Giorgia De Berardis CORE (Center of Outcomes Research and clinical Epidemiology), Pescara
Prevalenza diabete
In base agli ultimi dati ARNO la prevalenza del diabete in Italia è del 6,2%, un dato sottostimato secondo gli autori del rapporto, che deriva dal tipo di dati a disposizione che identifica solo i soggetti trattati farmacologicamente o ospedalizzati per la patologia o soggetti con l’esenzione. In base a queste considerazioni la prevalenza dovrebbe pertanto raggiungere una stima pari all’8%, dato confermato anche dalle ultime stime dell’International Diabetes Federation (IDF) (prevalenza del 7,9% [7,1-9,2])1.
Recentemente sono stati pubblicati i dati del più grande studio sul diabete condotto fino ad oggi, che deriva da informazioni relative a 751 studi di popolazione che coinvolgevano oltre 4 milioni di adulti nel mondo in un arco temporale di 34 anni (dal 1980 al 2014). Il numero di soggetti affetti da diabete nel corso del periodo considerato è quadruplicato, con una prevalenza a livello mondiale standardizzata in base all’età che è passata dal 4,3% nel 1980 al 9,0% nel 2014 negli uomini e dal 5% al 7,9% nelle donne2.
Il diabete è inoltre responsabile a livello mondiale di circa 1.3 milioni di decessi nel 2010, il doppio rispetto a 20 anni prima3, mentre a livello italiano si stima che il diabete sia stato responsabile di oltre 22.000 decessi nel 20151.
Target glicemici
Il controllo metabolico rimane l’aspetto principale nella gestione del diabete di tipo 2, anche se deve essere sempre stabilito nel contesto di un programma più ampio di valutazione del rischio cardiovascolare complessivo. Diversi studi hanno infatti dimostrato in modo conclusivo l’importanza del controllo metabolico nella riduzione dell’incidenza di eventi microvascolari4,5. L’impatto del controllo glicemico sulla riduzione delle complicanze macrovascolari rimane invece controverso: un beneficio modesto sembra probabilmente emergere solo dopo diversi anni dal miglioramento della condizione metabolica6.
In base alle linee-guida7,8 il target glicemico da raggiungere è più o meno stringente in relazione alla durata della malattia e alla presenza di comorbidità: obiettivi più stringenti con valori di emoglobina glicata al di sotto del 6,5% (≤48 mmol/mol) dovrebbero essere perseguiti in pazienti di nuova diagnosi o con diabete di breve durata, senza precedenti di patologie cardiovascolari, in discreto compenso glicemico e senza comorbidità; obiettivi meno stringenti (HbA1c ≤8,0% [≤64 mmol/mol]) dovrebbero essere perseguiti in pazienti con diabete di lunga durata, con precedenti di malattie cardiovascolari o una lunga storia di inadeguato compenso glicemico o fragili per età e/o comorbilità.
L’aspetto che viene sottolineato è inoltre l’importanza di tenere sempre in considerazione il rischio di ipoglicemie nella scelta del target glicemico da raggiungere. Recenti studi hanno infatti evidenziato che un eccessivo controllo metabolico in soggetti anziani con una patologia ad uno stadio più avanzato potrebbe non solo non dare benefici, ma presentare dei rischi aggiuntivi9.
È tuttavia interessante constatare come sul versante del controllo pressorio le evidenze siano invece a favore di un controllo stringente: lo studio SPRINT (Systolic Blood Pressure Intervention Trial), recentemente pubblicato, ha infatti dimostrato che un controllo pressorio intensivo ha ridotto di circa il 27% l’incidenza di eventi cardiovascolari maggiori (infarto, sindrome coronarica acuta, ictus, scompenso cardiaco acuto e morte per malattie cardiovascolari), rispetto ad un target più permissivo10.
Tuttavia, è necessario sottolineare che dallo studio erano esclusi i pazienti affetti da diabete di tipo 2. A differenza dello studio SPRINT, nello studio ACCORD BP (Action to Control Cardiovascular Risk in Diabetes Blood Pressure), l’outcome cardiovascolare combinato (infarto miocardico, ictus o morte cardiovascolare) era simile e si era ridotto del 12% con il trattamento intensivo rispetto al trattamento standard (differenza tuttavia non statisticamente significativa). Lo studio ACCORD BP aveva tuttavia un disegno fattoriale per il quale i pazienti erano randomizzati a raggiungere target pressori e/o glicemici.
Considerando l’analisi post-hoc solo sui pazienti randomizzati al trattamento intensivo per la riduzione della pressione ma non della glicemia, l’outcome combinato si riduceva del 26%, un risultato quindi sovrapponibile a quello ottenuto nello SPRINT.
Da tutte queste evidenze si è progressivamente passati da una terapia indicata e raccomandata per tutte le persone con diabete ad un approccio personalizzato, che bilanci i benefici del controllo metabolico con i potenziali rischi tenendo in considerazione gli eventi avversi dei farmaci ipoglicemizzanti (in particolare le ipoglicemie), l’età del paziente e lo stato di salute. Nella popolazione anziana riveste un ruolo estremamente importante anche la valutazione del filtrato glomerulare, il rischio di ipoglicemia e l’assetto nutrizionale.
Personalizzazione della terapia del diabete di tipo 2
Negli ultimi decenni si è assistito ad una progressiva crescita dell’armamentario terapeutico a disposizione nella cura del diabete che ha reso la gestione della patologia più complessa e controversa.
I diversi farmaci presentano infatti un profilo di efficacia simile anche se potrebbero esserci delle differenze in base alle caratteristiche di pazienti che quindi guiderebbero la scelta di un principio piuttosto che di un altro. Da ciò nasce il concetto di personalizzazione della terapia: la scelta del principio attivo non è basata esclusivamente sul criterio dell’efficacia, ma anche sulle proprietà farmacodinamiche del farmaco, dal suo profilo di sicurezza e dai costi11,12.
La personalizzazione della terapia enfatizza l’importanza di assumere tutte le decisioni in modo che siano prese il più possibile su misura del paziente13 al fine di migliorare la tollerabilità e la compliance al tempo stesso. Alla base di questo principio c’è l’identificazione delle caratteristiche del paziente (fenotipizzazione) su cui si applicano le migliori evidenze disponibili.
La scelta della terapia dovrebbe pertanto tener conto delle caratteristiche cliniche generali del paziente, quali l’età, la fragilità, la durata del diabete, il rischio di ipoglicemie, la presenza di obesità oltre che di specifiche comorbidità quali l’insufficienza renale o epatica e la presenza di complicanze cardiovascolari. Altre valutazioni da tenere in considerazione sono relative al tipo e alla prevalenza delle varie glicemie quotidiane, le quali a loro volta guidano la scelta terapeutica. La componente post-prandiale diventa fondamentale nei pazienti ben compensati, mentre quella a digiuno diventa preponderante quanto più i pazienti si allontanano dal target glicemico14. Ciò diventa importante nella scelta del principio attivo più efficace nei confronti dell’una o dell’altra componente, al fine di correggere l’alterazione glicemica prevalente.
La terapia centrata sul paziente è tuttavia estremamente difficile da attuare anche in considerazione del declino inevitabile delle beta-cellule; tutto ciò porta spesso all’uso di politerapie.
Algoritmi AIFA
La necessità di personalizzare la terapia per il diabete ha portato l’Agenzia Italiana del Farmaco a sviluppare un algoritmo elettronico come strumento di appropriatezza prescrittiva e prescrivibilità in linea con le evidenze disponibili. L’Algoritmo per la gestione del trattamento per il diabete di tipo 2 è stato sviluppato in base alle linee-guida nazionali ed internazionali e alle migliori evidenze disponibili e condiviso con la Società Italiana di Diabetologia (SID) e l’Associazione Medici Diabetologi (AMD), per supportare il clinico nel complesso compito di prescrivere la terapia più adeguata in base a ciò che è effettivamente rimborsato.
L’algoritmo complessivamente è costituito da 384 nodi ed è strutturato su 3 sezioni: individuazione del target glicemico, impostazione della terapia, modifica della terapia in caso di controindicazioni o intolleranza alla metformina. La complessità e la numerosità dei nodi riflette la complessità stessa della gestione della patologia. L’algoritmo ha lo scopo di guidare l’utente attraverso diversi passaggi, segnalando vantaggi e svantaggi delle diverse classi farmacologiche e lasciando in ultima analisi le decisioni al clinico.
Purtroppo la mancanza di confronti “head to head” tra tutte le opzioni terapeutiche a disposizione e la mancanza di dati su end-point maggiori a lungo termine rappresentano i limiti delle evidenze a disposizione così come i limiti dell’algoritmo stesso.
I valori di HbA1c proposti come target devono tener conto dell’obiettivo ragionevolmente raggiungibile limitando il rischio di ipoglicemie.
Nella terapia personalizzata viene attribuito all’automonitoraggio glicemico il ruolo di strumento per guidare le decisioni terapeutiche in base alla prevalenza delle glicemie pre e post-prandiali riscontrate, oltre che al valore dell’emoglobina glicata.
Le diverse opzioni terapeutiche
L’elenco dei diversi principi attivi disponibili in Italia e delle loro principali caratteristiche è riassunto nella tabella 1. A prescindere dal fenotipo del soggetto con diabete, tutte le maggiori linee-guida sono concordi nel raccomandare come farmaco di prima linea per il trattamento del diabete di tipo 2 la metformina, se tollerata e non controindicata8,15.
La metformina è una biguanide la cui azione insulino-sensibilizzante è legata alla inibizione della gluconeogenesi epatica e alla stimolazione dell’utilizzazione periferica di glucosio, in particolare da parte del muscolo.
Se utilizzata come monoterapia la metformina determina una riduzione dei livelli di emoglobina glicata di 1-2% oltre ad avere effetti sulla riduzione degli eventi microvascolari16. Il rischio di ipoglicemia è estremamente basso; non determina inoltre incremento di peso e sono numerose le evidenze a supporto di un possibile effetto protettivo nello sviluppo di alcune neoplasie17.
Il farmaco è ben tollerato e gli effetti collaterali principali sono rappresentati dai disturbi gastrointestinali; l’evento più severo, ma raro, è l’acidosi lattica che si manifesta solo in presenza di insufficienza renale severa, insufficienza cardiaca congestizia, insufficienza epatica e abuso cronico di alcool, che rappresentano pertanto controindicazioni all’uso del farmaco.
Per quanto riguarda la terapia di seconda linea, in caso di insufficiente controllo metabolico, manca un generale consenso. Si ha infatti la possibilità di associare alla metformina le seguenti classi di farmaci: sulfanilurea, tiazolidinedioni, inibitori del DPP-4, agonisti del GLP-1, inibitori del SGLT-2 o insulina analogo basale. Queste classi di farmaci determinano una riduzione simile dell’emoglobina glicata (pari circa allo 0,9-1,1%)18 ma, a parità di effetto sull’emoglobina glicata, la loro azione ha una diversa efficacia nei confronti delle due componenti dell’iperglicemia.
La classe delle sulfaniluree agisce prevalentemente sulla glicemia a digiuno; esplicano la loro azione di secrezione insulinica mediante il legame ai canali del potassio ATP-dipendenti nelle cellule del pancreas. Hanno la capacità di ridurre l’HbA1c di 1-2%, tuttavia presentano diversi effetti collaterali: ipoglicemie soprattutto in pazienti anziani o con insufficienza renale cronica, incremento ponderale e graduale perdita di efficacia.
Altri secretagoghi a rapida azione, le meglitinidi, possono essere usate al posto delle sulfaniluree in soggetti con pasti ad orario irregolare o in coloro che, con l’uso di sulfaniluree, sviluppano in ritardo ipoglicemia postprandiale. Hanno eliminazione prevalentemente epatica e possono essere pertanto impiegate in pazienti con insufficienza renale (fino a 20-30 ml/min/1,73 m2).
Altri farmaci, quali gli inibitori dell’alpha-glucosidasi (acarbosio), inibiscono in modo reversibile l’azione dell’enzima alfa-glucosidasi situato nella mucosa dell’intestino tenue, determinando un ritardo nella idrolisi e digestione intestinale dei carboidrati complessi con successivo ritardo nell’assorbimento di glucosio e attenuazione della glicemia post-prandiale.La loro efficacia è modesta e lo stesso meccanismo d’azione è responsabile anche dei frequenti effetti collaterali che si evidenziano a carico dell’intestino e che possono interferire sulla compliance del paziente: flatulenza, dolori addominali, diarrea, dispepsia, nausea. Il farmaco è inoltre controindicato in caso di malattie croniche intestinali e una funzione renale gravemente compromessa con una clearance creatinina < 25 ml/min/1,73 m2.
L’utilizzo dell’acarbose tuttavia può essere utile in situazioni in cui vi è discrepanza tra i valori di glicemia a digiuno e post-prandiali e il suo meccanismo d’azione risulta adatto per essere utilizzato in combinazione con altri farmaci antidiabetici. Inoltre, è in corso uno studio (Acarbose Cardiovascular Evaluation - ACE) per valutare se il farmaco ha anche effetti positivi nella prevenzione secondaria degli eventi cardiovascolari19.
I tiazolidinedioni (o glitazoni) sono agonisti selettivi del PPA-R (peroxisome proliferator-activated receptor gamma), recettore nucleare presente soprattutto a livello degli adipociti, che attiva la trascrizione di geni coinvolti nel metabolismo dei lipidi e dei carboidrati.
Il pioglitazone, unico farmaco in commercio in Italia appartenente a questa classe, riduce l’insulinoresistenza, l’insulina e gli acidi grassi liberi, riducendo l’HbA1c di 1-1,5%. Ha un modesto effetto anche sul profilo lipidico determinando un incremento dei livelli di colesterolo-HDL e una riduzione dei trigliceridi.
Tra gli effetti collaterali si deve menzionare l’aumento ponderale, la possibile comparsa di edema e la riduzione della densità ossea con aumento del rischio di fratture ossee nelle donne.
L’aumento del rischio di neoplasia della vescica, dalle ultime evidenze a disposizione non sembra più essere un rischio associato all’uso del pioglitazone: in un recente studio di 10 anni di osservazione20 che analizzava i dati relativi a 4 anni di utilizzo non è stata trovata alcuna associazione tra uso di pioglitazone e tumore alla vescica. Tuttavia gli autori non escludono che il rischio possa presentarsi con un utilizzo a più lungo termine.
Gli incretino-mimetici sono farmaci che agiscono modulando l’asse delle incretine mediante due diversi meccanismi: inibendo l’enzima DPP-4 (dipeptidil peptidasi-4), che degrada l’ormone incretinico GLP-1 nativo (inibitori della DDP-4 o gliptine) e agendo come agonisti del recettore del GLP-1 (analoghi del recettore del GLP-1). Entrambe queste classi stimolano la secrezione insulinica in modo glucosio-dipendente, riducendo in questo modo il rischio ipoglicemico.
Gli inibitori del DPP-4 disponibili in Italia presentano tutti un profilo di efficacia e sicurezza paragonabile; hanno un effetto neutrale sul peso e non presentano effetti di rilievo sullo svuotamento gastrico. Il rischio di ipoglicemia è basso e presentano un buon profilo di tollerabilità. Si possono somministrare in monoterapia o in associazione una volta al giorno (ad eccezione di vildagliptin) e determinano una riduzione di HbA1c dello 0,6-0,8%.
La rivista francese La Revue Prescrire ha inserito gli inibitori del DPP-4 (linagliptin, saxagliptin, sitagliptin e vildagliptin) tra i farmaci “da evitare”21a causa del rischio di eventi avversi legati al loro utilizzo che includono reazioni anche severe di ipersensibilità (anafilassi, sindrome di Stevens-Johnson), infezioni (del tratto urinario e del tratto respiratorio superiore), pancreatiti, pemfigoide bollosa e ostruzione intestinale, a fronte di una non provata efficacia nella riduzione delle complicanze cardiovascolari.
Una valida opzione terapeutica è rappresentata dagli analoghi del GLP-1, farmaci efficaci, con un rischio ridotto di ipoglicemie e effetti anche sul peso corporeo. Tale classe si divide in base alla durata di azione in “short-acting” (exenatide e lixisenatide) e “long-acting” (liraglutide, albiglutide, exenatide ER, dulaglutide); queste ultime formulazioni hanno anche il vantaggio di possedere una lunga emivita che permette somministrazioni anche settimanali (Exenatide ER) e pertanto maggiore flessibilità e aumento della compliance del paziente. Inoltre, i risultati di una meta-analisi hanno evidenziato una maggiore efficacia degli agonisti long-acting rispetto agli short-acting nella riduzione dei livelli di HbA1c e di glicemia a digiuno quando aggiunti alla metformina22. Gli short-acting sembrano al contrario più efficaci sull’iperglicemia post-prandiale.
Tuttavia, essendo peptidi di grosse dimensioni, necessitano di somministrazioni per via parenterale, e inducono in maniera dose-dipendente nausea e vomito.
Gli agonisti del recettore del GLP-1, inoltre, ritardano lo svuotamento gastrico e riducono l’appetito determinando di fatto una riduzione del peso corporeo. L’importanza di tale caratteristica è stata sfruttata ai fini del trattamento dell’obesità: la liraglutide è, infatti, stato recentemente approvato, al dosaggio di 3 mg, per il trattamento di soggetti obesi o in sovrappeso con ulteriori comorbidità correlate al peso23.
L’ultimo farmaco approvato appartenente a questa classe farmacologica è la dulaglutide (Trulicity®)24, indicato sia in monoterapia, in caso di inadeguato controllo glicemico in pazienti per i quali la metformina non è tollerata o sia controindicata, sia in associazione ad altri ipoglicemizzanti compresa l’insulina. La dulaglutide è un analogo del GLP-1 a lunga durata a somministrazione settimanale. È disponibile, in formulazione iniettabile, ai dosaggi di 0,75 e 1,5 mg. La dulaglutide, nei 6 trial di registrazione (Studi AWARD), ha dimostrato, sia in monoterapia sia in associazione, di essere efficace nella riduzione dell’emoglobina glicosilata (riduzione dello 0,6-1,6% con il dosaggio di 1,5 mg). Si è osservata anche una riduzione del peso corporeo di 3,2 Kg. Il farmaco, infine si è dimostrato non inferiore alla liraglutide 1,8 mg con una riduzione di HbA1c pari a 1,42% e 1,36% nei pazienti trattati con dulaglutide e liraglutide, rispettivamente.
Sono stati recentemente pubblicati i risultati relativi ai primi anni di monitoraggio dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) relativi a oltre 75.000 pazienti presenti nel registro AIFA, che sono stati trattati con exenatide, sitagliptin e vildagliptin. I farmaci si sono dimostrati efficaci (riduzione dell’HbA1c di 0,9-1,0%), con un’incidenza di pancreatite molto bassa. Il tasso di abbandono per inefficacia è risultato tuttavia piuttosto elevato (7,7% dei pazienti in trattamento con exenatide, 3,8% con sitagliptin, e 4,1% con vildagliptin)25.
La classe di farmaci antidiabetici più recente è rappresentata dagli inibitori del co-trasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2) (o gliflozine). Rispetto agli altri farmaci presentano un’efficacia simile nella diminuzione dei livelli di emoglobina glicata senza aumentato rischio di ipoglicemie. Il loro meccanismo d’azione è basato sulla inibizione del SGLT2 a livello del tubulo renale prossimale riducendo pertanto il riassorbimento del glucosio filtrato e aumentando la secrezione di glucosio. Dal momento che l’azione si esplica indipendentemente dall’insulina, i farmaci di questa classe possono essere utilizzati in qualsiasi stadio della malattia.
Gli inibitori del SGLT2 determinano inoltre una modesta perdita di peso e una importante riduzione dei livelli pressori. Gli effetti collaterali più comuni includono le infezioni genitourinarie e un lieve aumento di deplezione di volume. I pazienti che potrebbero trarre maggior beneficio dal loro utilizzo sono quelli che presentano sovrappeso/obesità, ipertensione arteriosa, rischio correlato all’insorgenza di ipoglicemie, e sindrome metabolica (per l’effetto favorevole di diverse gliflozine su colesterolo HDL, trigliceridi e acido urico). Tali farmaci sono tuttavia controindicati in coloro che presentano insufficienza renale, rischio di deplezione di volume, infezioni urinarie ricorrenti e nei pazienti anziani fragili.
Dopo dapagliflozin ed empagliflozin, è stato recentemente approvato dalle agenzie regolatorie europea ed italiana anche l’immissione in commercio del canagliflozin da solo (Invokana in dosaggi 100mg; 300 mg) o associato alla metformina in confezione precostituita (Vokanamet in dosaggi da 50 mg/850 mg; 50 mg/1000 mg; 150 mg/850 mg; 150 mg/1000 mg;)26. Canagliflozin è indicata in monoterapia o in aggiunta ad altri ipoglicemizzanti, compresa l’insulina.
L’efficacia clinica del farmaco si basa sui dati di nove studi clinici e ha dimostrato una efficacia di riduzione dell’HbA1c che varia da 0,77-1,03% in monoterapia, a 0,79-0,94% se associata a metformina, a 0,63-0,72% se associata ad insulina.
Gli effetti benefici si osservano anche nella riduzione del peso corporeo e nel basso rischio di ipoglicemia. Gli effetti collaterali più frequenti rientrano tra quelli comunemente riscontrati nell’intera classe farmacologica dei SGLT2.
È stata recentemente distribuita una nota informativa da parte della ditta produttrice in accordo con le autorità regolatorie europee e con l’AIFA che pone l’attenzione sulla aumentata incidenza di amputazioni a livello degli arti inferiori (soprattutto a carico delle dita del piede), riscontrata nel corso dello studio CANVAS (CANagliflozin cardioVascular Assessment Study). Il meccanismo che determina tale rischio non è ancora stato chiarito, anche se potrebbero essere coinvolti i noti effetti avversi correlati alla deplezione di volume e alla disidratazione.
Nei prossimi 2-3 anni saranno disponibili i risultati di trial a lungo termine su farmaci antidiabetici che aiuteranno anche a ottimizzare le strategie terapeutiche. Un grande studio di efficacia comparativa americano è in corso e valuterà l’efficacia e la sicurezza a lungo termine delle terapie per il diabete da utilizzare dopo il fallimento della monoterapia con metformina27.
La terapia insulinica infine può essere iniziata a qualsiasi livello, prima che si arrivi ad uno scompenso metabolico8, cioè prima che si superi dello 0,5% il target di HbA1c individuato per il paziente.È stato recentemente approvato anche il primo biosimilare dell’insulina glargine, la cui qualità, efficacia, sicurezza e immunogenicità è sovrapponibile a quella del suo originator. Ulteriori dati sono tuttavia necessari per consolidare la sovrapponibilità clinica dei due prodotti, soprattutto nei pazienti già in trattamento con insulina glargine.
La sicurezza cardiovascolare
Dopo il ritiro dal commercio del rosiglitazone per l’aumentato rischio di infarto del miocardio, nel 2008 la FDA ha richiesto per tutti i farmaci antidiabetici che fossero condotti degli studi che valutassero in modo appropriato l’efficacia anche in termini di riduzione degli eventi cardiovascolari28. Sono infatti stati pubblicati, negli ultimi anni, i risultati di alcuni di questi studi.
Gli studi SAVOR-TIMI 53 (Saxagliptin Assessment of Vascular Outcomes Recorded in Patients with Diabetes Mellitus -Thrombolysis in Myocardial Infarction) ed EXAMINE (Examination of Cardiovascular Outcomes with Alogliptin versus Standard of Care in Patients with Type 2 Diabetes Mellitus and Acute Coronary Syndrome)29, che hanno studiato la saxagliptin e l’alogliptin rispettivamente, hanno dimostrato che non emergono differenze in termini di eventi cardiovascolari rispetto al placebo, rassicurando sulla sicurezza cardiovascolare di tali classi di farmaci.
Nello studio SAVOR-TIMI 53, tuttavia, si evidenziava un lieve incremento, statisticamente significativo, del rischio di ospedalizzazione per scompenso cardiaco nei pazienti trattati con saxagliptin30.
Più recentemente, sempre nell’ambito degli inibitori del DPP-4, lo studio TECOS (Trial Evaluating Cardiovascular Outcomes with Sitagliptin) ha valutato la sicurezza cardiovascolare a lungo termine del sitagliptin31 in pazienti con diabete di tipo 2 e patologia cardiovascolare. Lo studio ha confermato i risultati dei trial precedenti: l’aggiunta di sitagliptin alla terapia standard non aumentava il rischio cardiovascolare.
Gli studi CARMELINA (Cardiovascular and Renal Microvascular Outcome Study With Linagliptin in Patients With Type 2 Diabetes Mellitus), e CAROLINA (Cardiovascular Outcome Study of Linagliptin Versus Glimepiride in Patients With Type 2 Diabetes) sulla linagliptin, dovrebbero aggiungere maggiori informazioni a riguardo: i risultati sono attesi per il 2018.
Lo studio ELIXA (Evaluation of Lixisenatide in Acute Coronary Syndrome), allo stesso modo, ha studiato l’effetto della terapia con lixisenatide in pazienti con diabete di tipo 2 e recente evento coronarico acuto32. Il trial ha dimostrato che il trattamento con lixisenatide non si associa ad un incremento di eventi cardiovascolari maggiori rispetto al placebo.
Gli ultimi risultati provengono dallo studio LEADER (Liraglutide Effect and Action in Diabetes: Evaluation of Cardiovascular Outcome Results—A Long Term Evaluation) e sono stati mostrati al recente congresso dell’American Diabetes Association (ADA) e contestualmente pubblicati33. Il trial aveva lo scopo di valutare l’efficacia di liraglutide 1.8 mg sulla mortalità cardiovascolare, infarto del miocardio e ictus rispetto al placebo in oltre 9000 pazienti seguiti per circa 5 anni e ha dimostrato una riduzione del 13% (HR=0,87; IC 95% 0,78-0,97) degli eventi cardiovascolari e del 22% (HR=0,78; IC 95% 0,66-0,93) della mortalità cardiovascolare nel gruppo in trattamento con liraglutide.
Lo studio EXSCEL (Exenatide Study of Cardiovascular Event Lowering Trial) per testare la sicurezza cardiovascolare per un periodo di 5.5 anni di exenatide 2 mg a settimana in 9500 pazienti con diabete di tipo 2 è invece ancora in corso (i risultati dovrebbero essere resi disponibili per il 2018). Il primo trial a dimostrare la superiorità degli antidiabetici nella riduzione delle complicanze macrovascolari è stato lo studio EMPA-REG OUTCOME34, il trial cardiovascolare sull’empagliflozin, che si è dimostrato superiore al placebo nella riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori (mortalità cardiovascolare, infarto del miocardio ed ictus), nella mortalità totale, nella mortalità cardiovascolare e nelle ospedalizzazioni per scompenso cardiaco. Gli autori hanno stimato che per prevenire un decesso in questa popolazione è necessario trattare 39 soggetti per 3 anni.
Dato il beneficio ottenuto in modo rapido, e le modeste riduzioni in termini glicemici, pressori e di peso ottenuti dal farmaco, il beneficio dell’empagliflozin potrebbe essere legato all’effetto osmotico-diuretico di questa classe di farmaci.
Tuttavia la possibilità di avere una risposta a riguardo potrà essere verificata solo dopo la conclusione di studi simili su altre gliflozine (CANVAS [CANagliflozin cardioVascular Assessment Study], CREDENCE [Canagliflozin and Renal Events in Diabetes with Established Nephropathy Clinical Evaluation Trial] e DECLARE-TIMI 58 [Multicenter Trial to Evaluate the Effect of Dapagliflozin on the Incidence of Cardiovascular Events] per canagliflozin e dapagliflozin, rispettivamente).
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