L'ipoglicemia nel profilo beneficio/rischio degli ipoglicemizzanti orali
Francesco Nonino, Mauro Miselli
Nei pazienti con diabete di tipo 2, quando la sola modifica degli stili di vita non è più sufficiente a mantenere un adeguato controllo metabolico, la metformina rappresenta il farmaco di prima scelta. Numerosi studi clinici condotti su migliaia di pazienti ne hanno evidenziato un rapporto beneficio/rischio molto positivo: in monoterapia è in grado di ridurre il rischio di complicanze microvascolari, è associata a ridotta incidenza di ipoglicemie e non causa aumento del peso corporeo. Nei casi in cui la metformina non consente di raggiungere o mantenere un adeguato target di emoglobina glicosilata (HbA1c), le alternative terapeutiche orali disponibili sono rappresentate da sulfaniluree, metiglinidi (repaglinide), glitazoni e inibitori delle dipeptidil-peptidasi-4 (DPP - 4i). Tra i possibili rischi associati alla terapia con gli ipoglicemizzanti orali il più comune è l’ipoglicemia, la cui frequenza è condizionata da molti fattori, tra cui il tipo di farmaco assunto; classi di farmaci diverse espongono infatti a diversi rischi di sviluppare una ipoglicemia. Clinicamente gli episodi ipoglicemici possiedono uno spettro di gravità molto variabile che va da lievi episodi paucisintomatici che la persona con diabete è in grado di risolvere da sola, fino a importanti segni neurologici e grave compromissione dello stato di coscienza (coma ipoglicemico) potenzialmente fatale. Anche escludendo questi casi di estrema gravità, fortunatamente molto rari, è difficile produrre stime precise sulla incidenza degli episodi ipoglicemici tra le persone con diabete in trattamento con farmaci orali. I singoli studi clinici, infatti, non sempre possiedono caratteristiche metodologiche adeguate a identificare queste differenze, e anche le analisi cumulative dei risultati di più studi non consentono di quantificarle con precisione.
Frequenza e gravità delle ipoglicemieUn primo problema che si presenta ad una analisi della letteratura biomedica è la definizione di ipoglicemia. Negli studi clinici gli episodi ipoglicemici vengono di solito distinti in “gravi” e “lievi” a seconda che le manifestazioni associate al calo di glicemia richiedano o meno l’intervento di terzi per assistere la persona colpita. Questa distinzione, anche se funzionale per la conduzione di uno studio clinico, è molto approssimativa e non consente altro che una valutazione grossolana e imprecisa, sia dal punto di vista qualitativo che numerico. La definizione di ipoglicemia grave consente di identificare una tipologia di eventi abbastanza circoscritta, anche se molto variabile in termini di gravità clinica (la presenza di un “intervento di terzi” può indicare un lieve malore passeggero che si risolve con una visita medica domiciliare, così come un episodio più grave e non rapidamente reversibile che richiede un ricovero ospedaliero). Al contrario, il concetto di “episodio ipoglicemico lieve” può indicare una notevole varietà di manifestazioni cliniche, e soprattutto non è identificabile se non attraverso una segnalazione spontanea del paziente e, se non si accompagna ad una auto-valutazione strumentale della glicemia, diventa particolarmente vaga e approssimativa. Per di più, esaminando la letteratura scientifica, si vede che la definizione di ipoglicemia cambia da studio a studio, e le differenze che più comunemente si riscontrano riguardano proprio la presenza o meno di una verifica strumentale mediante auto-monitoraggio glicemico e la soglia glicemica al di sotto della quale si definisce l’ipoglicemia, spesso molto diversa da uno studio all’altro1. Ciò rende difficile confrontare dati provenienti da studi diversi, soprattutto se si vogliono ottenere delle stime quantitative. Un altro fattore importante è la frequenza con cui le ipoglicemie si verificano tra le persone in terapia con ipoglicemizzanti orali. Poiché gli eventi sono relativamente rari, è necessario disporre di campioni numerosi seguiti per molto tempo prima di poterne osservare un numero che consenta di calcolare stime precise. Gli studi clinici, invece, vengono realizzati con un numero di partecipanti finalizzato a stime di efficacia basate sulle variazioni della glicemia, un evento che si verifica subito dopo l’inizio della terapia, spesso con follow up di durata inferiore a un anno, non adeguati a identificare eventi poco comuni nel corso di una malattia cronica come il diabete. Un modo per superare - almeno in parte - queste incertezze è di fare riferimento a dati relativi alle monoterapie e alle sole ipoglicemie gravi che, essendo definite dalla presenza di un intervento medico, costituiscono un indicatore di esito non condizionato della soggettività di qualsiasi definizione sintomatologica o laboratoristica.
Sulfaniluree e metiglinidiLe sulfaniluree e le metiglinidi (repaglinide) risultano più frequentemente associate alla comparsa di ipoglicemie per il loro specifico meccanismo d’azione (stimolano la secrezione di insulina). L’impatto delle sulfaniluree in monoterapia sulla incidenza delle ipoglicemie totali si può stimare in una differenza nel rischio assoluto tra il 5% e il 10% rispetto a metformina, glitazioni e DDP - 4i2. Il rischio di ipoglicemia varia all’interno della classe ed è massimo con clorpropamide e glibenclamide che hanno una durata d’azione prolungata (sino a 60 ore) rispetto a composti come gliquidone, glipizide e gliclazide che hanno una durata d’azione più breve (massimo 24 ore). Clorpropamide e glibenclamide comportano un aumento del 52% del rischio relativo rispetto alle altre sulfaniluree3,4. L’ipoglicemia causata dalle sulfaniluree a lunga durata d’azione, soprattutto negli anziani con abitudini alimentari irregolari o con copatologie come l’insufficienza renale o epatica, può essere più complessa da trattare della ipoglicemia indotta da insulina5. Una recente revisione sistematica, con relativa metanalisi, di 22 RCT che hanno confrontato le sulfaniluree con i DDP - 4i indica che l’incidenza complessiva di ipoglicemia è compresa tra 5,9% e 10% per l’intera classe; le ipoglicemie gravi hanno interessato solo lo 0,8% dei pazienti6. Tra le sulfaniluree, la gliclazide è risultata la meno frequentemente responsabile di ipoglicemie lievi - moderate (1,4%) e gravi (0,1%)3. La minore propensione a causare ipoglicemia era già emersa in uno studio comparativo della durata di 6 mesi, realizzato su 845 pazienti con diabete di tipo 2, in cui la gliclazide a rilascio modificato in monosomministrazione giornaliera (cessione inizialmente rapida e successivamente costante) si era associata ad una riduzione del 50% dei casi di ipoglicemia lieve rispetto alla glimepride anch’essa in un’unica somministrazione/die (3,7% vs 8,9%), a fronte di un controllo glicemico simile. Nello studio non erano stati osservati episodi di ipoglicemia grave con nessuno dei due farmaci7. Tutte le sulfaniluree presentano un elevato legame con le proteine plasmatiche e il loro spiazzamento dai siti di legame da parte di altri farmaci fortemente legati alle proteine potrebbe essere alla base degli episodi di ipoglicemia grave8. I derivati della metiglinide come la repaglinide (la nateglinide non è in commercio in Italia) sono secretagohi ad azione rapida e ad emivita breve. Quando assunta 15 minuti prima di un pasto, la repaglinide provoca un pronto rilascio di insulina; l’effetto dura per circa 3 ore, all’incirca quanto la durata della digestione. L’incidenza totale di episodi di ipoglicemia con la repaglinide è in linea con quanto osservato con le sulfaniluree (escluse clorpropamide e glibenclamide)2. Una metanalisi Cochrane di 72 RCT che hanno confrontato una sulfanilurea in monoterapia verso placebo o verso altri ipoglicemizzanti orali su più di 22.500 pazienti dimostra che non vi sono differenze significative tra sulfaniluree e metiglinidi nell’insorgenza delle ipoglicemie gravi9. Tra gli studi osservazionali, non sono molti quelli prospettici che hanno operato una distinzione analitica tra diversi gradi di gravità degli eventi ipoglicemici. Uno dei più grandi trial sul diabete mellito tipo 2 mai realizzati, lo UKPDS, ha valutato la frequenza annuale degli episodi ipoglicemici in oltre 5.000 pazienti di età compresa tra 25 e 65 anni trattati con insulina, metformina (se sovrappeso) o sulfaniluree in monoterapia, seguiti per 6 anni. I partecipanti sono stati stratificati sulla base della concentrazione di HbA1c e delle caratteristiche degli episodi ipoglicemici. Escludendo gli episodi transitori che non compromettono l’autonomia funzionale, solamente il 2,5% dei pazienti ha riportato almeno un episodio ipoglicemico all’anno, ma se si considerano solo gli episodi più gravi (che richiedono aiuto di terzi o che richiedono intervento medico, secondo la definizione dello studio) la proporzione diviene molto bassa (0,55%). Come era prevedibile, la frequenza annua degli episodi ipoglicemici è maggiore nei pazienti trattati con insulina (3,8%) rispetto ad altre classi di farmaci (sulfaniluree 1,2%, metformina 0,3%), e nei pazienti con livelli di HbA1c più elevati, che devono fare ricorso a terapie più aggressive per il controllo dei valori glicemici10. L’incidenza di ipoglicemia grave è risultata strettamente correlata alla durata della malattia; nello studio, gli eventi gravi sono comparsi nei pazienti con diabete da oltre 9 anni11. In un altro studio osservazionale retrospettivo, l’unico ad avere stratificato l’incidenza degli eventi per singolo farmaco in uso, tra i 7.687 diabetici seguiti per un anno, i casi di ipoglicemia grave nei pazienti trattati con una sulfanilurea sono stati pari a 0,9 eventi/100 pazienti/anno (vs 0,05% con metformina e 11,8% con insulina)12.
Glitazoni
Se si considerano solamente gli studi randomizzati controllati (RCT) di maggiore durata nei quali il farmaco viene utilizzato in monoterapia, l’incidenza di ipoglicemie gravi con i glitazoni è molto bassa. L’RCT in doppio cieco ADOPT, ha confrontato l’efficacia di rosiglitazione, metformina e glibenclamide, in termini di tempo all’insuccesso del trattamento (“durability”) in 4.360 pazienti di nuova diagnosi. Durante i 4 anni di durata dello studio, eventi ipoglicemici gravi si sono verificati nello 0,1% dei diabetici trattati con rosiglitazone e nello 0,6% di quelli trattati con glibenclamide13. Nello studio PROactive, nel corso di 3 anni di osservazione, l’incidenza di ipoglicemie gravi nei diabetici trattati con pioglitazone è stata dello 0,8% vs 0,5% con placebo14.
DDP - 4i
Un aspetto interessante dei DPP - 4i è il loro meccanismo d’azione non propriamente “ipoglicemizzante”, quanto “anti-iperglicemizzante”. Poiché la loro azione di stimolo alla secrezione insulinica è glucosio-dipendente, questi farmaci determinano un rischio di ipoglicemia inferiore rispetto ad altri ipoglicemizzanti, soprattutto secretagoghi come sulfaniluree e repaglinide. I dati degli RCT hanno confermato che l’uso dei DDP - 4i si associa a una bassa frequenza di ipoglicemie. In una metanalisi di 12 RCT di confronto tra ipoglicemizzanti in monoterapia su oltre 13.800 pazienti, i casi di ipoglicemia grave hanno avuto una incidenza dello 0,09% con un DDP - 4i (6 casi su 6.615 pazienti), 0,06% con metformina (1 caso su 1.647 pazienti), 1,3% con una sulfanilurea (51 casi su 3.873 pazienti), 0% con pioglitazone (nessun caso su 445 pazienti)15. Lo studio SAVOR - TIMI 53 ha confrontato l’incidenza di eventi macrovascolari (decesso, infarto miocardico e ictus) associati ad una strategia terapeutica standard, con una strategia che prevedeva l’aggiunta di saxagliptin rispetto a placebo in pazienti diabetici con una storia di eventi cardiovascolari o ad alto rischio cardiovascolare. Nel braccio saxagliptin si è osservata una incidenza inaspettatamente elevata di episodi ipoglicemici totali (15,3% dei pazienti ha avuto almeno una ipoglicemia vs 13,4% nel braccio placebo) e “maggiori”, che cioè hanno richiesto l’intervento di terzi (2,1% vs 1,7% del braccio placebo), con differenze statisticamente significative in entrambi i casi. Lo studio assume particolare importanza in quanto dotato delle caratteristiche mancanti a tutti gli studi precedenti: le grandi dimensioni (ha arruolato 16.492 pazienti con diabete di tipo 2) e la lunga durata (2,1 anni)16. Revisioni sistematicheLe revisioni sistematiche della letteratura che cumulano i risultati di numerosi singoli studi mostrano che le ipoglicemie gravi, per tutti i farmaci orali per il diabete, sono piuttosto rare, e poiché in molti studi, specie se di durata limitata e/o con campioni poco numerosi, non vengono registrati eventi, non è possibile ottenere stime precise e attendibili. Una revisione sistematica curata dall’Agenzia Sanitaria Canadese1 (con aggiornamento bibliografico al 2009) che ha incluso 49 studi randomizzati controllati con confronti “testa-a-testa” tra farmaci ipoglicemizzanti, mostra che le ipoglicemie gravi (che cioè richiedono un intervento di terzi) rappresentano circa il 2% di tutti gli episodi ipoglicemici, e in 44 su 50 bracci di trattamento valutati il numero di eventi gravi è zero.
Ipoglicemie ed eventi cardiovascolariLa malattia cardiovascolare è la principale causa di decesso nelle persone con diabete e costituisce il principale obiettivo terapeutico dei trattamenti volti a correggere l’iperglicemia. D’altra parte esistono presupposti biochimici e patogenetici che anche le ipoglicemie associate a questi trattamenti potrebbero costituire un fattore di rischio per eventi cardiovascolari. Questo aspetto è di estrema importanza, anche in considerazione del fatto che trattamenti intensivi mirati a uno stretto controllo glicemico non sempre hanno mostrato una riduzione della frequenza di eventi macrovascolari. L’importanza prognostica degli episodi ipoglicemici in relazione alla loro gravità clinica e il possibile legame tra ipoglicemie ripetute e rischio cardiovascolare sono aspetti molto dibattuti in ambito diabetologico. Dato per scontato che una ipoglicemia grave, con necessità di intervento medico, sia un evento da evitare in ogni caso, in molti si chiedono se sia lecito considerare gli episodi ipoglicemici lievi e paucisintomatici come trascurabili e privi di implicazioni prognostiche. Prendendo in esame le evidenze scientifiche a nostra disposizione è necessario fare alcune considerazioni generali, innanzitutto sulle caratteristiche delle popolazioni degli studi: nelle persone con diabete il rischio di eventi ischemici macro - e microvascolari (le principali e più temibili complicanze della malattia diabetica) aumenta con la durata di malattia, parallelamente alla necessità di ricorrere a schemi terapeutici più aggressivi che aumentano il rischio di ipoglicemie. È quindi logico, nelle popolazioni più seriamente interessate dalla malattia, aspettarsi una maggiore frequenza di eventi ischemici e allo stesso tempo una maggiore frequenza di ipoglicemie. Come già accennato precedentemente, le ipoglicemie sono globalmente rare tra i pazienti trattati con farmaci ipoglicemizzanti orali e anche gli eventi cardiovascolari sono poco comuni. Studi prospettici hanno osservato che il 7,2% dei pazienti ad alto rischio dopo 2-3,5 anni16,19 e il 10,6% dopo 5 anni18 presenta un evento cardiovascolare. Ciò rende difficile raccogliere un numero di eventi (ipoglicemici e cardiovascolari) sufficientemente grande da consentire una misura di associazione precisa, a meno di reclutare campioni molto numerosi, seguendoli per periodi lunghi, dell’ordine di anni. Inoltre, la già accennata eterogeneità con cui vengono definiti gli episodi ipoglicemici da studio a studio rende difficile calcolare stime precise, anche facendo ricorso alle metanalisi. L’ipoglicemia acuta determina nell’organismo una risposta adrenergica con effetti sul sistema cardiovascolare, con aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa sistolica e modificazioni della ripolarizzazione cardiaca (soprattutto allungamento dell’intervallo QT). Tali modificazioni, per quanto costituiscano una risposta fisiologica alla ipoglicemia e siano ben tollerate dall’organismo sano, potrebbero precipitare un evento ischemico e perfino una morte improvvisa nella persona con diabete, soprattutto se già portatrice di una cardiopatia ischemica cronica17. Ovviamente non è semplice stabilire con certezza nel singolo caso se un episodio ischemico è stato causato da una improvvisa ipoglicemia, dato che sarebbe necessario un monitoraggio glicemico ed elettrocardiografico del paziente. È possibile d’altro canto esaminare le casistiche e cercare eventuali nessi di associazione tra ipoglicemie ed eventi cardiovascolari su grandi numeri, ma in questo senso i dati sono purtroppo discordanti. I più grandi studi che hanno esaminato la frequenza di eventi cardiovascolari nel diabete (ADVANCE, ACCORD e VADT, con quasi 24.000 pazienti inclusi in totale) mostrano che - rispetto a un approccio clinico meno stringente - uno stretto controllo della glicemia non produce effetti significativi, né sugli endpoint cardiovascolari, né sulla mortalità da cause cardiovascolari, sebbene la frequenza degli episodi ipoglicemici gravi sia stata sensibilmente più elevata in tutti i bracci degli studi sottoposti a un controllo glicemico più rigoroso18-20. Lo studio ACCORD è stato sospeso prematuramente per eccesso di mortalità nel braccio sottoposto a un controllo intensivo della glicemia e una delle ipotesi possibili è che il maggior numero di decessi possa essere stato anche in relazione a una maggiore frequenza di ipoglicemie gravi. La mortalità grezza annuale era più alta tra i pazienti che avevano avuto almeno un episodio ipoglicemico grave rispetto a chi non lo aveva avuto, sia nel braccio sottoposto a management intensivo della glicemia (2,8% vs 1,2%), sia in quello di controllo (3,7% vs 1,0%); tuttavia, considerando in entrambi i bracci solo i pazienti che avevano avuto una ipoglicemia grave, la mortalità era più alta nel gruppo di controllo. Pertanto i ricercatori del gruppo ACCORD hanno concluso che gli episodi ipoglicemici gravi non spiegavano le differenze di mortalità che hanno portato alla interruzione dello studio19,17. Lo studio VADT invece ha mostrato che il verificarsi di un grave episodio ipoglicemico è un importante predittore di decesso per cause cardiovascolari20. Nello studio ADVANCE si è osservata complessivamente una minore incidenza di episodi ipoglicemici gravi rispetto agli altri due studi, e nessuna differenza in termini di mortalità globale o cardiovascolare tra braccio intensivo e braccio standard. Sebbene le ipoglicemie gravi siano state fortemente associate a complicanze micro - e macrovascolari e al decesso (per cause cardiovascolari e non), gli autori non hanno riscontrato uno stretto nesso temporale tra ipoglicemia ed eventi, né un effetto dose-risposta tra gravità della ipoglicemia e il verificarsi dell’evento, pertanto concludono che la ipoglicemia potrebbe essere un marker di vulnerabilità, piuttosto che un fattore causale di esiti cardiovascolari18. Non va dimenticato che in questi studi una sostanziale percentuale di pazienti era sottoposta a terapia con insulina, che comporta un maggior rischio di eventi ipoglicemici rispetto agli ipoglicemizzanti orali. Tuttavia, anche considerando solo gli studi su questi ultimi, i dati non forniscono risposte chiare e univoche. In particolare, i farmaci incretino-simili DPP - 4i, come precedentemente ricordato, presentano un aspetto innovativo rispetto ad altre classi di ipoglicemizzanti orali in relazione al loro meccanismo d’azione “antiiperglicemizzante”, spesso enfatizzato in relazione ad una presunta minore propensione a causare ipoglicemia rispetto ad altri ipoglicemizzanti, soprattutto secretagoghi come sulfaniluree e repaglinide. Due recenti studi randomizzati controllati con placebo, con l’obiettivo di valutare la frequenza di eventi cardiovascolari associata all’aggiunta di alogliptin e saxagliptin alla terapia usuale in pazienti diabetici con storia di eventi cardiovascolari o ad alto rischio cardiovascolare, non hanno dimostrato differenze tra i due gruppi21,16. Inoltre, nel già citato studio SAVOR - TIMI 53, l’uso di saxagliptin si è associato ad una incidenza inaspettatamente elevata di ospedalizzazioni per insufficienza cardiaca (3,5% vs 2,8% nel braccio placebo), il cui meccanismo causale non è chiaro. Tralasciando i dati relativi alle ipoglicemie e considerando l’efficacia dei farmaci studiati, è sconcertante notare come, pur seguendo per lungo tempo un alto numero di pazienti (complessivamente oltre 20.000) ad alto rischio, non si notino differenze riguardo a un endpoint che dovrebbe essere - prima che un indicatore di sicurezza - il principale indicatore di efficacia dei farmaci per la cura del diabete, molto più importante e clinicamente rilevante della variazione della glicemia.
ConclusioniGli episodi ipoglicemici sono il più comune tra i possibili eventi avversi della terapia con tutti i farmaci ipoglicemizzanti utilizzati nel diabete mellito. I farmaci più efficaci nel raggiungere un controllo glicemico ottimale, come ad esempio l’insulina, sono anche quelli con un maggiore rischio di ipoglicemia. Anche per i farmaci ipoglicemizzanti orali, inclusi quelli incretino - simili di più recente introduzione sul mercato, i dati disponibili dagli studi di maggiori dimensioni mostrano che l’evento indesiderato più frequente è la ipoglicemia. Pur mostrando differenze tra una classe e l’altra di farmaci, tali eventi sono globalmente rari, e quelli che richiedono un intervento medico sono estremamente infrequenti, tanto che non è possibile stimare con precisione la loro reale frequenza, pur disponendo di dati su migliaia di pazienti da numerosissimi studi clinici e revisioni sistematiche. Gli episodi ipoglicemici sono più frequenti tra le persone con diabete associato a malattia cardiovascolare ed esistono presupposti biochimici e fisiopatologici per sospettare che il loro ripetersi nel tempo, indipendentemente dalla estrinsecazione clinica, possa danneggiare le cellule miocardiche. Non disponiamo tuttavia di dati epidemiologici sufficienti a stabilire se vi sia un nesso di causa tra ipoglicemie (soprattutto se lievi) ed eventi vascolari ischemici. Dati recenti su popolazioni di grandi dimensioni ad alto rischio cardiovascolare non mostrano differenze a lungo termine nella frequenza di eventi macrovascolari tra pazienti trattati con DPP - 4i e con placebo, pur mostrando una frequenza di episodi ipoglicemici non inferiore a quanto già osservato in altre casistiche. Questo risultato, oltre che come successo in termini di sicurezza, può essere letto come un fallimento nel modificare il principale esito clinico a cui dovrebbe essere mirata la terapia del diabete, facendo nascere il sospetto che la maggiore sicurezza/tollerabilità enfatizzata riguardo ai farmaci di più recente introduzione abbia come controparte una scarsa efficacia sugli esiti clinici, anche a fronte di una efficacia ipoglicemizzante non inferiore a quella dei farmaci di cui già disponiamo. Il rischio di sviluppare ipoglicemia di per sé non è un elemento che può guidare la scelta tra diverse classi di ipoglicemizzanti orali nella terapia del diabete. Tale scelta dovrebbe essere personalizzata sulle caratteristiche del singolo paziente, valutandone il bilancio benefici/rischi in relazione a variabili cliniche, preferenze, stili di vita e aspetti socio - relazionali della singola persona, come ad esempio il tipo di occupazione, fattori sui quali eventuali episodi di ipoglicemia potrebbero avere ricadute individuali molto diverse.
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