenziazione delle cellule-ß pancreatiche.
Nell'ambito di 3 studi randomizzati di fase III della durata di 30 settimane, è stata esaminata l'efficacia dell'exenatide sottocutanea (5 o 10 g) in soggetti con DM2 senza un adeguato controllo glicemico nonostante già in trattamento con metformina30, con sulfaniluree31 o con l'associazione metformina e sulfaniluree32. Rispetto al gruppo di controllo (placebo), i soggetti in trattamento con exenatide (due volte al giorno, 15 minuti prima dei pasti) hanno mostrato una riduzione significativa dei livelli di HbA1c (da -0.40% a -0.55% con 5 g di exenatide; da -0.77 a -0.86% con 10 g di exenatide; da +0.08% a +0.23% con placebo). Nei soggetti trattati con exenatide è stato osservato anche un maggior controllo dei livelli di glicemia a digiuno e post-prandiali, nonchè una significativa riduzione di peso rispetto al gruppo in trattamento con placebo30-32.
Analisi a lungo termine dimostrano che gli effetti benefici di exenatide osservati sui livelli di HbA1c e sul peso corporeo perdurano anche se il follow-up dei pazienti viene protratto per altri 2 anni28.
Nell'ambito di uno studio randomizzato di fase III della durata di 26 settimane33 è stata esaminata, in soggetti con DM2 senza adeguato controllo glicemico nonostante già in trattamento con l'associazione metformina-sulfaniluree, l'efficacia dell'exenatide come terapia aggiuntiva in alternativa all'insulina glargine. I livelli di HbA1cregistrati con exenatide risultavano comparabili a quelli ottenuti con glargine, a fronte di un minor incremento ponderale associato alla terapia con exenatide (P<0,001).
Per quanto riguarda i dati inerenti la sicurezza del mimetico dell'incretina, nel gruppo in trattamento con metformina30 l'incidenza di eventi ipoglicemici con exenatide era comparabile a quella ottenuta con placebo, mentre per i gruppi in trattamento con sulfaniluree31 o con l'associazione metformina più sulfaniluree32un'incidenza superiore veniva osservata con exenatide vs. placebo. L'effetto collaterale direttamente correlabile con l'utilizzo di exenatide, maggiormente riscontrato in tutti gli studi condotti finora, è la nausea di entità lieve-moderata, che tuttavia tende a ridursi col tempo e che può essere attenuata iniziando la terapia con somministrazioni a basso dosaggio34.
Secondo quanto riportato dalla ditta produttrice di Byetta, di cui l'Emea ha autorizzato l'immissione in commercio nel novembre 2006, l'exenatide35 dovrebbe essere somministrata due volte al giorno al mattino ed alla sera, 60 minuti prima dei pasti. Il dosaggio consigliato per iniziare la terapia con exenatide è di 5 g due volte al giorno; è possibile incrementare il dosaggio fino a raggiungere la dose piena di 10 g due volte al giorno.
Exenatide ad oggi è indicata come terapia aggiuntiva in pazienti con DM2 che, nonostante il trattamento con metformina e/o sulfaniluree, non abbiano raggiunto un controllo glicemico ottimale35.
Liraglutide
La liraglutide è un analogo dell'ormone GLP-1 che, grazie a modificazioni chimiche (acilazione) nella struttura molecolare, è in grado di legarsi in vivo all'albumina sierica e di resistere quindi alla degradazione dell'enzima DPP-4, permettendo di ottenere un'emivita di circa 13 ore36.
Dati ottenuti da studi di fase I e fase II hanno dimostrato che, in soggetti con DM2, liraglutide è in grado di ripristinare la secrezione insulinica glucosio-dipendente, migliorare i livelli di glicemia a digiuno e postprandiali, ridurre la secrezione di glucagone e rallentare lo svuotamento gastrico36.
Studi preliminari dimostrano che una somministrazione giornaliera di liraglutide in soggetti con DM2 assicura un controllo efficace della glicemia e del peso corporeo, comparabile a quello ottenuto con metformina37,38. La terapia con liraglutide generalmente risulta ben tollerata, con un rischio molto basso di eventi ipoglicemici; gli effetti collaterali maggiormente registrati interessano l'apparato gastrointestinale (principalmente episodi di nausea) e sono comparabili a quelli osservati con exenatide36.
Nell'ambito di uno studio randomizzato della durata di sole 5 settimane39, è stato dimostrato che, in soggetti con DM2 già in trattamento con metformina, l'aggiunta di liraglutide è in grado di ridurre i livelli di glicemia a digiuno sia rispetto alla sola monoterapia con metformina (P <0,0001) che all'associazione metformina più glimepiride (P=0,049).
Studi di fase III per valutare l'efficacia e sicurezza a lungo termine della liraglutide sono attualmente in corso. Inibitori della DPP-4
Gli inibitori della DPP-4 sono molecole in grado di inibire l'enzima DPP-4 responsabile della rapida proteolisi dell'ormone GLP-1 e della sua breve emivita (2 minuti). Attualmente sono in studio diversi inibitori della DPP-4; di particolare interesse sono risultati sitigliptina e vildagliptina per i dati ottenuti nell'ambito di studi di fase II.
Studi randomizzati condotti in soggetti con DM2, nei quali l'efficacia della monoterapia con vildagliptina è stata confrontata con quella del placebo, hanno portato alla luce un miglioramento del controllo glicemico in termini di riduzione dei livelli di HbA1c con la somministrazione orale di 50 o 100 mg di vildagliptina al giorno40. Studi di confronto diretto con terapie ipoglicemizzanti hanno dimostrato la non inferiorità della vildagliptina rispetto al rosiglitazone, ma non rispetto alla metformina, in termini di riduzione dei livelli di HbA1c40. Inoltre nei soggetti con DM2, la vildagliptina è risultata in grado di ridurre i livelli di HbA1c quando utilizzata in associazione con metformina. Infatti i risultati ottenuti da uno studio di fase II della durata di 52 settimane, che ha messo a confronto l'associazione di vildagliptina con metformina vs. placebo con metformina, hanno dimostrato che la terapia combinata di vildagliptina più metformina assicura una riduzione dei livelli di HbA1c (P<0,001), una riduzione della glicemia a digiuno (P=0,016), ed un incremento della secrezione insulinica (P=0,018) ad indicare un miglioramento della funzionalità delle cellule-ß pancreatiche41.
Tuttavia studi di fase III in grado di valutare l'efficacia e sicurezza della terapia con vildagliptina a lungo termine sono ancora in corso.
Recentemente negli Stati Uniti è stata approvata la sitagliptina (Januvia) come terapia di supporto alla dieta ed attività fisica nei soggetti con DM2.
Un recente studio randomizzato condotto in soggetti con DM2 ha dimostrato che la sitagliptina (somministrata una volta al giorno, alle dosi di 100 o 200 mg) è in grado di ridurre significativamente (P<0,001) i livelli di HbA1crispetto al placebo (riduzione di 0,8-0,9%), senza provocare nessun incremento ponderale significativo42. Inoltre nell'ambito di un altro recente studio randomizzato è stato dimostrato che in soggetti con DM2 già trattati con metformina e con un inadeguato controllo glicemico, l'aggiunta di sitagliptina (somministrata una volta al giorno, alla dose di 100 mg) rispetto all'aggiunta di placebo era in grado di assicurare una riduzione di 0,65% dei livelli di HbA1c (P<0,001)43. Tuttavia anche per la sitagliptina sono necessari studi ulteriori per dimostrarne l'efficacia e sicurezza a lungo termine.
Gli inibitori della DPP-4 sono risultati ben tollerati; gli effetti collaterali maggiormente registrati in corso di terapia sono mal di testa, rinofaringite e lievi ipoglicemie36. Inoltre a differenza degli altri mimetici dell'incretina, con vildagliptina e sitagliptina non sono state osservate riduzioni significative di peso36. Analoghi dell'amilina Pramlintide
Pramlintide è un analogo iniettabile dell'amilina approvato dall'FDA nel 2005 (Symlin) per pazienti con diabete di tipo 1 e 2 insulino-trattati. L'amilina è un ormone normalmente secreto dalle cellule-ß pancreatiche insieme all'insulina ed è in grado di sopprimere la secrezione postprandiale di glucagone, rallentare lo svuotamento gastrico e ridurre l'appetito44. A differenza dei mimetici dell'incretina, la pramlintide non è in grado di influenzare la secrezione insulinica.
Nei soggetti con DM1 e DM2 la secrezione di amilina è ridotta al pari di quella insulinica; per questo in una simile popolazione l'utilizzo di pramlintide è in grado di reintegrare le funzioni normalmente svolte dall'ormone amilina.
Pramlintide è stata approvata come terapia aggiuntiva in pazienti insulino-trattati con DM1 e DM2, nonostante il ricorso a terapie collaudate come quelle con SU e/o metformina non abbiano raggiunto un adeguato controllo glicemico. I risultati degli studi condotti con pramlintide in soggetti con DM2 hanno dimostrato che è in grado di ridurre i picchi di iperglicemia postprandiali, di ridurre i livelli di HbA1c (0,4-0,6%) e di ridurre il peso (1-2 kg) probabilmente grazie all'azione ritardante sullo svuotamento gastrico45.
Gli effetti collaterali maggiormente riscontrati con pramlintide sono disturbi gastrointestinali ed in particolare nausea, che tuttavia può essere risolta riducendo il dosaggio. Casi di ipoglicemia sono stati registrati nei soggetti in trattamento con insulina e pramlintide, nei quali non erano state preventivamente ridotte le dosi di insulina. Conclusioni
La disponibilità in commercio di un'ampia gamma di farmaci in grado di assicurare un controllo glicemico adeguato nei soggetti con DM2 offre la possibilità di scegliere per ogni paziente la terapia più adeguata, selezionandola in base alle caratteristiche cliniche del paziente e a valutazioni di sicurezza del farmaco. Attualmente la metformina è uno degli ipoglicemizzanti orali più prescritti, in virtù della lunga esperienza clinica, nonché dell'ottimo controllo glicemico a fronte di assenza di incremento ponderale e bassi costi. Per quanto riguarda le sulfoniluree, nonostante siano comunemente associate ad effetti indesiderati rilevanti (ipoglicemia e incremento ponderale), sono ancora ampiamente utilizzate seppur solo dopo un'accurata selezione sia del principio attivo che dei pazienti a cui somministrarlo. I più recenti tiazolidindioni, fra i più costosi in commercio, hanno in parte deluso le aspettative, poiché nessun evidente miglioramento in termini di efficacia ipoglicemizzante è stato ancora dimostrato rispetto alle terapie già in uso, mentre restano ancora dubbi sulla loro sicurezza a lungo termine. Una collocazione diversa è quella dei derivati della meglitinide e degli inibitori dell'alfa-glucosidasi, dotati di un efficacia ipoglicemizzante minore e più specifici nel controllare i livelli di glicemia postprandiale.
Gli ipoglicemizzanti orali finora in uso, tuttavia, non hanno ancora risolto il problema di fondo del DM2, ovvero la progressiva riduzione dell'attività delle cellule-ß pancreatiche. Questo meccanismo rende inutile nell'arco di pochi anni ogni monoterapia farmacologica, e impone, invece, o il ricorso alla terapia combinata di diversi ipoglicemizzanti o l'introduzione della terapia insulinica.
Per continuare ad assicurare un controllo glicemico adeguato anche dopo diversi anni, la ricerca da una parte focalizza il proprio interesse nel realizzare nuove formulazioni che associno in un'unica compressa più agenti ipoglicemizzanti, mentre dall'altra nel provare l'efficacia di nuove molecole.
I nuovi farmaci sembrano offrire una valida alternativa agli ipoglicemizzanti classici, in termini di efficacia e sicurezza ma è ancora prematuro stabilire se esiste un vantaggio effettivo e per questo sono necessari studi randomizzati a lungo termine.
La necessità di nuovi farmaci si associa all'esigenza di modificare l'approccio dei medici nella gestione del diabete, cercando di evitare il cosiddetto fenomeno dell'inerzia clinica che consiste nel procrastinare l'intervento terapeutico nonostante il raggiungimento di parametri clinici "border-line". E' stato dimostrato, infatti, che le modifiche agli schemi di trattamento per il diabete vengono in realtà attuate molto tempo dopo che il paziente raggiunge livelli di HbA1c considerati elevati dalle linee-guida correnti e quindi in grado di aumentare il rischio di complicanze46. L'algoritmo recentemente proposto dall'American Diabetes Association in accordo con la European Association for the Study of Diabetes raccomanda infatti di intervenire tempestivamente sul controllo glicemico, non appena vengano raggiunti livelli di HbA1c = o > 7%14. Bibliografia 1. King H et al. 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