Il dolore è sempre stato compagno dell'uomo. Da sempre si cerca di dargli un senso, definire cosa esso sia, e trovarne sollievo. Le definizioni del dolore non mancano, da "affezione dell'anima che allontana dallo stato di natura" di Aristotele, alla nota definizione dell'IASP del 1979 "una spiacevole esperienza sensitiva ed emotiva associata ad un reale o potenziale danno tissutale, o descritta in termini di questo danno"1.
Ogni definizione, in particolare quella dell'IASP, nota perché citata in molta della bibliografia attuale sull'argomento e in testi didattici, meriterebbe un commento. Non è questa la sede. Guardando al dolore come a qualcosa di temibile ma lontano, sono molte le riflessioni che si possono fare e giustamente si fanno. Chi lo sta provando FORSE non si chiede cosa esso sia, lo sa fin troppo bene, si chiede come esso possa essere eliminato, e forse se abbia un senso.
Il termine sofferenza viene talvolta usato come sinonimo di dolore, pur non essendolo. Può esserci dolore senza sofferenza e sofferenza senza dolore. Chapman e Gavrin definiscono la sofferenza come "la minaccia o il danno all'integrità dell'io"2 ma, come osserva Cassel: "Sebbene il dolore e la sofferenza non siano sinonimi, il dolore fisico resta una causa maggiore della sofferenza umana e costituisce l'immagine primaria ideata dalle persone quando pensano alla sofferenza"3.
Il dolore e la sofferenza sono resistenti alle definizioni perché sono concetti poliedrici. Nella presente breve trattazione considererò dolore-sofferenza strettamente legati e componenti di uno stesso evento esistenziale. Talora è difficile dire fin dove arriva il dolore e dove inizia la sofferenza.
Caso.Maria è ricoverata in urgenza nel tardo pomeriggio in un reparto chirurgico di un ospedale di provincia perché colta da dolori incontrollabili. E' affetta da un tumore del pancreas, sta già assumendo FANS a dosi piene, MS Contin 60 mg 2 volte al giorno, Oramorph e FANS al bisogno. Tutta la notte e il mattino successivo viene curata con "porta pazienza, cara". Dice: "per la prima volta nella mia vita mi sono sentita prigioniera senza poter fare nulla, nessuno che venisse in mio aiuto e il dolore era insopportabile, ero disperata e mi sentivo impotente. Ho pensato di telefonare ai carabinieri, ma non ero sicura fosse la cosa giusta da fare".
Afferma l'antropologo Guerci:"il dolore non si dice, si ricorda poco, e si comunica a fatica. La medicina lo combatte e la filosofia, per larga parte, lo ignora"4. Di dolore, così come di morte, oggi si è ricominciato parlare. Non solo in ambito religioso o spirituale, dove il dolore ha sempre avuto la sua particolare collocazione, ma anche in ambito sociologico, politico e medico-scientifico dove è stato trascurato per moltissimo, troppo tempo. Passata l'epoca in cui i "profeti" delle varie religioni hanno cercato di spiegare all'umanità sofferente il senso del soffrire, senza mai proporre una sua eliminazione, semmai una sublimazione"5, se ne propone oggi la sua eliminazione perché "il dolore non [ha] in sé un significato morale, .. la sua accettazione non [ha] un particolare valore......"6.
Le influenze filosofiche e/o religiose hanno quasi impedito all'uomo di cercare di combattere il dolore, sopportarlo era una affermazione di sé davanti a se stessi o a Dio a seconda delle tradizioni. Con l'epoca moderna e la medicalizzazione dell'esistenza, la medicina deve considerarsi meno dipendente dalle tradizioni e potrebbe costruire nuove condizioni in un contesto dove l'obiettivo per l'uomo è affermare la sua dignità. Si propone, finalmente, l'eliminazione del dolore. Andando forse un po' troppo in là nelle speranze: talora sembra si costruisca l'illusione di una vita senza dolore. La sua totale rimozione è impossibile, ma il dolore intollerabile (o intollerato) o inutile può e deve essere eliminato dalla nostra vita.
Sembra si sia tutti d'accordo, oggi, nella nostra società, su questo. Anche la politica si è mossa con provvedimenti, impegni, priorità rispetto alla presa in carico del dolore. Parole? Fatti? Troppo presto per aver creato una cultura? Troppo presto per aver creato nei professionisti una vera professionalità in tal senso? Perché tra i discorsi e la pratica c'è un divario così grande?
Il fiorire di progetti, letteratura, prese di posizione, questo nuovo e non sporadico "parlare del dolore" è qualcosa di diverso e non confondibile con il "dire il dolore", quella sensazione spiacevole che davvero si dimentica facilmente e si comunica a fatica.
Le parole per dire il dolore sono diverse a seconda della visuale: c'è un solco tra le parole di chi lo sta subendo e quelle di chi lo osserva, lo descrive, lo interpreta o lo studia anche nel tentativo di contrastarlo. Sono diverse le parole di chi lo colloca in un contesto culturale, o spirituale, o sociale, o politico. Diverse ma complementari. Aspetti legati, interdipendenti, che si condizionano a vicenda. Perché il dolore non è solo sensazione fisica, ma è anche cultura, storia, spiritualità. Il dolore, al di là della sua realtà organica, è nello stesso tempo un'esperienza soggettiva ed una "costruzione" sociale: "Il dolore è intimo, certo, ma è anche impregnato di sociale, di culturale, di relazionale, è il frutto di una educazione. Non sfugge ai legami sociali"7. "Sovente la relazione terapeutica dimentica la dimensione di senso e valore che interviene nella relazione dell'uomo con il suo corpo e la sua malattia"8. Per capire, nessun parlare è il più importante, se non forse quello di chi il dolore subisce e che proprio per la sua fragilità, la difficoltà di dirlo e il bisogno di silenzio, può essere alla fine il meno ascoltato. Dolore: le parole per dirlo
Trascurando, ma solo per opportunità di spazio, altri aspetti, pensiamo al linguaggio usuale all'interno del rapporto di cura, il linguaggio che intercorre, più o meno esplicitamente, tra chi cura e chi è curato.
Il linguaggio "scientifico" cerca di guardare al dolore in modo razionale, distaccato, classificatorio da un lato, e diagnostico-descrittivo dall'altro. Tra tutti i sintomi possibili (escludendo forse l'ambito psichiatrico), il dolore è quello che presenta il maggior grado di soggettività: per la soglia molto diversa da individuo a individuo, per l'entità non strettamente correlata alla sede e alla causa, per l'espressione molto diversa da persona a persona, per la complessità di percezione ed espressione che può rendere intollerabile un dolore ben curato dal punto di vista farmacologico, per le innumerevoli cause non mediche che ne influenzano la percezione, non ultime cultura e religione sia sui malati che sui curanti9. Per questo, all'interno di una professione che pur essendo scientifica si scontra quotidianamente con il dubbio e cerca di limitare con tutti i mezzi i margini di errore, il dolore presenta un'area di difficile rilevazione, quantificazione, riduzione a numeri, trattamento in base a protocolli di intervento rigidi.
Questa complessità obbliga i curanti a interrogarsi sulla realtà della sofferenza e sul problema dei limiti: di trattamento medico, personali, degli altri "curanti", del paziente......
In ambito di cura si parlerà di meccanismi fisiopatologici del dolore, di tipi di dolore: fisiologico, da processi patologici (somatico, viscerale, irradiato, da deafferentazione), patogeno. Acuto, cronico, (la malattia dolore!). Di dolore totale. Di dolore dell'anziano e del bambino (dolore inespresso!). Manifestazione verbale e non verbale del dolore. Soglia del dolore. Dolore necessario e dolore non necessario. Dolore da malattie degenerative croniche, da cancro, da cardiopatia, da broncopatie gravi, da gravi patologie epatiche, renali o di altro tipo, ecc. Dietro ciascuna di queste definizione si trova una situazione esistenziale diversa, complessa, unica. Le parole di chi "dice il dolore"
Caso."Cerca di distogliere il pensiero dal tuo star male, pensa a qualcosa di bello, ai nipotini..... è l'invito a Maria, ricoverata in unità coronarica, quando è colta da una grave inquietudine e sofferenza: "Si sta così male che non si può nemmeno più pensare!" Sono state le sue ultime parole.
Caso.Un momento tranquillo con Sara, amica di una vita, colpita da tumore del pancreas. La terapia per il dolore è da poco cominciata, è ancora in fase di titolazione, ma sembra funzionare. Improvvisamente interrompe il discorso, il pensiero non si ferma su nulla, è inquieta, ansiosa, pallida, sudorante: è iniziato un dolore sempre più acuto dal quale non riesce a staccare il pensiero. Cerchiamo al più presto un rimedio. Quando il dolore è domato e torna tranquilla dice "non immaginavo che avrei provato questo dolore, tutto questo mi sembra proprio una crudeltà".
Caso. Osvaldo, tumore intestinale in fase avanzata, inizia a lamentare dolori molto forti. Il medico dice: "Per i suoi dolori credo che l'unica cosa che può servire è la morfina. Se è d'accordo cominciamo la terapia" e la sua risposta: "Anche il veleno piuttosto che questo male".
Testimonianze dalla letteratura:
Tiziano Terzani [......]: quando hai questi dolori orribili, allo stomaco, a questo a quell'altro, il corpo pretende molto da te, pretende attenzione, non vuole che tu ti distragga da lui. Ma se per un attimo ci riesci, o hai la fortuna con una pillola o qualcosa di distrarti, ti senti un altro11.
David Maria Turoldo [......]: Parlerò di questo grande mistero del dolore e della sofferenza, per quanto sia convinto che ad esso si addica meglio il silenzio. Possiamo accettare il male perché è una parte della vita, la quale a sua volta s'intreccia con la morte, ma accettare il dolore è cosa eroica, perché il dolore è veramente disumano. [.....]. Mi domando quale è, ogni giorno, l'aspetto positivo della sofferenza: forse senza di essa diventeremmo cinici, indifferenti, egoisti. Quindi è un arricchimento, ma non cancella il suo carattere disumano. [.....] possiamo confortare dicendo [.....] parole di speranza [......]. Ma quando si è nel pieno della sofferenza bisogna fare silenzio, e basta12.
Dai pochi esempi riportati, della quotidianità o di persone che, anche in preda a gravi sofferenze, non hanno abdicato al loro ruolo di comunicare, insegnare, far riflettere, dare voce a chi non ne ha ed hanno efficacemente "detto il loro dolore", questo emerge come qualcosa di crudele, disumano che toglie il pensiero e pretende tutta l'attenzione. Qualunque cosa, compreso il veleno è preferibile. Un'esperienza di fronte alla quale l'unica risposta è il silenzio. Un'esperienza che è peggiore di un carcere o di un sequestro se non è presa in carico.
Sapendo che di questo si tratta, la frase di Primo Levi: "Se sappiamo che il dolore severo e la sofferenza possono essere alleviati e non facciamo niente, noi stessi siamo torturatori"13 diviene quanto mai pertinente.
"Dovere del medico è [....] il sollievo della sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana [......]" recita il Codice deontologico14 e la frase forte di Primo Levi lo richiama in modo imperativo. Se c'è la possibilità di eliminare dolore e sofferenza è doveroso farlo, al di la del senso che individualmente il curante o la società possono dare ad esso. Credo sia quello che l'umanità ha sempre cercato di fare (al di fuori di ricerche mistiche o a fini salvifici nei santi di un tempo, peraltro del tutto episodica). Imperativo categorico: togliere il dolore e rispettare la dignità
Non c'è nulla all'interno del rapporto curante-malato che sia sempre automatico, sempre chiaro, sempre come da protocollo tanto da esimere dall'ascolto, dal dubbio, dal rapporto personale, dalla negoziazione. Il dolore c'è, il malato lo afferma, con linguaggio verbale e non verbale. Dovere del medico è togliere comunque quel dolore. O no??
Caso.Giovanni, carcinoma gastrico in fase avanzata, quasi totalmente allettato in posizione antalgica."Si, ho dolore, molto. Il dolore non mi abbandona, ma al momento preferisco non aumentare i farmaci, va bene così. Ve lo dirò io quando non ce la faccio più". Ha a disposizione farmaci da assumere al bisogno. Giovanni vive solo, è una persona molto dignitosa che desidera restare autonoma il più possibile ed essere cosciente fino alla fine. Non spiega il perché del rifiuto. Ma viene rispettato.
Caso. Ester, carcinoma mammario metastatizzato: "Ho dolore, ma preferisco tenerlo perché attraverso l'aumento o la diminuzione del dolore ho l'impressione di controllare la mia malattia, la sua evoluzione". Non è una ragione "logica" per soffrire, ma per il suo modo di essere e per poter sopportare la situazione di malattia la signora ha bisogno di mantenere il controllo o di avere l'illusione di farlo. I farmaci al bisogno sono comunque a sua disposizione.
Caso.Jolanda, 75 anni, vive col marito affetto da degenerazione cerebrale senile e praticamente dipendente da lei quasi per tutto. Ha un tumore polmonare avanzato, ma è ancora discretamente autonoma. Riesce a gestire la casa. Inizia ad avere un dolore che non la lascia riposare la notte. Chiede aiuto: "qualcosa che mi faccia passare il dolore, soprattutto che mi lasci dormire la notte. Ma siccome devo occuparmi del marito, deve anche permettermi di restare attiva".
E' esperienza dei curanti e devono essere pronti ad accettare questo, che certi malati preferiscono avere male piuttosto che sopportare gli effetti indesiderati dei medicamenti proposti. Talvolta un "residuo di dolore" può rappresentare ciò che tiene ancorati alla vita.
Da uno studio pubblicato su Lancet nel 2001, coordinato dal dipartimento di Bioetica Clinica dei National Institutes of Health di Bethesda, USA15, su mille pazienti in fase terminale di malattia interpellati, uno su due soffriva, ma "solo un terzo desiderava un effetto antalgico; la maggioranza, nonostante i dolori voleva che la cura restasse invariata o addirittura ridurla o sospenderla".
I motivi?
1. Paura dell'assuefazione fisica e psichica.
2. Timore degli effetti collaterali degli oppiacei.
3. Il semplice rifiuto di assumere altre pillole o iniezioni.
Ma le motivazioni possono essere anche altre, come abbiamo visto.
Si può dedurre che il dolore, per quanto esperienza umana molto sgradevole che in primis richiede di essere eliminata, è solo uno dei parametri che misurano la qualità di vita e che il rispetto della libertà e della dignità va di pari passo. Ancora una volta si riconferma la necessità di ascolto. Ascolto e comunicazione sono preliminari a qualsiasi procedura per la rilevazione e il controllo del dolore.
Per poter intervenire in modo corretto ed efficace sul dolore, come su ogni altro sintomo e patologia, è rassicurante seguire una procedura standardizzata. Un esempio di tali procedure16 prevede le seguenti fasi delle attività:
1. Evidenza del dolore. Tutti gli operatori coinvolti (......) sono responsabilizzati al riconoscimento del dolore, espresso od inespresso (.......). Per questa fase gli operatori si avvalgono della collaborazione del referente assistenziale famigliare (......).
2. Quantificazione del dolore. Infermieri e medici sono tenuti a somministrare al paziente la scala di autovalutazione numerica, la cui quotazione è segnata nella grafica quotidiana presente nel diario domiciliare. La scala numerica è validata anche per soggetti con deficit cognitivo moderato. La quantificazione del dolore, dove possibile, è quindi monitorata, in modo da valutare la risposta ad eventuali modifiche terapeutiche. Per soggetti con deficit cognitivo non esiste strumento di quantificazione.
3. Diagnosi (......). Anche per il dolore la diagnosi deve precedere la terapia, tenendo presente che un sintomo può essere causato da più fattori: tra questi vanno identificati quelli che sono reversibili e possono essere corretti (......).
4. Trattamento. L'obiettivo primario del trattamento è garantire un controllo del dolore con le seguenti priorità: congruo numero di ore di sonno, scomparsa del dolore statico, controllo del dolore incidente. Per il trattamento farmacologico del dolore, attualmente ci si avvale della scala OMS a tre gradini (......). La terapia deve essere la più semplice possibile ed i farmaci devono essere somministrati per la via più congrua, meno disturbante e se possibile naturale per il paziente (......) deve essere regolare per prevenire la comparsa del sintomo stesso.
5. Monitoraggio (......). In questa fase si dovrà prestare particolare attenzione non solo al raggiungimento degli obiettivi previsti, ma anche alla prevenzione (ove previsto da protocolli condivisi) od al monitoraggio della comparsa di effetti collaterali legati al trattamento stesso.
Seguendo questa traccia farò alcune considerazioni emerse dalla pratica clinica. Evidenza del dolore
La prima regola, lo strumento principe per documentare la presenza di dolore è sintetizzabile in sei fasi: ascoltare, ascoltare, ascoltare. Osservare, osservare, osservare.
E' importante credere al paziente quando parla del suo dolore; il suo racconto contiene sempre un vissuto soggettivo, ma è il solo a poterne dire l'intensità. Spesso è in grado di indicare oltre all'esistenza del dolore e all'intensità, la sopportabilità, la sede, la durata, le caratteristiche. E' in grado cioè di indirizzare il ragionamento medico che innescherà. Non sempre è così, nel bambino, nelle forme di demenza, negli esiti di malattie vascolari, nelle malattie neurologiche, nelle fasi molto avanzate o in certe sedi di malattia tumorale, ad esempio, resta solo il linguaggio paraverbale (sospiri, lamenti) o non verbale: espressione del viso (smorfie, sussulti), posizione antalgica, posture e gesti, limitazioni funzionali (lunghi periodi a letto), aumento della frequenza respiratoria e della pressione arteriosa, sudorazione, pallore ......a volte molto difficile da individuare. Talora è mascherato da un comportamento che può ingannare e indurre interventi che non sono la risposta adeguata: rifiuto del cibo, mutismo improvviso, agitazione, aggressività inconsueta, insonnia o altri comportamenti non spiegabili altrimenti. Anche se alla domanda "ha dolore" la risposta è "no, non molto ecc." oppure non c'è risposta ma i familiari dicono "no, non si lamenta del dolore", questo potrebbe esserci.
A volte invece, all'opposto, viene espressa come dolore una difficoltà e tristezza esistenziale che merita un approccio diverso da quello farmacologico. I fattori non medici che aumentano o diminuiscono la percezione del dolore e sui quali si può almeno tentare di intervenire sono molti!
Talvolta dare del tempo al paziente ascoltandolo gli permette di dire certi dolori e dunque di esprimerli attraverso il linguaggio piuttosto che attraverso una parte del corpo. E' una condizione che talora si osserva con stupore: l'effetto antalgico dell'ascolto.
Caso. Vittorio, fase avanzata di carcinoma polmonare con metastasi cerebrali, è sempre stato uomo di poche parole, ora ne ha, se possibile, ancora meno. Da qualche giorno è inquieto, la mobilizzazione è difficile, vuole essere lasciato in pace. Troppo gentile per "offendere" in qualche modo chi si prende cura di lui, non riesce però a mascherare l'espressione del viso. Richiesto, nega ripetutamente dolore. Ma il linguaggio non verbale non convince il medico che, parlando a Vittorio, dice: "Anche se lei nega, la tratterò egualmente per il dolore, perché non sono convinta". Praticata opportuna terapia, Vittorio non dice nulla ma, più sereno, prende la mano del medico e la stringe con riconoscenza.
Caso. Clara, morbo di Alzheimer, da ore rifiuta di aprire la bocca, emette suoni incomprensibili, non si lascia toccare. Hanno tentato la somministrazione di un farmaco tranquillante al bisogno, senza esito. Dopo ore la figlia, disperata, chiama aiuto. Clara guarda il suo medico (che conosce da una vita) con occhi imploranti, ascolta, urla, ma non parla. Difficile capire la causa del suo disagio. Il medico spiega: "adesso le faccio una iniezione per il dolore e poi guardiamo la bocca". Nell'incredulità della famiglia, si lascia fare, a poco a poco si tranquillizza, apre la bocca e sorride.
Caso.Paola ha avuto una vita molto difficile, un divorzio, cinque figli, secondo marito violento spesso disoccupato, ha anche avuto guai con la Giustizia. Lei ha sempre lavorato molto, poco considerata in famiglia, poco pagata fuori. Soffre di dolori artrosici in particolare alla colonna lombare, è modicamente ipertesa. Frequenta abbastanza spesso ambulatori medici. Non assume farmaci per i dolori, dichiara di essere"allergica" a tutti gli antidolorifici. Infruttuosi i tentativi farmacologici del suo medico. Si concorda una terapia di "sostegno" e cicli di fisioterapia. L'ipotesi è che per Paola essere o presentarsi come "sofferente" sia il suo modo di essere considerata esistente, una persona. Un ortopedico che la vede per la prima volta poco dopo la morte del marito prescrive Durogesic cerotto 25 mcg. E' proprio questo quello di cui Paola ha bisogno?
Ignazio R. Marino: Da una stanza del reparto di chirurgia arrivavano i lamenti continui di un uomo anziano operato da poco a cui erano state amputate le dita dei piedi a causa del diabete che lo aveva anche reso quasi completamente cieco. (.......) passando davanti alla sua porta non potei fare a meno di fermarmi, fargli bere un bicchiere d'acqua e sedermi per un po' sul bordo del suo letto in attesa che l'infermiera portasse il sonnifero che avevo prescritto.
L'uomo cominciò a raccontarmi che da giovane aveva fatto l'aviatore ........ Il racconto andò avanti per oltre un'ora...... mentre mi parlava..... il paziente-aviatore si addormentò tranquillamente, senza più ansia e senza bisogno del sonnifero.......17. Quantificazione del dolore
La cultura tecnico-scientifica ha bisogno di misurare, quantificare, raccogliere dati con crocette a questionari predisposti, escludere espressioni non standardizzabili, dare una significazione numerica a tutti i fenomeni. E' un atteggiamento che, da un lato rischia (e spesso lo fa) di soffocare la parola, cancellare l'umanamente imprevedibile dei fenomeni esistenziali, ma dall'altro permette una trasmissione di dati, un confronto e un livello di intervento abbastanza omogeneo. Tutela il malato "anche con l'adozione di protocolli - dal fatto puramente fortuito di incontrare o meno un sanitario che ascolti e sappia implicarsi nella relazione e sappia trattare correttamente i sintomi.
Entrambi gli aspetti (il dato e la parola) dovrebbero essere tenuti presenti, cercando di resistere come Ulisse al canto delle sirene, al fascino del numerico, del misurabile che attrae perché crea l'illusione che oggettività, scientificità e certezza, cancellino il dubbio. Resistere e valorizzare anche l'aspetto più silenzioso, soggettivo, incerto, non adatto a pubblicazioni scientifiche, (quindi non fa punteggio!) della narrazione che è l'unico modo per dire la vera storia del dolore del malato.
In ogni modo, e meritevolmente, per la sua quantificazione sono state messe a punto diverse scale di valutazione. Queste sono metodiche semplici per valutare l'intensità del dolore attuale: scale numeriche, scale di valutazione descrittiva, scale analogiche e scale "a caselle".
Metodi, difficoltà di applicazione, affidabilità dei risultati sono ovviamente diversi a seconda del dolore che si vuole rilevare e quantificare. Ad esempio, un dolore acuto (sempre a livelli elevati, quasi sempre associato anche a manifestazioni autonomiche, difficilmente negabile o non rilevabile da chi osserva), un dolore cronico non maligno (componente non biologica più marcata, pluridisciplinarietà più implicata, malattia "degna" di essere riconosciuta, se associato all'anzianità difficoltà di presa in carico, minor soddisfazione nel trattamento .....) o il dolore delle fasi terminali di malattia in particolare di malattia oncologica (dolore totale.....). E' evidente che le scale riguardano solo la prima delle tre componenti del dolore: sensitivo-discriminativa, motivazionale-affettiva, cognitivo-valutativo.
Più completo, ma richiede molto tempo di somministrazione, sembra sia comunque molto usato, il MPQ18 che aggiunge ad una scala descrittiva con numeri assegnati ad ogni aggettivo (1 lieve, 2 fastidioso, 3 angosciante, 4 intollerabile, 5 atroce), una siluette umana nella quale indicare la sede del dolore, e un indice di valutazione basato su aggettivi che rispecchiano la componente sensitiva, affettiva e cognitiva del dolore stesso19.
I tentativi sono lodevoli. Non sempre però riesce facile al malato dare "un voto" al suo dolore e non sempre il voto dato sembra concordare con la realtà.
Caso.Gustavo, persona molto simpatica, attiva, veste sempre la tuta blu, "el toni", e lavora nonostante la malattia. Ha una terapia del dolore veramente importante per il suo tumore esofageo, ulcerato, stenosante, in fase molto avanzata. Una notte ha una nuova crisi acuta di dolore."Da 1 a 10, avevo 11 perché mi faceva male anche la dentiera". Ha mantenuto il senso dell'umorismo il sig. Gustavo!
Caso. La signora Alice ha dolore sicuramente, lo qualifica in 10, ma è rilassata, si muove in casa agevolmente, svolge lavoretti domestici, riposa la notte, parla del più e del meno. Si è molto titubanti nell'incrementare la terapia del dolore già instaurata, aspettiamo. Forse capiremo qualcosa di più in seguito.
E' vero che il dolore è quello che il malato dice sia, e non quello che gli altri credono dovrebbe essere(Osler, 1984), ma per evitare eccessi terapeutici, con conseguenti effetti indesiderati, è da valutare oltre all'espressione verbale, quella non verbale e prendersi il tempo di parlare col malato e valutare assieme a lui. Forse chiama dolore un disagio diverso che non riesce ad esprimere diversamente, o che ritiene non sarà preso in considerazione?
Se ad un dolore, in particolare da malattia cronica, viene ripetutamente dato un valore massimo, che significa atroce, intollerabile, e questo non sembra combaciare con la realtà, è possibile che le componenti motivazionale-affettiva, cognitivo-valutativo, vadano meglio indagate e trattate.
Caso.Lucia si lamenta: "passavano tutti i giorni in ospedale le infermiere a chiedere di dare i numeri del dolore, li davo, ma poi non succedeva nulla, non per questo intervenivano per farmi star meglio".
Non è possibile solo attraverso una frase giudicare un comportamento reale. Ma quanto detto dalla signora Lucia ci permette di osservare che lei si aspettava un cambiamento, quale? La registrazione in grafica anche dell'entità del dolore, non fa l'Ospedale senza dolore, se è un adempimento solo burocratico. Il punto centrale, scrivono Dennis e Akiko20, è che la valutazione del dolore è la valutazione del paziente che riferisce dolore e non della mera patologia organica causa di dolore. Diagnosi
La causa del dolore, ove possibile e nell'ottica di una sua rimozione, andrebbe diagnosticata. I due atteggiamenti estremi sono: in patologie croniche note o fasi terminali di malattie gravi, ogni nuovo dolore viene attribuito alla malattia di base senza fare uno sforzo diagnostico, oppure ogni nuovo dolore viene comunque indagato, solo perché è consuetudine e si ha facile accesso alla diagnostica strumentale. Le indagini possono essere a loro volta causa di dolore. E' importante valutare molto attentamente cosa ci si aspetta da una ulteriore indagine: può portare a un miglioramento altrimenti non raggiungibile nel trattamento? Non aggiunge nulla a quello che stiamo facendo? E' un dolore che può essere eliminato eliminando la causa? Oppure no?
Anche nel dolore da cancro è stato provato che nel 65-70% dei casi, il dolore è dovuto al cancro, nel 25-30% alle terapie antineoplastiche, nello 0-10% ad altre cause non associate al cancro. Vale la pena individuare le cause non associate se sono rimovibili.
La valutazione del dolore e la ricerca dell'eziologia non devono farci dimenticare che diverse dimensioni della medicina generale come la globalità della presa in carico, la vicinanza della relazione, l'investimento nella durata, ci permettono di lavorare dando eguale importanza alla conoscenza del malato e alla malattia di cui soffre. Trattamento del dolore
Abbiamo accertato, valutato e diagnosticato il dolore. Ora come lo trattiamo?
Inventariando diverse migliaia di sostanze impiegate da numerose popolazioni del mondo (inclusi i popoli occidentali industrializzati), un antropologo dell'Università di Genova ha evidenziato che il "farmaco" più impiegato al mondo per alleviare il dolore è la preghiera (oracion, ensalmo, benzedura, mantra, price, ecc.); seguono il pollo e l'acido acetilsalicilico21.
E' una curiosità che può far sorridere (e anche riflettere) e mi da l'occasione di affermare che qualsiasi mezzo per controllare il dolore va bene, purché sia efficace ed accettato dall'interessato nel rispetto della sua libertà, perché coerente con il suo modo di interpretare la vita e con il senso che lui da alla sua sofferenza. Difficile che lo sia, se il malato non conosce la sua patologia e se sono i familiari che impongono un trattamento "alternativo" magari meno efficace di quello che può proporre il medico, quando l'interessato vorrebbe solo stare meglio.
I medici hanno a disposizione mezzi efficaci per il controllo del dolore e cercheranno di usarli.
Abitualmente non amano il pensiero magico e la ciarlataneria, i cosiddetti terapeuti che sfruttano la paura dei pazienti nei confronti del trattamento medico e dei suoi effetti collaterali, promettendo cure "naturali".
Afferma l'antropologo: Non ogni pratica di ogni medicina è razionale o scientifica, non ogni tradizione è terapeuticamente efficace, e non sempre i rimedi popolari rappresentano una soluzione vantaggiosa, o anche solo la soluzione migliore entro un contesto dato. [ .....] valutare caso per caso, considerando di ciascuna pratica terapeutica l'efficacia biologica, l'efficacia culturale e l'azione specifica all'interno di un contesto che, in quanto umano, è sempre storico. L'azione terapeutica......... è l'esito di una fusione tra biologia, cultura, storia, ambiente, società che accoglie, nel momento della cura, l'intera vita del paziente e del terapeuta22.
Quest'ultima affermazione permette di riaffermare che non dobbiamo fare di ogni erba un fascio. Primo: non tutte le cosiddette medicine alternative o complementari o olistiche o naturali che dir si voglia sono eguali, alcune possono arrecare reali benefici (agopuntura, terapie manuali, fitoterapia, ipnosi …) sul dolore. Secondo: perché i malati ricorrono a queste terapie? Forse perché promettono la guarigione che la medicina scientifica non è più in grado di promettere? Perché c'è bisogno di recuperare l'aspetto irrazionale-magico presente in ogni individuo e che la scienza nega? Interesse per la spiritualità e la crescita personale? Non si sentono presi in carico e capiti come persone dal medico? Mal tollerano la pervasività del modello medico dominante? Terzo: esiste la libertà di ciascuno di curarsi a proprio modo, ed anche di soffrire dando un suo valore alla sofferenza (purché sia veramente il suo!).
Caso.Fin dalla prima diagnosi di cancro al seno 15 anni fa e allo stomaco 10 anni fa, la signora Agnese, donna molto colta e attiva, ha fatto ricorso solo alla chirurgia e alle medicine alternative. Ora presenta dolori molto forti probabilmente causati da massa addominale (metastasi del suo antico tumore?). Da qualche tempo assume estratti di formica per via parenterale contro il dolore, ma stanno rivelandosi insufficienti. "Ho dolore, talora molto forte. Non voglio per il momento assumere morfina, voglio lasciarla per la fine. Vi chiedo di aiutarmi ad arrivare in fondo alla mia avventura senza soffrire". Soffre già più di quanto il medico sarebbe disposto a lasciarla soffrire, ma la signora ha le idee chiare. L'uso di farmaci è stato contrattato continuamente. Fin che è stato possibile la signora Agnese ha continuato i suoi trattamenti - e la sua vita - in modo dignitoso e autonomo.
Il dolore fisico è stato preso in considerazione in termini medico-scientifici solo dopo le grandi guerre, come informa Ventafridda23 e solo nel 1986, l'OMS ha formulato delle linee guida di trattamento che sono tutt'oggi un riferimento per i medici:
Più recentemente sono state formulate delle ipotesi alternative alla scala OMS, come le seguenti:
Ashby, Pain 1992
Dolore somatico profondo (75%)
FANS 1a scelta. Non controllo completo del dolore immediata associazione con morfina
Dolore viscerale (65%)
1a scelta oppioide, 2a scelta FANS
Dolore viscerale puro (20%)
Solo oppioidi
ADIUVANTI: farmaci da utilizzare in specifiche situazioni in relazione alla loro azione primaria, di scelta nel dolore neurogeno
Gruppo SIAARTI
1° e 2° gradino OMS vanno considerati come un solo gradino
3° gradino: interventi di neuroablazione, neurolesione, neuromodulazione
Vie di somministrazione, dosaggi, equivalenze, rotazione degli oppioidi, effetti indesiderati, specificità rispetto al tipo di dolore (viscerale, somatico, neuropatico,......), possibilità di associazione, dosi massime, ecc. sono aspetti che il medico impara con lo studio e con l'allenamento. Ci sono ottimi testi per questo.
La scala OMS è stata formulata per il dolore da cancro. Può adattarsi anche al dolore cronico per patologie non maligne, che presenta però delle caratteristiche particolari. Esiste un'evidenza crescente, in studi sperimentali, che solo un piccolo gruppo di pazienti con dolore cronico non oncologico può beneficiare dell'utilizzo di oppioidi orali. La sfida posta ai medici consiste nell'identificare questo gruppo ed alleviarne le sofferenze, senza aumentare significativamente l'uso illecito di sostanze, la dipendenza o altre sofferenze indotte dalla terapia25.
Il primo gradino, e in parte anche il secondo della scala OMS, non pongono grossi problemi. Le terapie vengono proposte e in genere accettate. Qualcuno preferisce ricorrere a rimedi più "naturali" per motivi ideologici di avversione per la chimica, ma fino a che questi funzionano non ci sono problemi.
E' il momento di proporre la morfina. Come farlo?
Decidere di prescrivere la morfina potrebbe essere vissuto come decisione angosciante. Si riscontrano delle resistenze al trattamento del dolore in particolare con la morfina. Resistenze che provengono talora dal paziente, dai suoi familiari, ma anche dai curanti.
Il fenomeno è diffuso e studiato, per esso è stato coniato il termine di "oppiofobia"26 intendendo il fatto che per molti medici questi farmaci rivestono uno speciale significato emotivo che interferisce con il loro impiego razionale. Si è cercato di individuarne le cause, non ultime sono quelle di paure di tipo legale e di intoppi burocratici, ma potrebbero essere legate anche a lacune nella nostra formazione, alla difficoltà di creare una relazione autentica: proporre ad un paziente la morfina vuol dire riprendere con lui il discorso della gravità della sua situazione, cercare di vincere le resistenze della famiglia ed a volte anche del paziente.
Questo alone di paura sembra tuttavia, nell'osservazione della pratica quotidiana almeno, legato solo alla morfina e non agli altri oppiodi, che sono anche più potenti. Sembra sia dovuto anche a questo il consumo comparativamente molto elevato di fentanile trasdermico - che dovrebbe essere di seconda scelta. Metaforicamente il cerotto tappa la bocca del medico che non spiega ed anche quella del paziente....... che non sa e non chiede?
Caso. La signora Ester ha un tumore polmonare in fase avanzata. Lamenta dolore toracico e dispnea. La terapia con FANS e adiuvanti è al massimo. E' venuto il momento di introdurre la morfina. Ma il suo medico non è d'accordo: "non sta ancora abbastanza male". La signora sarebbe disposta ad assumerla, ma non vuole contrastare il suo medico col quale ha un rapporto di fiducia da molto tempo. La signora è stata male per parecchio prima di provare il sollievo dato dalla morfina.
A causa delle implicazioni simboliche, dei miti e delle false credenze legate all'uso della morfina, la sua prescrizione necessita di una relazione terapeutica autentica. E' un momento particolare che va gestito molto bene anche con la famiglia. La terapia, quando serve, va proposta con decisione. Non si chiede il permesso alla famiglia, ma si comunica che si prescriverà spiegando che i dolori sono troppo gravi per non essere sollevati e che questo giustifica la terapia stessa.
Chiedere il permesso vuol dire27:
-non considerare la prescrizione di competenza medica
-considerare il farmaco estremamente rischioso
-e che può interferire negativamente sulla qualità di vita
-considerare che il "male" va sopportato e che non è diritto della persona esserne sollevata
-caricare la famiglia di una responsabilità che non compete loro, con possibili sensi di colpa, disaccordi tra appartenenti diversi della famiglia stessa.....
Contemporaneamente si è a disposizione per chiarire ai familiari qualsiasi loro perplessità in merito. Le spiegazioni sarebbero più efficaci se date in presenza del malato, serenamente. Il malato sì deve dare il suo consenso alla terapia. E' l'occasione di camminare assieme, medico paziente e famiglia nella comprensione delle cause del dolore.
Caso.Enrico ha più di 92 anni, tumore alla prostata con dolori ossei (metastasi) che lo costringono a letto. Il suo medico propone di aggiungere MS Contin alla terapia fino ad allora assunta che si rivela non più efficace. La cosa sembra accettata. Ad una seconda visita Enrico lamenta ancora dolore: non ha assunto i farmaci, la figlia non glieli ha somministrati perché "non ha abbastanza dolore". Ma io ho dolore insiste il padre, no ribadisce la figlia, finché Enrico, stremato, capitola: sì, non ho abbastanza dolore! Caso. La signora Adelaide, anni 61, ha un tumore alle vie biliari. Lamenta dolore fortissimo. Viene prescritta una terapia e raccomandata la somministrazione a ore fisse. La figlia, dalla quale Adelaide dipende, non trova la cosa accettabile e somministra il farmaco solo al bisogno. La signora ha crisi di dolore, fa anche sogni di dolore, ma accetta questo atteggiamento della figlia che è tutta la sua vita. Caso.Ines, persona anziana, ha un tumore intestinale. Il dolore non è ancora molto grave. Si rende necessaria la prescrizione di oppioidi minori. Si parla con tutta la famiglia riunita e anche con la figlia referente per l'assistenza. Tutto sembra accettato e tranquillo. Ma la situazione "dolore" della signora Ines, non cambia. La signora stessa è una persona che non si lamenta, cerca di essere autonoma e lavorare in casa nonostante la malattia. Solo in un secondo tempo si scopre che la figlia non somministrava i farmaci (senza dirlo al medico) per paura che le facessero male! Caso."Non ditegli assolutamente che sta assumendo la morfina, io lo conosco e so che si lascerà morire perchè comprenderà che è la fine. Non sa la sua diagnosi, crede di guarire. Se sapesse che prende la morfina capirebbe tutto."
Quest'ultima è una situazione ancora molto frequente anche se quasi esclusivamente in caso di malattia tumorale. La schiettezza anglosassone, a volte un po' troppo notarile e cruda, che si propone garante del rispetto delle scelte del malato-informato, non è ancora "assimilata" nella nostra cultura. A parole siamo tutti d'accordo, ma nei fatti, le famiglie in particolare si ergono a "difesa" del loro caro. Il paternalismo medico è in via di estinzione, il paternalismo familiare no. E' una questione culturale che merita riflessione.
E' una situazione imbarazzata, molto delicata: il malato dovrebbe acconsentire alle cure, non perché si tratta di morfina, ma anche per questo. Se non è informato ci troviamo di fronte a un bivio: accettare (almeno temporaneamente in attesa di trovare modo, tempo e opportunità per parlare con i familiari e accompagnarli verso la condivisione della realtà del e con il loro caro) e sollevare il malato dal dolore o restare rigidi su un comportamento "corretto" e lasciare che il malato abbia dolori non controllati? Non considerare assolutamente i desideri del familiare che conosce senz'altro meglio di noi il loro parente, rompere la congiura del silenzio in fase ormai tardiva rischiando di provocare ulteriore inutile sofferenza al malato?
Ci sono alcune domande, osservazioni che si ripetono nelle famiglie e talora anche da parte dei malati quando si propone la terapia con oppioidi. Ne cito alcune ad esempio.
"Morfina? Allora non c'è più nulla da fare": la famiglia prende coscienza della gravità della situazione, che non è possibile negare. Famiglia e paziente vanno accompagnati, supportata se e quanto serve.
Caso.Marito e moglie molto anziani, lui ha un tumore polmonare molto avanzato. E' in ossigenoterapia da tempo, ma - forse anche perché cerca di lavorare nell'orto comunque - la dispnea è ingravescente. La signora è sorda, non possiamo avere molto colloquio con lei. Si decide di instaurare terapia morfinica (MS Contin) spiegando che avrebbe portato beneficio contemporaneamente sia sul dolore che sulla dispnea. La moglie vede la scatoletta di MS Contin sul tavolo e dice con molta serenità: "ho capito che le cose vanno male, conosco quel farmaco e so che si prescrive alla fine".
Diventerà drogato? Perderà la testa?
Esiste la possibilità, ma è estremamente rara (confusione, allucinazioni), meno nei giovani, più negli anziani. Nulla che non si possa controllare.
Non si potrà più sospendere il trattamento?
L'obiettivo di preservare la migliore qualità di vita, la possibilità di comunicare con i parenti e le altre persone, non è possibile in presenza di dolori. La terapia sarà proseguita finché è coerente con l'obiettivo che di propone.
La famiglia talora si spaventa quando dopo l'introduzione degli oppioidi, il loro caro sembra dimostrare più stanchezza, astenia e sonnolenza. Vale la pena di spiegare che questi sintomi sono dovuti più alla malattia che alla morfina. Sollevati i dolori è possibile che il malato si rilassi e recuperi, per qualche giorno, il sonno che ha perduto a causa del dolore non controllato. Monitoraggio
Un trattamento antalgico necessita di frequenti valutazioni e rivalutazioni, e questo richiede molto tempo ed energia. L'interdisciplinarietà e il lavoro in rete acquista qui tutto il suo senso. Oltre ad uno scambio frequente di informazioni sulla situazione clinica e sugli obiettivi terapeutici, è necessario mettere in atto delle condizioni che rendono effettiva la collaborazione tra tutti i curanti basata sul proseguimento di un obiettivo comune, sul riconoscimento delle competenze e dei limiti di ciascuno. Conclusioni
Il dolore è un'esperienza fisica, morale, sociale, culturale intrinseca alla natura umana mai eliminabile totalmente. Ma questo non vuol dire che ci si debba rassegnare alla sofferenza e al dolore proprio, ma soprattutto degli altri, di coloro che si affidano alle cure dei sanitari. Dare un senso al dolore è una scelta individuale che va rispettata ma non può assolutamente essere imposta. La medicina deve farsi carico del dolore, nella sua soggettività, complessità, incertezza così come, molto efficacemente, si fa carico di malattie anche gravi. I mezzi per eliminarlo o almeno tentarci esistono: farmaci, tecniche non farmacologiche, interventi invasivi. Forse l'arma più potente è la consapevolezza da parte dei curanti in primis, ma da parte di tutti che il dolore non nobilita l'uomo, ma lo umilia. Non usare tutti i mezzi a disposizione per motivi ideologici vuol dire non sapere cosa è la sofferenza e la solidarietà umana. Forse nemmeno fare bene il proprio dovere di curanti. Bibliografia
1. Morris DB. Le sfide del dolore e della sofferenza, in Trattamento clinico del dolore - dolore cronico. CIC Ed. Internazionali, Roma, 2003, pag.4. 2. Chapman CR, Gavrin J. Suffering; the contribution of persistent pain. Lancet 1999; 353: 2233-7. 3. Rich Ben A. Il dolore nella società: prospettive etiche e legali, in Trattamento clinico del dolore – dolore cronico, CIC Ed. Internazionali, Roma, 2003, pag. 28. 4. Guerci A, Consigliere S. Il dolore tra biologia e cultura, in Il dolore. Biblioteca di Etnomedicina. 5. Marchionni F. Il dolore come modello comunicativo, in Il DoloreBiblioteca di Etnomedicina, n. 2, 2000. 6. Viano CA. in Foriero G. Bioetica cattolica bioetica laica, pag.85. 7. Lebreton D. Antropologie de la douleus, in Cadorè B. Une politique pour une medecine de la douleur. Ethica Clinica, n.19, 2000. 8. Cadorè B. Douleurs: résistances, réticenses? Une politique pour une medecine de la douleur. Ethica Clinica, n.19, 2000. 9. La cultura religiosa ha una influenza importante, imprimendo il suo marchio su comportamenti e valori che investono tanto chi soffre quanto chi cerca di lenire il dolore. I medici scandinavi hanno iniziato molto prima, e a dosi maggiori, a prescrivere la morfina rispetto a quelli dell'Europa meridionale, mentre i medici di tradizione cattolica hanno a lungo manifestato diffidenza a prescriverla. In Giappone, il consumo è considerevolmente inferiore rispetto all'occidente. Sensi molteplici sono attribuiti al dolore a seconda del gruppo di appartenenza e questo, come è ovvio, influenza la soglia nocicettiva e la capacità di resistenza.Uno studio di Zborowski (People M. in Pain, Jossey-Bass Inc., San Francisco, 1969 citato da Guerci L'arco di Giano 2002 n. 31) ha preso in esame il comportamento di risposta al dolore messo in atto da persone di quattro diverse discendenze: anglosassone, ebrea, irlandese, italiana.
Anglosassoni
Irlandesi
Ebrei
Italiani
Controllano in modo ferreo l'espressione del dolore. L'autocontrollo è reputato comportamento adulto
Negano l'esistenza del dolore e della malattia.
Manifestano senza remore i sintomi.
Manifestano senza remore i sintomi.
Considerano italiani ed ebrei infantili e poco virili.
Considerano anglosassoni e irlandesi freddi e disumani.
10. Merini A. Vuoto d'amore. Ed Einaudi, pag.125. Ieri ho sofferto il dolore,/non sapevo che avesse una faccia sanguigna,/le labbra di metallo dure,/una mancanza netta d'orizzonti./ Il dolore è senza domani/ è un muso di cavallo che blocca i garretti possenti,/ma ieri sono caduta in basso,/le mie labbra si sono chiuse/e lo spavento è entrato nel mio petto/con un sibilo fondo/e le fontane hanno cessato di fiorire,/la loro tenera acqua/era soltanto un mare di dolore/in cui naufragavo dormendo,/ma anche allora avevo paura/degli angeli eterni./Ma se sono così dolci e costanti/perché l'immobilità mi fa terrore? 11. Terzani T. La fine è il mio inizio. Longanesi 2006, pag. 428. 12. Turoldo DM in Zavoli S. Credere, non credere. Ed. Piemme 1996. 13. Gioffrè D. Il dolore non necessario, in Le vie del dolore sono infinite. Bollato Boringhieri, 2004, pag.17. 14. Art.3 del Codice di deontologia medica 2006. 15. Weiss S et al. Understanding the experience of pain in terminally ill patients. Lancet 2001; 257:1311-15. 16. Procedure per la rilevazione ed il controllo del dolore. Distretto di Trento Valle dei Laghi. U.O. di Assistenza Territoriale-Servizio Cure Domiciliari, 13/6/2005. 17. Marino IR. Credere e Curare. Ed. Einaudi 2005, pag. 80-81. 18. McGill. Pain Questionnaire. 19. Turk DC, Okifuji A. Valutazione clinica della persona con dolore cronico, in Trattamento clinico del dolore – dolore cronico. CIC Ed. Internazionali, Roma, 2003, pag.69. 20. Ibidem, pag. 74. 21. Guerci A, Consigliere S. Per un'antropologia del dolore: biologia, cultura, storia. Arco di Giano 2002, n. 31, pag.1523. 22. Ibidem. 23. Ventafridda V. Verso un ospedale senza dolore, in Il dolore non necessario, pag. 121. 24. WHO. Cancer Pain Relief. Ginevra, 1986. 25. Goucke CR, Graziotti PJ. Oppioidi orali e dolore cronico non oncologico, in Trattamento clinico del dolore – dolore cronico. CIC Ed. Internazionali, Roma 2003, pag.171. 26. Morgan JP. American opiophobia: customary underutilization of opioid analgesic. Adv Alcohol Subst Abuse1985. 27. Gomas JM. La Revue dupraticien 2000.