La Medicina Generale è una professione molto impegnativa, se si vuol cercare di esercitarla al massimo delle sue potenzialità. Ma se accanto a “centri di eccellenza”, si possono immaginare anche “periferie” di eccellenza, allora è giusto cercare di individuare cosa ne ostacoli la realizzazione e quali siano le specificità qualificanti.
I limiti che emergono nei tentativi di raggiungere risultati ottimali nelle cure e nella tutela della salute sono in parte soggettivi, legati a capacità, conoscenze, impegno e disponibilità dei singoli medici, perciò formazione continua, esperienza e coscienza di ruolo, nelle molteplici componenti che ne fanno parte, sono tutto quello che serve, pur senza dimenticare la sfera di competenza dei Servizi sanitari. Fin qui si rimane nell’ovvio e all’interno della professione, però c’è anche una variabile per così dire “esterna”, che risulta comunque poco controllabile, anche dal medico più impegnato. Come dimostrato da numerosi studi epidemiologici, le condizioni socioeconomiche e culturali dei pazienti (in buona sostanza reddito e grado di istruzione) hanno un rilevante impatto sulla salute, sulla mortalità e sulla prognosi delle maggiori patologie, croniche ma probabilmente anche alcune di quelle acute.
Pazienti svantaggiati sul piano dell’istruzione (e in genere quindi anche su quello socioeconomico) possono prestare meno attenzione alla propria salute, essere scettici sulle raccomandazioni mediche, incostanti o indisponibili nel seguire terapie necessarie, o non essere capaci di comprendere quando bisogna rivolgersi al medico per sintomi allarmanti; possono mantenere abitudini a rischio con maggiore facilità, avere meno spazi di scelta praticabili sull’alimentazione o sull’esercizio fisico. Spesso si chiama in causa l’informazione, ma non è detto che la sua carenza sia l’elemento determinante: la scelta di uno “stile di vita” è un lusso che bisogna potersi permettere, e peraltro l’informazione ha bisogno di essere prima compresa, poi ritenuta pertinente per se stessi dai diretti interessati. Perciò il medico che informi in modo attento (cosa buona e giusta) fa spesso qualcosa che rientra nel paradosso delle “cure inverse”: chi è in grado di recepire un’informazione ne ha probabilmente meno bisogno, o ne ottiene un beneficio aggiuntivo minore rispetto a chi non è neppure in grado di recepirla. È più probabile che “informazione”, in Medicina Generale, si traduca come “fiducia”, e un rapporto di fiducia può contare sicuramente più di discorsi del tipo “è dimostrato che…”, basati su un'autorità della prova scientifica di fatto non riconosciuta.
Altri pazienti si rapportano al loro medico in modo scostante, e allora si tocca con mano quanto è difficile lavorare con chi non rispetta gli appuntamenti, assimila le informazioni e i consigli più stravaganti, mentre diffida dei medici e delle terapie in modo irragionevole; scambia la prevenzione con gli esami e le tecnologie diagnostiche, assillando il medico con continue richieste; segue credenze e comportamenti lontanissimi da un minimo di razionalità. L’impulso di abbandonarli a se stessi, per quanto non accettabile, rischia di essere inevitabile, nella convinzione di non poter fare nulla o di non avere le risorse, specialmente di tempo, per realizzare una presa in carico che abbia qualche probabilità di successo. Chi parte svantaggiato per condizioni socioeconomiche e scarsa istruzione, a volte finisce quindi per aggravarne le conseguenze con comportamenti che mettono in crisi il medico nell’erogazione di un'assistenza adeguata. Oltre a tutto questo, ci sono certo anche le differenze nei contesti di vita, che espongono a rischi indipendenti dalla salute o da qualunque scelta personale. Tant’è che un uragano può causare 4 morti in Florida e 900 ad Haiti, il che ha evidentemente un significato. Ma su questo i medici hanno solo la possibilità di denuncia e di impegno civile.
Il medico consapevole di dover considerare le condizioni di svantaggio socioeconomico e culturale come un fattore di rischio più importante (o almeno altrettanto importante) ad esempio dell’ipertensione arteriosa, del fumo o del diabete, può fare comunque la differenza. Tuttavia si trova privo di metodi adatti alla concreta pratica professionale: non si trova molto nella letteratura scientifica su come perseguire questi obiettivi, e se da un lato è chiara la provenienza socioculturale delle popolazioni che vanno incontro con un'incidenza statisticamente sbilanciata ad esiti patologici in teoria prevenibili, non c’è stato un consistente approfondimento sui percorsi e sulla concatenazione di eventi che si realizzano poi nei singoli pazienti per motivi soggettivi (cioè quelli in teoria meglio affrontabili nel rapporto di cura individuale, come è tipico per i medici). In altre parole, un conto è dire che la prevalenza e mortalità di eventi cardiovascolari, o di alcuni tumori, o di complicanze di patologie croniche, sono maggiori in persone con certe caratteristiche sociali, e un conto è descrivere e capire cosa è successo a partire da quel determinante e nei passaggi intermedi che hanno poi condotto all’evento patologico. Una più accurata epidemiologia descrittiva degli eventi evitabili potrebbe aprire la strada alla costruzione di metodi, o almeno ad una maggiore comprensione dei percorsi che si potrebbero seguire, e questo è un terreno di ricerca pertinente alla Medicina Generale, che finora ha prodotto ben poco in proposito. Altrimenti tutto resta in mano alla professionalità, esperienza e personalità del medico, certo importanti, ma senza sapere come e perché, cioè attraverso quali azioni o omissioni si ha successo o meno.
“I più furbi sono quelli che seguono i consigli del medico: non ti far fregare da chi ti dice che le medicine sono tutte porcherie” - dicevo anni fa ad un paziente analfabeta, obeso, iperteso, fumatore, con altissima colesterolemia, che aveva come unico metodo di sussistenza (a limiti minimi), l’esercizio della furbizia e probabilmente concepiva i rapporti tra le persone in termini di “furbi” e “fregati”. “Prenda le medicine per la pressione: è un ordine!” - dicevo invece ad un pensionato con una passata carriera militare, pure di scarsissima competenza culturale, che probabilmente si era sentito impartire per tutta la vita ordini dai suoi superiori. Può darsi che una sola frase, una parola capace di entrare in sintonia con modi di essere e di pensare, abbiano comportato il successo (peraltro solo sull’aderenza alle terapie) in quei due casi che mi sono rimasti impressi, ma certamente sono molti di più quelli in cui la parola, la frase giusta, non c’era o non l’ho trovata. E del resto il metodo, seppure esiste, non si può certo ridurre a questo, né probabilmente a nessuna singola modalità di relazione o intervento che funzioni da mitica ed agognata soluzione universale per favorire decisioni razionali.
A ben vedere, il concetto di razionalità è però semanticamente ambiguo. In linea generale i medici, uomini di scienza, tendono a considerarla sinonimo di coerenza con acquisizioni scientifiche: è razionale ciò che è scientificamente provato, attraverso metodologie sperimentali o osservazionali che garantiscano le conclusioni, partendo da situazioni standardizzate (ad esempio, in medicina, dalla diagnosi). Come in ogni scienza, quello che conta è la prova. Ma questo vale nella comunità scientifica, che proprio in questo si definisce e caratterizza, mentre nel confronto col paziente, nel contesto (non più “scientifico”) che caratterizza l’esercizio della professione a confronto con la vita reale e non con l’esperimento sterilizzato dalle influenze contestuali, la prova non può più assurgere al rango di unica autorità ammessa: ci sono molte più variabili in gioco.
I pazienti non hanno sempre ragione, ma hanno sempre almeno una ragione alla base delle loro decisioni, e questa andrebbe ricercata e esaminata, quantomeno per definire strategie condivisibili, anche di mediazione. In particolare quando il paziente mette in campo propri valori, propri obiettivi, o altri elementi determinanti del suo giudizio, spesso per nulla irrazionali, ma semplicemente più pertinenti alla sua vita reale. Tentando un’astrazione concettuale, si potrebbe sostenere che i pazienti a volte non si riconoscono (o non del tutto) nella definizione sintetica (generalmente in termini nosografici) che il medico attribuisce loro, e accampano altre ragioni, altre auto-definizioni: lasciare che il paziente si autodefinisca significa inserire la sua agenda in quella del medico e allargare lo sguardo, anziché impegnarsi per convincere il paziente a far propria l’agenda del medico in quanto esperto di scienza. Un ribaltamento di prospettiva certo non facile, ma neppure rivoluzionario per i medici di medicina generale, abituati a definire la loro professione come ambito negoziale, a volte percependo questo (inevitabile) atteggiamento come “caduta” e senza invece approfondirne il senso e le potenzialità innovative.
“Marino, potrebbe essere un infarto… dobbiamo andare in ospedale…” – dicevo una mattina di tanti anni fa ad un anziano agricoltore, semianalfabeta, che viveva da solo nella sua casupola di campagna e mi aveva chiamato per un dolore toracico molto sospetto. Avevo trovato un blocco di branca sinistro all’ECG, e mettendo tutto insieme lo avevo definito come “infartuato”. Ma lui mi oppose “non posso muovermi, ci sono gli animali: il maiale, le galline, i conigli…”. In quel modo non aveva negato la mia definizione, ma ne aveva aggiunte di sue. Non si trattava di un “sospetto infartuato” e basta, ma di un “contadino con un sospetto infarto, che vive da solo e con gli animali nella stalla e nel pollaio”: fatti pertinenti al suo contesto di vita. Non c’era niente da fare (bisogna anche ammettere che spesso non c’è niente da fare), e prendendo atto del suo irrevocabile punto di vista, lo convinsi a farsi aiutare da un vicino, in modo che non facesse sforzi. Non è il racconto di un successo (poteva finire male e sarebbe stata l’ennesima conferma degli esiti dello svantaggio socioeconomico), ma chiarisce forse cosa intendo per lasciare che il paziente si autodefinisca ed introduca quindi elementi di novità di cui tenere conto, non subalterni alla razionalità meramente scientifica. Oggi ha 95 anni e sta bene, in casa di riposo, mentalmente lucido e sereno. Ha avuto le sue ragioni.
La razionalità si declina quindi in modi diversi: bisogna parlare anche un’altra lingua, oltre a quella della scienza, se si vuole sperare in una possibilità di condivisione, anziché in un’obbedienza che nel migliore dei casi sarà di breve durata.
Ci si trova però sempre più spesso di fronte a pazienti che non si possono affatto considerare culturalmente né socialmente svantaggiati, ma con cui non si riescono a condividere decisioni razionali. Ne sono esempio alcuni eventi attuali, come i movimenti contro le vaccinazioni, o le scelte “alternative” in patologie gravi che portano infine ad esiti infausti, ma ci sono stati altri casi nel recente passato, eclatanti per la risonanza e il seguito che hanno avuto, anche se più effimeri.
Qui il discorso si sposta su un piano diverso, a ben vedere per nulla specifico della medicina, perché sembrerebbe un atteggiamento diffuso anche in altri ambiti.
Fatte le debite proporzioni, lo dimostrano avvenimenti di cui si ha notizia ogni giorno: da un lato guerre, migrazioni epocali, crisi economica, ineguaglianze, integralismi e violenze e dall’altro - come risposta - costruzione di muri, fili spinati, proliferare di populismi, antipolitica, razzismo, anche in paesi che sono stati la culla della civiltà.
La sensazione, solo in apparenza paradossale a fronte degli esempi citati, è che la razionalità – nel bene come nel male – sia un modo di essere del potere: lo si vede meglio per contrasto con scelte e comportamenti di chi non lo possiede. In determinate circostanze, il potere può avere poco interesse a promuovere comportamenti e decisioni razionali, ben informate e consapevoli, perché è più conveniente indicare capri espiatori, nemici, screditare gli avversari, o proporre soluzioni semplicistiche (operazioni che, per quanto perverse, sono certamente “razionali” da parte di chi le adotta). A queste condizioni, ci si può perfino permettere di chiamare i cittadini (“il popolo”) ad esprimersi, come è infatti successo. “Parlare alla pancia”, si dice oggi, e i risultati pare ci siano. Persino il Ministero della salute ha fatto inserire sui pacchetti di sigarette immagini che suscitano schifo e paura. Eppure la semplice scritta “Il fumo uccide” sembrava discretamente chiara, e non lasciare eccessivo spazio a diverse interpretazioni. L’ipotesi dovrebbe essere che, se le persone non si lasciano influenzare da messaggi razionali, tanto vale provare con i pugni sulla pancia. Rimane da vedere se si può costruire qualcosa di buono su schifo e paura, o se al massimo si rilancerà la produzione di portasigarette.
Se in politica parlare alla pancia facilita la semplificazione e la polarizzazione (schieramento e senso di appartenenza sono istinti molto coinvolgenti, facili da far emergere), in ambito medico funzionano bene il discredito e la diffidenza verso la medicina cosiddetta ”ufficiale”, se è il caso anche ventilando l’idea di complotti volti a nascondere gravi effetti avversi o cure più efficaci. Non sempre c’è malafede in partenza, è chiaro, ma comunque non si tratta di posizioni scientificamente sostenibili e, a questo punto, poco importa se il ciarlatano è in buona fede o no: interessano le conseguenze oggettive. Sono idee che oggi hanno i mezzi per circolare rapidamente ed ampiamente, e a volte ne sono vittima anche persone che cercano responsabilmente di informarsi, ma che alla fine si perdono quando sarebbero necessarie capacità critiche ed interpretative in campo medico che non possiedono. Non c’è una facile soluzione, ma se la razionalità è un necessario modo di essere del potere, questo non va visto solo in un’accezione negativa: aumentare la capacità di scelte razionali nelle persone, significherebbe conferire loro maggior potere, almeno su se stesse.
Anche su questo non c'è bibliografia di fonte medica a supporto, però viene in mente il Don Milani della scuola di Barbiana.