La politica della ricerca clinica è un aspetto molto importante per salvaguardarne la credibilità perché fissa le regole entro cui tale attività deve muoversi. E' con sentimento ambivalente che registriamo quanto tale tematica sia per fortuna ancora attuale nella letteratura internazionale: da un lato c'è il sottile piacere di apprendere che i problemi esposti negli articoli recenti erano già stati trattati nei nostri editoriali, ma, dall'altro, c'è sconforto nel constatare che non si è ancora tentato di avviarli a soluzione.
Ricerca indipendente
A partire dalle nostre recenti esperienze di ricerca indipendente, nell'editoriale del n. 2 di A&S (2009)1, abbiamo descritto gli inconvenienti, insorti durante l'esecuzione di due studi sugli antiemetici, derivanti dalla normativa vigente che recepisce le direttive europee sulla ricerca clinica. Nell'editoriale "La ricerca indipendente: luci ed ombre"2 è stata ripresa ed ampliata la tematica trattata nell'editoriale pubblicato su OncoNews nell'ottobre 2007. Analoghe considerazioni, sebbene più mirate agli aspetti normativi, sono state pubblicate nella rivista online PLoS3. Tutti concordano sul fatto che la ricerca debba essere condotta nel rispetto delle Good Clinical Practices (GCP), il cui scopo è proteggere i pazienti dalla ricerca non etica:
Le GCP seguono il documento della conferenza internazionale sull'armonizzazione (ICH GCP)4, messo a punto per facilitare la ricerca internazionale sponsorizzata. Il processo di armonizzazione è stato sviluppato in molti anni dall'industria farmaceutica e si applica solo ai prodotti medicinali (farmaci) per uso umano; i trattamenti non farmacologici, come ad esempio gli interventi psicologici e la chirurgia, ne sono esclusi. Le linee-guida ICH sulle GCP danno istruzioni dettagliate sul management dello studio e su come stilare il report finale in modo appropriato per l'industria farmaceutica che voglia registrare un nuovo farmaco presso la FDA o l'EMA. La Direttiva Europea 2005/28/EC, la più recente in tema di GCP, suggerisce che le linee-guida ICH GCP "should be taken into account", e questo sembra più un suggerimento che una prescrizione. Inoltre, la stessa Direttiva stabilisce che la ricerca non commerciale, in quanto condotta da agenzie pubbliche (in senso lato), rende l'applicazione di certe parti delle GCP non necessaria o garantita da altri strumenti, definiti dai singoli stati membri. Purtroppo le ICH GCP sono state approvate in moltissimi paesi europei per tutti gli studi sui farmaci, compresi quelli indipendenti, senza minimamente riflettere sul fatto che tutte le onerose procedure richieste dall'ICH, lungi dall'essere necessarie alla tutela dei pazienti, sono solo deterrenti per la ricerca indipendente, il cui obiettivo non è la registrazione dei farmaci. Anche nell'esperienza inglese, malgrado l'agenzia regolatoria MHRA (Medicines and Healthcare products Regulatory Agency) dica esplicitamente nel suo sito web che l'Inghilterra non accetta come standard legale l'ICH GCP, di fatto "gli aggressivi audit sulla ricerca clinica vengono condotti assumendo tali linee-guida come standard". Come abbiamo già descritto nell'editoriale del n. 2 di A&S1, la conseguenza dell'applicazione della Direttiva Europea è una burocratizzazione esagerata della ricerca indipendente con conseguente crollo del numero degli studi clinici pianificati, netta riduzione dell'arruolamento dei pazienti in tali studi e crescita esponenziale dei costi. L'industria stessa per evitare un tale aggravio di costi ha spostato molta ricerca dall'Europa in paesi esterni alla Comunità Europea. Oggi è necessario riprendere con forza la proposta di alleggerire quanto più possibile il peso burocratico che grava sulla ricerca indipendente. Nel 2005 il gruppo di lavoro dell'Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) sulla ricerca indipendente, coordinato da Fausto Roila, iniziò a lavorare sulla semplificazione delle procedure delle ICH GCP, evidenziando come molte delle Standard Operative Procedures richieste possono essere necessarie all'industria farmaceutica per la ricerca multinazionale, ma sono del tutto inutili ai fini della tutela dei pazienti. Oggi è necessario ed urgente riprendere il lavoro svolto dall'AIOM, cercare di coinvolgere le altre società mediche italiane, le Istituzioni, le associazioni dei pazienti, la pubblica opinione per risolvere questo problema. Ciò in vista anche della prevista revisione della Direttiva Europea che dovrebbe avvenire nel 20105. L'editoriale di Mc Mahon3 suggerisce anche che chi voglia realmente difendere la ricerca indipendente deve utilizzare strumenti legali, denunciando l'inutilità di tutte le procedure burocratiche che appesantiscono ed impediscono la ricerca indipendente, per costringere i politici a ragionare su questi aspetti. Ciò al fine di evitare quello che gli inglesi chiamano il "regulatory creep" cioè l'adattarsi a regole stupide. Certo, non possiamo stare tranquilli; infatti, com'è avvenuto a luglio scorso, il Governo da un lato dice di sostenere la ricerca indipendente e, dall'altro, emana un decreto che costringe ad accendere una polizza assicurativa per tutti gli studi indipendenti6, cancellando così quello che nel decreto applicativo italiano della Direttiva Europea veniva raccomandato, cioè che bastasse l'assicurazione dell'ospedale per la ricerca indipendente. C'è da chiedersi se sia solo sbadataggine o invece la conseguenza di attività lobbystiche di alcune compagnie di assicurazione.
Ricerca sponsorizzata
A fine novembre 2009, sul British Medical Journal è stata pubblicata una controversia inerente l'accettabilità o meno del conflitto di interesse quando un'industria farmaceutica conduce studi sui propri farmaci6,7. La tematica è scottante: quello che avviene di negativo nella ricerca sponsorizzata è la conseguenza di un'organizzazione della ricerca che, una volta pianificata e concordata nelle sue linee essenziali con gli enti regolatori, viene gestita in completa autonomia dall'industria farmaceutica (o dalla CRO da essa prescelta). L'analisi dei dati è fatta in casa (provate a chiedere all'industria il file dati: la risposta è sempre negativa), così come l'interpretazione dei risultati. Spesso, il lavoro viene scritto da un medical writer (che non compare tra gli autori) e firmato da clinici che magari hanno fatto parte dall'advisory board che ha disegnato lo studio, ma che non hanno scritto il lavoro e spesso neanche criticamente analizzato il testo. Tutto ciò determina la presentazione dei risultati nel modo più favorevole all'industria: l'endpoint primario spesso viene presentato dopo altri endpoint più favorevoli, le conclusioni sono spesso strabilianti quando, invece, ad un'analisi critica, i vantaggi dell'uso del nuovo farmaco sono marginali rispetto allo standard già disponibile. Cose, queste, ripetutamente discusse in questa rivista. Nell'articolo del BMJ, Lawton sostiene che se il conflitto di interesse è disvelato chiaramente non è inaccettabile7. Lo studio è concordato con gli enti regolatori che garantiscono l'adeguatezza del disegno (ma fino a che punto, dati i possibili conflitti di interesse dei loro dirigenti e dati alcuni clamorosi recenti esempi?), insistono sulla conduzione secondo le ICH GCP e controllano la qualità degli strumenti prescelti per l'analisi dei dati. Inoltre, sempre secondo Lawton, la qualità dell'analisi sarebbe garantita anche da un imparziale data monitoring committee pagato dall'industria farmaceutica (ma vi risulta che sia sempre così? e, comunque, si tratta pur sempre si soggetti che sono pagati dall'industria). L'accesso alle informazioni sugli studi clinici promossi è aperto a tutti, i risultati degli studi vengono pubblicati sia con risultati favorevoli che sfavorevoli (l'autore non ricorda che tutto questo è stato reso possibile grazie al fatto che le più prestigiose riviste hanno deciso di non pubblicare studi non registrati). Lawton sostiene infine l'impossibilità che una struttura super partes conduca lo studio e che ciò, sebbene possibile, richieda molti anni per la sua organizzazione e costi enormi per mantenerla. Inoltre tale struttura manca dell'esperienza che porterebbe ritardo nell'acquisizione dei risultati con conseguenze negative sulla vita del brevetto. Infine, dopo un così forte investimento, non sono comprensibili le ragioni per cui l'industria farmaceutica dovrebbe cedere la proprietà intellettuale dei dati. Quindi il suggerimento è migliorare l'esistente nonostante i potenziali conflitti di interesse. Dall'altra prospettiva, Goldacre sostiene che l'industria farmaceutica ha un evidente conflitto di interesse: l'obiettivo è vendere farmaci e perciò la sua aspettativa da uno studio è quella di ottenere risultati positivi6. Uno studio sponsorizzato ha una probabilità di avere risultati favorevoli al nuovo prodotto 4 volte superiore rispetto agli studi indipendenti. Perché accade questa distorsione sistematica? Una ragione è che il disegno dello studio è spesso discutibile soprattutto (ma non solo) per l'inappropriatezza del comparator: talvolta il farmaco sperimentale viene confrontato con un farmaco standard somministrato a dosi inadeguate o peggio a dosi più alte aumentando così il rischio di effetti collaterali (ma vi sono anche altri esempi ancor più estremi). Un'altra possibile spiegazione è che, fino a tempi assai recenti, solo gli studi con risultati positivi venivano pubblicati, e per di più su più riviste contemporaneamente. Come abbiamo già sostenuto in diversi editoriali pubblicati su Techne una decina di anni fa, la nostra opinione è che sia giunto il momento di fare ognuno il proprio lavoro: l'industria supporti lo studio finanziariamente. Una struttura pubblica (magari un'emanazione di società scientifiche) sviluppi il protocollo necessario per comprendere il ruolo reale del nuovo farmaco nella pratica clinica, coinvolga tutti i centri possibili per arruolare più rapidamente i pazienti, memorizzi i dati avvalendosi di personale competente delle tematiche affrontate, li elabori in modo indipendente, e provveda all'interpretazione autonoma dei risultati. Francamente, non vediamo ragioni di infattibilità per un simile cambiamento: sarebbe sufficiente costituire queste strutture ed accreditarle in relazione a requisiti di qualità che potrebbero essere definiti anche con il contributo dell'industria. Siamo certi che il risultato, dal punto di vista del paziente (che è quello che conta), sarebbe molto più soddisfacente di quello che oggi ottengono le CRO e sarebbe assai vantaggioso per l'industria in quanto le costerebbe molto meno (potendo così abbassare i prezzi dei nuovi prodotti, pur ottenendo maggiori profitti), naturalmente a condizione che il farmaco che ha sviluppato sia davvero superiore alla terapia standard. Per finire una buona notizia (una volta tanto)! Recependo i tanti stimoli degli scienziati europei, dal 27 novembre 2009 la sede dell'EMA è stata spostata dal Dicastero dell'Industria, dove tanto per non sbagliare i politici Europei l'avevano posizionata pensando fosse la sua sede naturale, al Dicastero della Salute e dei Consumatori: questo dovrebbe spostare l'ago della bilancia a favore dei pazienti rispetto a quanto accaduto finora8.