Il ruolo del Ruxolitinib nel trattamento della mielofibrosi
Alessandra Di Lelio CORE Search (Center of Outcomes Research and clinical Epidemiology), Pescara
La recente approvazione dei farmaci a bersaglio molecolare per la mielofibrosi ha totalmente rivoluzionato lo scenario terapeutico di questa patologia.
Il Ruxolitinib, prodotto e studiato da Novartis con il nome commerciale Jakavi, è un inibitore della Janus chinasi con selettività per i sottotipi di questo enzima JAK1 e JAK2.
Il farmaco, a somministrazione orale, è stato approvato dell'FDA (Food and Drug Administration) nel 2011 e dall'EMA (European Medicines Agency) nel 2012 ed è entrato nella pratica clinica dopo solo 5 anni dal primo paziente trattato negli studi clinici, grazie ai significativi risultati ottenuti nel programma di sviluppo.
Nonostante l'entusiasmo con cui questo farmaco è stato accolto nella pratica clinica, il suo utilizzo lascia spazio ad un'ampia visione critica della questione, che vogliamo analizzare in questo articolo.
Jakavi - Novartis Farma
56 cpr 5 mg € 3.283,77 (Prezzo al pubblico)
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Monitoraggio addizionale
Classe H - Farmaco ospedaliero esitabile
Ricetta limitativa non ripetibile
Vendibile al pubblico su prescrizione di centri ospedalieri o di specialisti (ematologo, internista, geriatra) Indicazioni terapeutiche. Indicato per il trattamento della splenomegalia o dei sintomi correlati alla malattia in pazienti adulti con mielofibrosi primaria, mielofibrosi post policitemia vera o mielofibrosi post trombocitemia essenziale. Dosaggio. La dose iniziale raccomandata di Jakavi è di 15 mg due volte al giorno per i pazienti con una conta piastrinica tra 100.000/mm3 e 200.000/mm3 e di 20 mg due volte al giorno per i pazienti con una conta piastrinica >200.000/mm3.
Le informazioni per raccomandare una dose iniziale per i pazienti con conte piastriniche tra 50.000/mm3 e <100.000/mm3 sono limitate.
La dose massima iniziale raccomandata in questi pazienti è di 5 mg due volte al giorno e deve essere incrementata con cautela.
Le dosi possono essere aumentate di un massimo di 5 mg due volte al giorno se l’efficacia è considerata insufficiente e le conte piastriniche e dei neutrofili sono adeguate.
La dose iniziale non deve essere aumentata nelle prime quattro settimane di trattamento e in seguito non più frequentemente a intervalli di 2 settimane.
La dose massima di Jakavi è di 25 mg due volte al giorno.
La mielofibrosi è una malattia mieloproliferativa cronica (negativa per il cromosoma Philadelphia), caratterizzata da fibrosi midollare progressiva ed ematopoiesi extramidollare.
Esistono due forme di mielofibrosi: primaria (o idiopatica), così chiamata perché non è dovuta ad altre malattie o cause esterne; secondaria, evoluzione di un’altra malattia mieloproliferativa cronica, come la policitemia vera o la trombocitemia essenziale.
La mielofibrosi è nota per essere associata alla deregolazione del segnale di JAK1 e JAK2, enzimi che hanno un ruolo fondamentale nella crescita delle cellule ematiche. L'alterazione di questo pathway porta infatti ad una iperattivazione cellulare alla base dell'incontrollata proliferazione delle cellule del sangue, che migrano verso gli organi, tra cui la milza. Si ritiene che la base della deregolazione includa alti livelli di citochine circolanti che attivano la via di JAK-STAT, le mutazioni che aumentano la funzionalità enzimatica come JAK2V617F, e la repressione dei meccanismi di regolazione negativa.
La mielofibrosi si caratterizza per una sintomatologia piuttosto aspecifica (anemia, astenia, perdita di peso, sudorazione notturna, febbre, dolore) tant'è che fino a pochi anni fa spesso si arrivava alla diagnosi in modo quasi “casuale”, passando per un emocromo alterato, oppure semplicemente riscontrando splenomegalia alla palpazione dell'addome.
Dopo la scoperta delle mutazioni genetiche di cui sono portatori questi pazienti, l'OMS ha predisposto e rivisto i criteri diagnostici che permettono di accertare la patologia seguendo un percorso specifico: splenomegalia, alterazioni delle cellule del sangue, alterazioni midollari e molecolari, fino alla biopsia ed allo studio delle mutazioni.
Attualmente, l'unico trattamento potenzialmente curativo è il trapianto di midollo osseo, sconsigliabile però nei pazienti in età avanzata, con performance status scarso e/o con comorbidità proibitive, e per il rischio di mortalità che ne deriva.
È in questo contesto ancora tutto da studiare che va a collocarsi l'approvazione del ruxolitinib.
Il ruxolitinib va ad agire sul meccanismo patogenetico alla base della patologia inibendo gli enizimi JAK, quindi il segnale di JAK-STAT. Di conseguenza la produzione anomala di cellule ematiche è ridotta, con netto miglioramento dei sintomi di malattia. Il farmaco ha cambiato radicalmente la vita dei pazienti con mielofibrosi, che in passato venivano trattati semplicemente controllando i sintomi della malattia, utilizzando quindi farmaci come il cortisone oppure l'eritropoietina, ma ben poco poteva essere fatto per l'ingombro splenico e tutto ciò che ne derivava.
L'efficacia e la sicurezza del ruxolitinib nei pazienti con mielofibrosi sono state valutate in uno studio in doppio cieco e uno studio in aperto: COMFORT-I e COMFORT-II.
COMFORT-I, lo studio randomizzato, in doppio cieco, controllato verso placebo, è stato condotto in 309 pazienti che erano resistenti o non erano candidabili alla terapia disponibile. I pazienti sono stati trattati con ruxolitinib o placebo corrispondente. L’endpoint primario di efficacia era la percentuale di soggetti che ottenevano una riduzione ≥35% del volume della milza dal basale alla settimana 24 misurata mediante risonanza magnetica o tomografia computerizzata. Gli endpoints secondari di efficacia comprendevano la durata del mantenimento di una riduzione ≥35% del volume della milza dal basale, la percentuale di pazienti che avevano una riduzione ≥50% del punteggio totale dei sintomi dal basale alla settimana 24 misurato secondo il diario Myelofibrosis Symptom Assessment Form (MFSAF) v2.0 modificato, la modifica del punteggio totale dei sintomi dal basale alla settimana 24 misurato secondo il diario MFSAF v2.0 modificato, e la sopravvivenza globale.
COMFORT-II, lo studio randomizzato in aperto, è stato condotto in 219 pazienti. I pazienti sono stati randomizzati 2:1 a ruxolitinib verso la migliore terapia disponibile, scelta dallo sperimentatore in modo specifico per ciascun paziente. Nel braccio della migliore terapia disponibile, il 47% dei pazienti ha ricevuto idrossiurea ed il 16% dei pazienti ha ricevuto glucocorticoidi. L’endpoint primario di efficacia era la percentuale di pazienti che raggiungevano una riduzione ≥35% del volume della milza dal basale alla settimana 48 misurata mediante risonanza magnetica o tomografia computerizzata. Un endpoint secondario nel COMFORT-II era la percentuale di pazienti che ottenevano una riduzione ≥35% del volume della milza misurata mediante risonanza magnetica o tomografia computerizzata dal basale alla settimana 24. Endpoint secondario era anche la durata del mantenimento di una riduzione ≥35% dal basale nei pazienti che hanno risposto.
Nel COMFORT-I e nel COMFORT-II, i dati demografici dei pazienti al basale e le caratteristiche della malattia erano comparabili tra i bracci di trattamento.
In entrambi gli studi, una percentuale significativamente più alta di pazienti nel gruppo Jakavi ha raggiunto una riduzione ≥35% del volume della milza dal basale indipendentemente dalla presenza o assenza della mutazione JAK2V617F o dal sottotipo della malattia (mielofibrosi primaria, mielofibrosi post policitemia vera, mielofibrosi post trombocitemia essenziale).
Il ruxolitinib ha dimostrato quindi di agire sulla splenomegalia e sui segni clinici della malattia come prurito, dolore osseo, muscolare e addominale. Questo sicuramente è un grande passo in avanti per quanto riguarda la qualità della vita dei pazienti.
Nonostante l'entusiasmo iniziale con cui il farmaco è stato accolto nella pratica clinica, gli studi COMFORT-I COMFORT-II hanno dimostrato dei limiti sostanziali derivanti proprio dal loro stesso disegno. Come si afferma nell'articolo di Barosi G. et. al. (OncoTargets and Therapy 2015), quando l'obiettivo di un trial è la registrazione di un nuovo farmaco, il disegno dello studio e gli endpoints sono generalmente discussi con le autorità regolatorie quali l'FDA e l'EMA. Ovviamente, questi enti richiedono una misura dell'efficacia del farmaco che sia quantificabile e riproducibile, come ad esempio la riduzione di volume della milza.
Per i trials COMFORT-I e COMFORT-II, tuttavia, il volume della milza misurato con la risonanza magnetica o la tomografia computerizzata non può essere considerato come un endpoint convalidato in quanto nelle MPN-MF la sopravvivenza non è strettamente correlata all'ingombro del clone neoplastico. Inoltre, parte consistente delle morti potrebbe essere non correlata alla malattia. L'utilizzo della riduzione di volume della milza come endpoint primario fa sì, quindi, che i risultati dei trials non siano facilmente trasferibili ai bisogni clinici specifici della maggior parte dei pazienti con MPN-MF.
Oltre a tutto ciò, bisogna sottolineare anche i rischi che il ruxolitinib può comportare, come evidenziato nella relazione pubblica europea di valutazione per Jakavi.
Nei pazienti con mielofibrosi, gli effetti indesiderati più comuni (osservati in più di un paziente su 10) sono trombocitopenia, anemia, neutropenia, infezioni del tratto urinario, sanguinamento, lividi, aumento di peso, ipercolesterolemia, capogiri, mal di testa e aumento dei livelli degli enzimi epatici.
Anemia, trombocitopenia e neutropenia sono effetti strettamente correlati alla dose del farmaco. Infatti prima di iniziare la terapia con ruxolitinib va effettuata una conta ematica completa, inclusa una conta differenziale dei globuli bianchi, che deve essere monitorata come clinicamente indicato, in modo tale da modificare la dose del farmaco se necessario.
Una valutazione critica dell'efficacia e della sicurezza del ruxolitinib è un requisito fondamentale per sviluppare delle linee guida sull'utilizzo del farmaco.
Da un lato, infatti, il ruxolitinib può rappresentare una nuova era nel trattamento della malattia perché può dare un beneficio clinico, anche significativo, in una quota di pazienti con mielofibrosi. Queste evidenze preliminari sono particolarmente importanti se si considera che, ad eccezione del trapianto di cellule staminali, trattamento limitato a pazienti giovani e correlato ad un elevato rischio di complicanze e di mortalità, ad oggi nei pazienti con mielofibrosi nessuna terapia è stata associata in maniera consistente alla stabilizzazione o risoluzione della fibrosi del midollo osseo.
D'altra parte, è anche vero che non tutti i pazienti con mielofibrosi sono candidati a tale terapia e non tutti ottengono un beneficio clinico.
Si può comunque affermare che, se fino a dieci anni fa gli oncoematologi avevano a disposizione solo l’idrossiurea o poco altro per affrontare le malattie mieloproliferative croniche, oggi sono molti i farmaci allo studio e con Jakavi abbiamo il primo specifico per la mielofibrosi.
Le indicazioni fornite dalle agenzie regolatorie e dalle società scientifiche sui pazienti da trattare con ruxolitinib ad oggi sono tuttavia alquanto discordanti.
Una recente ed attenta revisione della letteratura ad opera del gruppo European LeukemiaNet e della Società Italiana di Ematologia (Marchetti M. et al. Leukemia 2016), ha prodotto un articolo particolarmente interessante in cui vengono espresse raccomandazioni “evidence based” per un utilizzo appropriato del ruxolitinib, in relazione al rapporto rischio-beneficio. L'articolo mette in luce l'efficacia del farmaco nel migliorare la sintomatologia associata alla mielofibrosi o la splenomegalia severa in pazienti con malattia a rischio alto o intermedio, non responsiva ad agenti citoriduttivi. Il paper descrive la validità del farmaco anche nei pazienti con importanti sintomi associati alla malattia, adeguatamente quantificati e classificati (pazienti con uno score MPN10 maggiore di 44, o con prurito severo non responsivo alla terapia, oppure con una febbre inattesa o con una perdita di peso inattesa). Nonostante ciò, secondo gli autori, le evidenze che il ruxolitinib possa migliorare la sopravvivenza dei pazienti restano comunque deboli, e la questione ha un impatto clinico importante perché suggerisce che a guidare la scelta terapeutica siano i sintomi e non la prognosi. Dall'articolo emerge anche la mancanza di prove scientifiche a supporto dell'utilizzo del farmaco nei pazienti candidati al trapianto allogenico.
In questo contesto potrebbe essere utile lasciare la porta aperta ad un confronto tra ruxolitinib ed interferone (quest'ultimo è considerato un'alternativa all'idrossiurea nel trattamento delle malattie mieloproliferative) vista la carenza di dati a riguardo in letteratura.
Bibliografia
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- Jakavi – Riassunto delle caratteristiche del prodotto (RCP).
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