L'altra faccia della luna del DSM-5: il punto di vista del clinico
Marco Monari Psichiatria CSM Scalo, DSM AUSL di Bologna
Come auspicavamo, la pubblicazione sul numero scorso di IsF dell’articolo “DSM-5: un farmaco e una diagnosi non si negano a nessuno” e relativo editoriale “DSM-5: una lettura (psichiatrica) obbligatoria per tutte/i coloro che lavorano in/interagiscono con la medicina” ha suscitato l’interesse dei lettori. Fra i vari commenti, abbiamo ricevuto, e volentieri pubblichiamo, questo contributo del Dr. Marco Monari, psichiatra e membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana (SPI), che si occupa da anni dei rapporti con la medicina generale e del trattamento di pazienti con gravi disturbi di personalità.
Intervengo volentieri nel dibattito che riguarda la pubblicazione del DSM-51da un punto di vista che è diverso da quello dei colleghi che mi hanno preceduto2,3, condividendo appieno le preoccupazioni e le perplessità critiche a fronte di questo nuovo sforzo nosografico della psichiatria scientifica americana, le cui influenze sul piano dell’agire clinico, che svilupperò più avanti, paiono orientare verso una proliferazione di diagnosi psichiatriche, con il rischio di un ulteriore aumento della prescrizione di psicofarmaci e di una massiccia medicalizzazione del fisiologico disagio psichico a fronte delle difficoltà della vita. Il rischio è appunto che “una diagnosi psichiatrica e un farmaco non si neghino a nessuno”, come recita il titolo del lavoro dei colleghi. Il punto di vista che propongo deriva da un’esperienza clinica ultratrentennale “sul campo” vissuto in appassionata continuità tra il lavoro psichiatrico pubblico e quello psicoanalitico nello studio privato4. Esso ha a che fare con il tentativo di descrivere le peculiarità all’interno delle quali avviene l’incontro con la sofferenza mentale e con le operazioni mentali necessarie, diagnostiche e non solo, perché lo psichiatra possa cercare di prendersene cura. Quando cominciai a lavorare negli anni ‘80, ricordo che l’uscita del DSM III, e della versione immediatamente successiva III R, destò non solo numerose critiche, in quanto la diagnosi in psichiatria era a quei tempi considerata con diffidenza, ma anche l’aspettativa di un linguaggio comune tra ricercatori e clinici e tra i clinici stessi. Si era allora infatti in un’epoca in cui nei Servizi si fronteggiavano ideologie di cura della malattia mentale opposte ed inconciliabili, dall’antipsichiatria, alla psichiatria solo sociale, solo asilare, solo neurologica, solo farmacologica e solo psicoterapeutica di vario orientamento, prevalentemente psicoanalitica e sistemica. Vorrei fare ora un esempio, seppur datato a quell’epoca, di quale utilità possa avere un orientamento diagnostico largo in psichiatria sul piano della prescrizione farmacologica e della condotta terapeutica conseguente. Allora, nella mia città, la diagnosi di psicosi dissociativa, che indicava genericamente la presenza di sintomi psicotici, ma senza ulteriori specificazioni, era molto frequente nei servizi e nei luoghi di ricovero. Questa diagnosi così imprecisa rischiava di mettere in un unico contenitore diagnostico pazienti con caratteristiche psicopatologiche assai diverse per le quali era indicazione comune prescrivere indifferentemente spesso sovrabbondanti pozioni neurolettiche ed ansiolitiche con forti rischi iatrogeni e di appiattimento psichico. Vigeva infatti una certa diffidenza antipsichiatrica verso il modello medico-farmacologico e i sali di litio e gli antidepressivi triciclici a dosaggi terapeutici erano scarsamente prescritti per le attenzioni mediche necessarie al loro utilizzo. Ricordo con piacere l’insegnamento di Giuseppe Berti Ceroni, che già allora sosteneva con sobria chiarezza diagnostica la differenziazione tra psicosi affettive e schizofrenie, poi confermata nel DSM III, ed un’attenzione medica puntuale al malato, alla sua storia, alla prescrizione dei farmaci - neurolettici nella dose minima efficace, antidepressivi ai dosaggi terapeutici, sali di litio e poche benzodiazepine - ed al preciso monitoraggio dei loro effetti collaterali. Per problemi di spazio non mi è possibile riassumere ora i cambiamenti sociali, organizzativi, culturali, scientifici e terapeutici intervenuti nell’ultimo trentennio che hanno sicuramente modificato, e non solo positivamente, il modo di lavorare dei servizi psichiatrici. L’attività clinica dei servizi territoriali, che erano nati per sostituire gli ospedali psichiatrici e quindi per la cura prevalente delle psicosi, si è però da quell’epoca enormemente sviluppata, all’interno di un lavoro ambulatoriale sempre più intenso. Esso si basa sul modello del gruppo di lavoro multiprofessionale per i casi più gravi e su strategie terapeutiche pensate per ampi e specifici gruppi diagnostici, le “corsie della cura” presenti nei Centri di Salute Mentale più maturi. Esse sono schematicamente costituite dal trattamento delle psicosi schizofreniche, delle patologie affettive cronico - ricorrenti, dei disturbi emotivi comuni e da ultimi, in forma quasi di epidemia sociale negli ultimi 15 anni, dei disturbi borderline di personalità. Se riguardo alla prima “corsia di cura”, i Servizi paiono essersi organizzati e dotati delle necessarie strutture terapeutiche, riabilitative e sociali, lo stesso non può dirsi per quel che concerne altri settori del lavoro clinico. Attualmente, viste le progressive restrizioni di risorse professionali legate alla crisi economica e la numerosità crescente dei pazienti in carico ai Servizi, il rischio di una psichiatria fondata sbrigativamente sul DSM-5, e cioè sulla prescrizione sintomo - specifica dei farmaci conseguenti alle categorie diagnostiche da questo indicata, appare realistico. Al contrario sottolineo lo sforzo necessario di accostare, tenere insieme, integrare le componenti biopsicosociali5 della malattia mentale (senza trattini per sottolineare la loro ineludibile contiguità e continuità). E ancora lo sforzo di tenere insieme, nelle peculiarità personali del paziente, le evidenze di efficacia degli psicofarmaci, delle psicoterapie e dei trattamenti, le linee guida e l’apporto delle neuroscienze. Tuttavia all’interno di questa dimensione, anche la semplice prescrizione di un farmaco, dalla sua scelta alla sua proposta, tenendo conto della disponibilità del paziente e dei suoi famigliari ad assumerlo, agli aspetti informativi ed educativi, agli esami medici o alle indagini necessarie, prescritte in autonomia o in collaborazione con il medico di famiglia, rappresenta un’operazione altamente complessa. Essa richiede un’attenzione non solo all’azione biologica del farmaco, alla sua indicazione e ai possibili effetti collaterali, ma soprattutto alla dimensione psicologica del paziente, all’effetto placebo e nocebo6, e persino alla disposizione emotiva del prescrittore nei confronti del paziente7. Rimando ad altri testi per una storia delle ondate riduzionistiche (i modelli psicofarmacologici e genetici della mente, le evidenze neurobiologiche del neuroimaging, l’ordine biostatistico e il primato delle “evidenze”, l’approccio esclusivamente fenomenologico o psicoanalitico), che si sono succedute, abbattute?, nell’ambito della psichiatria4,6. Segnalo tuttavia che anche il DSM-5 corre il rischio di diventare una sorta di vademecum dello psichiatra moderno con una ipersemplificazione diagnostica e farmacologica, come se fosse solo il paradigma tecnologico, un altro riduzionismo!, a dover guidare la pratica clinica. A questo proposito, un gruppo di ricercatori anglosassoni8 si chiede quali siano le doti del bravo psichiatra moderno che rischia, visto il clima culturale in cui si è sviluppato il DSM-5, di divenire una sorta di neuroscienziato clinico paradossalmente sprovvisto di mente e di cultura, mentre pare sempre più evidente, questa è la loro tesi, che alle conoscenze biologiche debba affiancare competenze “che vanno oltre l’ambito del cervello e coinvolgono dimensioni sociali, culturali e psicologiche tra cui l’importanza delle relazioni terapeutiche e della comprensione narrativa”. Insomma è l’ennesima giravolta e si torna sempre all’antico: la diagnosi è in qualche modo necessaria ma non basta, perché senza un contatto col mondo emotivo del paziente non può esistere una relazione di cura viva ed efficace. Inoltre la sola nosografia rischia di essere una lista ossessiva di sintomi e sindromi limitata, senza l’intreccio con le vicende personali e con le storie di vita del paziente, ed infine la clinica è sempre più complicata e stimolante del pur necessario tentativo di descriverla. Se da un lato è il modello medico ad essere uno strumento indispensabile a porre diagnosi, dall’altro è la dimensione empatico-narrativa, che consente di raccogliere dei dati, di aggregarli per cercare di rappresentare dentro di noi il paziente. Queste sono dunque le redini dell’incontro psichiatrico di cui tenere conto in un reciproco equilibrio dinamico. La diagnosi in psichiatria e alcuni punti deboli del DSM-5 In estrema sintesi, se il procedimento diagnostico, per il medico, inizia dalla raccolta anamnestica e dall’esame obiettivo fisico, che rappresentano il punto di partenza per una ricerca delle informazioni utili e necessarie, attraverso anche esami ed accertamenti, per arrivare così ad una diagnosi da cui discenda un’adeguata terapia, lo stesso non si può affermare per la diagnosi psichiatrica. A tutt’oggi infatti non ci sono test biologici, basati su geni, marcatori nel sangue o immagini cerebrali, che siano d’aiuto a porre diagnosi specifiche di malattia mentale e la diagnosi si basa prevalentemente sulla competenza, sull’esperienza e sulla sensibilità del clinico. D’altra parte la diffusione crescente dei disturbi psichici nel corso della vita della popolazione (in Europa è calcolata appena inferiore al 40%, vicina al 50% negli Stati Uniti) si è accompagnata negli anni ad un aumento vertiginoso della prescrizione psicofarmacologica. Ciò può indurre a vari ordini di riflessione: da un lato che alcune categorie diagnostiche introdotte nel DSM-5, quelle ai confini tra reazione normale e patologica, siano assai fragili sul piano della loro realtà clinica, come il disturbo cognitivo minore, il disturbo psicosomatico, il disturbo da disregolazione dirompente dell’umore e da alimentazione incontrollata, con il rischio di ampliare l’etichettamento psichiatrico senza alcun vantaggio per la salute individuale e collettiva9. Dall’altro che l’eccesso di diagnosi psichiatriche, con le conseguenti indicazioni farmacologiche mirate, sembri suggerire una sorta di via medica semplificata nella soluzione dei problemi mentali, cortocircuitando la complessità del funzionamento della mente umana. Anche la reazione fisiologica di lutto alla perdita di una persona cara rischia in questa ottica medicalizzante di diventare una patologia depressiva maggiore da trattare farmacologicamente e non un evento di vita doloroso e inevitabile. Un ambito nel quale invece non sono state fatte modificazioni è quello pertinente i Disturbi di Personalità, per i quali le più recenti linee guida mostrano come l’indicazione terapeutica principale sia psicoterapeutica e non farmacologica. Ciò significa ad esempio che non esistono farmaci specifici per la sintomatologia propria del Disturbo Borderline di Personalità e si potrebbe allora avanzare il sospetto che per questo motivo non ci siano state pressioni abbastanza forti per apportare le già attese modifiche della classificazione del II Asse del DSM-5, che riguarda i Disturbi di Personalità. In ogni modo, esplicativo e interessante è il titolo del libro di Allen Frances10, uno degli estensori del DSM IV, ma particolarmente critico nei confronti del DSM-5, “Primo non curare chi è normale. Contro l’invenzione delle malattie”. È su questa linea del resto che si è sempre mosso nella nostra regione Il Programma Giuseppe Leggieri di collaborazione tra MMG e psichiatri dei CSM a questo compito dedicati11, che si spera abbia sviluppato gli anticorpi adatti per combattere questa deriva iperdiagnostica e medicalizzante. La dimensione narrativa del lavoro psichiatrico
Dopo aver ascoltato in tanti anni di attività clinica centinaia di pazienti, ciò che mi attrae è ancora una sorta di fascinazione nei riguardi delle persone e delle loro storie per come esse si intrecciano con le caratteristiche psicologiche di ciascuno, con gli eventi psicopatologici e le fasi della vita. Esse possono essere “buone” storie non solo per i loro contenuti ben confezionati e per le notizie che contengono, ma soprattutto per il modo in cui sono raccontate dai pazienti e dagli operatori. D’altra parte le capacità narrative, come produttrici di senso di sé nella realtà propria e degli altri, “contraddistinguono il genere umano tanto quanto la posizione eretta o il pollice opponibile”12. Che del resto l’autobiografia sia non solo un genere letterario ma anche un esercizio terapeutico, una forma di cura di sé, è ampiamente sostenuto anche al di fuori dell’area medico-psicoterapeutica12. Quello che noi chiamiamo una storia non è un processo unidirezionale, ma implica la compresenza di un narratore e di un ascoltatore e ciò che ne risulta è fortemente influenzato sia dal modo in cui noi entriamo in contatto con il paziente, che, viceversa, dal tipo di relazione che egli costruisce con noi. Spesso la costruzione di una storia, palese e condivisa per quel che è possibile, rappresenta una parte importante del lavoro con i pazienti, cui dobbiamo mettere a disposizione la nostra competenza narrativa e la nostra capacità di riformulare i racconti che ascoltiamo. Preferisco il termine storia, rispetto a quello più tradizionale di anamnesi, in quanto, a mio modo di vedere, non solo ne condivide gli obiettivi, ma anche perché rappresenta il tentativo di introdurre e dare maggior peso al punto di vista del paziente, a valorizzarne gli elementi personali e soggettivi. Se da un lato è a volte difficile valutare il grado di veridicità del racconto di sé del paziente, anche alla luce di come la sua psicopatologia si interseca con le fasi e con gli eventi della vita, dall’altro va valorizzato il fatto che è la storia che il soggetto è in grado di raccontare di sé in quel momento del suo percorso esistenziale e della fase della sua malattia. Queste dimensioni narrative sono operative nella pratica psichiatrica di ogni giorno. Quando ad esempio ci si trova in situazioni di stallo terapeutico o farmacologico o quando occorre preparare la discussione clinica di un caso, il primo gradino è sempre rappresentato dalla consultazione della cartella clinica e dal tentativo di trarne una storia clinica in qualche modo intelligibile. Anche la raccolta della storia personale dei pazienti con Disturbi Emotivi Comuni, e perciò appartenenti prevalentemente all’ambito di cura della Medicina Generale, contiene già di per sé forti finalità terapeutiche se fornisce al paziente qualche spiegazione su come le proprie sofferenze psichiche possano collegarsi con le ineludibili fasi ed eventi della vita, formulando delle semplici sequenze-chiave, che siano in qualche modo utili a spiegare la natura psicologica del disturbo. Insomma penso di poter affermare che la raccolta della storia personale del paziente e la capacità di ascolto, sia dello psichiatra che del MMG siano importanti quanto o più della foga classificatoria del DSM-5. A mo’ di conclusione La buona psichiatria sembra allora essere costituita da un insieme di scienza medica e di storia: ampie categorie diagnostiche servono infatti ad organizzare trattamenti terapeutici pensati per adattarsi al singolo paziente, ognuno caratterizzato dalle proprie peculiarità biologiche, biografiche, sociali e personali, da una propria vita emotiva e dalla storia più o meno travagliata del suo sviluppo. A fronte di questa complessità che si rinnova in ogni nuovo incontro, di solito lo psichiatra esperto ha sviluppato negli anni un suo metodo artigianale appreso nella bottega della clinica dai propri maestri e dalla pratica personale, una sorta di scaletta interna, che consente di toccare i punti necessari alla raccolta dei sintomi per arrivare, attraverso l’esame psichico, ad una diagnosi psichiatrica “larga”, suscettibile di modificazioni nel tempo. Nello stesso tempo è indispensabile creare le condizioni per un dialogo semplice e naturale perché il paziente non si senta solo investigato, ma accolto e compreso nei suoi aspetti di sofferenza psicopatologica e personale. Ed ancora cercare di completare la diagnosi descrittiva, considerata come ipotesi di sintesi provvisoria e parziale, con una diagnosi più “calda” ed articolata che riguarda la soggettività non solo del paziente, ma anche ciò che il rapporto di cura produce sul versante emotivo interno dell’esaminatore, strumento di comprensione importantissimo del clima emotivo compresente nell’altro. Con queste poche righe spero di aver trasmesso l’idea della complessità e delle peculiarità nell’incontro con la sofferenza mentale, l’altra faccia della luna che il DSM-5 non può prendere in considerazione né tentare di rappresentare.
Bibliografia 1. American Psychiatric Association 2013 - The Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders_Fifth Edition. 2. Tognoni G. DSM-5: una lettura (psichiatrica)obbligatoria per tutte/i coloro che lavorano in/interagiscono con la medicina. Informazioni sui Farmaci 2013; 37:57-8. 3. Nonino F. e Magrini N. DSM-5: una diagnosi e un farmaco non si negano a nessuno. Informazioni sui Farmaci 2013; 37:68-72. 4. Monari M. Elementi di continuità tra psichiatria e psicoanalisi. In: Psicoanalisi in trincea. Esperienze, pratica clinica e nuove frontiere in Italia e nel Regno Unito. Franco Angeli, Milano, 2012. 5. Engel G. L. The Clinical Application of the Biopsychosocial Model. American Journal of Psychiatry 1980; 137:535-44. 6. Berti Ceroni G. Muri, confini, bordi. Persiani editore 2011, Bologna. 7. Berti Ceroni G. e Monari M. Procedure nell’integrazione di farmaco e psicoterapia: stereotipi, dubbi ed ipotesi. In: Psicoterapia e psicofarmaci ( a cura di P.M. Furlan), Centro Scientifico Editore 1997, Torino. 8. Bracken P. et al. Psychiatry beyond the current paradigm. British Journal of Psychiatry 2012; 6:430-4. 9. Ammanniti M. L’invasione americana degli psicofarmaci. La Repubblica 5 luglio 2013. 10. Frances A. Primo, non curare chi è normale. Contro l’invenzione delle malattie. Bollati Boringhieri, Torino, 2013. 11. Monari M. Il percorso di cura del paziente: verso una migliore integrazione tra medici di medicina generale e psichiatri. In: Integrazione tra cure primarie e salute mentale. Corso di Formazione Regionale, Bologna, maggio 2005. 12. Bruner J. (2002) La fabbrica delle storie. Editori Laterza, Roma-Bari.