Il trattamento farmacologico del paziente parkinsoniano
Vito Samarelli Dip. di Farmacologia Clinica e Epidemiologia, Consorzio Mario Negri Sud e Dip. di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Università di Bari
Vito Lepore Dip. di Farmacologia Clinica e Epidemiologia, Consorzio Mario Negri Sud e Dip. di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Università di Bari
Paolo Lamberti Dip. di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Università di Bari
Paolo Livrea Dip. di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Università di Bari
La malattia che James Parkinson ha descritto nel 1817, già nota nell'antichità, è causata dalla degenerazione neuronale, cronica e progressiva, della substantia nigra del mesencefalo e di altri nuclei pigmentati del troncoencefalo. Presente in tutto il mondo, in ogni razza e cultura, colpisce più il sesso maschile che quello femminile (M/F 1,54). Secondo l'OMS, la sua prevalenza nei paesi occidentali è di circa 360 ogni 100 mila persone, lo 0,5% della popolazione generale e circa l'1% della popolazione ultra60enne. E' una malattia tipicamente correlata all'età con una incidenza rapidamente crescente da 0,3 per 1.000 soggetti di età da 55 a 65 anni, a 4,4 per 1.000 in soggetti di età superiore o uguale a 85 anni1-5. Clinicamente, la malattia di Parkinson (MP) è caratterizzata da sintomi motori e non motori il cui trattamento si presenta complesso a causa della cronicità della condizione, della costante progressione della malattia, della parziale efficacia dei farmaci e della insorgenza di effetti indesiderati nella terapia a breve e a lungo termine.
Gli obiettivi da perseguire nel trattamento del paziente con MP sono costituiti essenzialmente dal rallentamento della progressione della malattia, dal controllo dei sintomi motori con prevenzione delle fluttuazioni motorie e delle discinesie e dal trattamento dei sintomi non-motori. In Tabella 1 sono riportati i possibili interventi terapeutici per segni e sintomi della MP in rapporto alla strategia terapeutica adottata (farmacologica, chirurgica, riabilitativa) e ai principali meccanismi d'azione.
Attualmente non esiste una terapia che "curi" la malattia bloccando il processo degenerativo, riducendo la perdita neuronale e che ripristini la trasmissione dopaminergica nelle vie danneggiate. Nel trattamento della MP, la sfida si muove tra dati consolidati dall'osservazione-sperimentazione clinica e speranze derivanti dallo studio delle potenzialità terapeutiche di nuove molecole, dalle possibili prospettive in tema di neuroprotezione, dal rinnovato interesse per la neurochirurgia funzionale e dalle frontiere aperte dal trapianto cellulare.
La farmacoterapia
Il presente articolo riassume le evidenze per un corretto utilizzo dei farmaci disponibili sulla base delle specifiche indicazioni, proprietà sintomatiche ed eventi avversi. Fondamentale è la conoscenza della loro efficacia clinica e, per la cronicità della condizione, degli effetti a lungo termine. Proprio in considerazione della peculiarità del contesto clinico in cui questi farmaci debbono essere impiegati è opportuno distinguere la terapia della MP in:
- trattamento sintomatico della fase precoce della malattia con l'impiego, quando raccomandato, di monoterapia senza e con levodopa;
- trattamento della malattia in fase avanzata ovvero di soggetti già in trattamento con levodopa, con una risposta stabile o fluttuante e che, spesso, ricevono politerapie per mantenere il controllo del complesso quadro clinico caratterizzato dalla diversa combinazione di sintomi motori (tremore a riposo, acinesia, rigidità); complicanze motorie (fluttuazioni e discinesie) e sintomi non motori (disfunzione autonomica, demenza, psicosi, depressione, ecc..).
Il trattamento sintomatico della fase precoce della MP
Il trattamento della fase precoce, pur orientato al controllo dei sintomi iniziali della malattia, deve mirare a dilazionare l'uso della levodopa e a rallentare la progressione della malattia. Le controversie sul trattamento di questa fase sono ancora oggi incentrate sul momento in cui iniziare la terapia e sul farmaco di prima scelta. In generale, la letteratura concorda sulla opportunità di iniziare il trattamento farmacologico quando i pazienti sperimentano la disabilità funzionale e sociale dovuta ai sintomi della malattia e sulla necessità di una personalizzazione del regime terapeutico che tenga conto di età e stato cognitivo, problematicità dei sintomi, stato funzionale, comorbilità. Assunta la decisione di iniziare il trattamento, l'opzione resta tra monoterapia con dopamino-agonisti o monoterapia con levodopa + inibitore delle dopa-decarbossilasi.L'orientamento generale, sulla base della indicazioni della letteratura, è di preferire una monoterapia con dopamino-agonisti nei pazienti più giovani, più sani o meno complicati, soprattutto in considerazione della migliore tollerabilità ad eventi avversi e della più rara evenienza di discinesie. Tale complicanza è invece favorita dai dopamino-agonisti nei pazienti più anziani e più fragili per i quali deve, perciò, essere preferita la levodopa+inibitore della dopa-decarbossilasi (di seguito indicata brevemente come terapia con levodopa) come opzione terapeutica iniziale6.
I dopamino-agonisti vs. levodopa
I dopamino-agonisti (DA) (Tabella 2 e 3) sono tutti efficaci nel trattamento della fase precoce della MP. Sebbene questi farmaci siano stati inizialmente sviluppati per il trattamento della fase avanzata della MP, alcuni studi clinici recenti hanno supportato il loro uso in monoterapia di prima scelta per ritardare l'introduzione della levodopa e quindi l'instaurarsi di complicanze motorie levodopa-dipendenti7. La cabergolina8, la pergolide9, il ropinirolo10 e il pramipexolo11,12, i DA più efficaci, sono stati studiati in monoterapia nella fase precoce della MP non trattata, valutando, come esiti principali, il miglioramento del punteggio alla Unified Parkinson Disease Rating Scale (UPDRS) e il tempo di comparsa di complicanze motorie.
Negli studi che avevano adottato il tempo di insorgenza della discinesia come misura di esito, nei pazienti trattati con ropinirolo o pramipexolo in monoterapia, si sono sviluppate meno frequentemente complicanze motorie rispetto ai pazienti trattati inizialmente con levodopa. Questo effetto è stato osservato anche quando il gruppo trattato con DA aveva assunto levodopa supplementare per il controllo dei sintomi motori. Tali riscontri supportano la raccomandazione di iniziare la terapia sintomatica con DA in pazienti con MP senza alterazioni della funzione cognitiva. Ci sono comunque alcune avvertenze da considerare:
a) i pazienti trattati con DA lamentano più spesso eventi avversi come nausea, sonnolenza, allucinazioni, edema degli arti inferiori e ipotensione ortostatica rispetto a quelli trattati con levodopa; b) sia nello studio con ropinirolo che con pramipexolo, i pazienti non raggiungono gli stessi benefici, sul controllo dei sintomi, di quelli trattati con levodopa. Se ciò sia dovuto ad una maggiore o più immediata efficacia della levodopa sui sintomi valutati alla UPDRS, rispetto ai pazienti trattati in monoterapia con DA, rimane una questione ancora aperta.
La recente segnalazione di aumentato rischio di comparsa di valvulopatie cardiache in pazienti trattati con pergolide (Nopar) ripropone, a tutti gli operatori, l'importanza della segnalazione degli effetti indesiderati quale strumento indispensabile ai fini di una continua valutazione del rapporto beneficio/rischio di un farmaco nelle condizioni reali di impiego. Pertanto, la pergolide deve essere utilizzata come farmaco di seconda linea, dopo che sia stato impiegato senza successo un DA non derivato dell'ergotamina (Tabella 2).
Nel trial ELLDOPA13, dosi variabili di levodopa (150, 300, 600 mg/die in dosi refratte vs. placebo) sono state somministrate per 9 mesi a soggetti con MP in fase precoce, mai trattati in precedenza. Dopo 2 settimane di washout, i pazienti trattati con le dosi più alte di levodopa presentavano il punteggio più basso di UPDRS e una quota di discinesie lievemente più alta. Pur nei limiti del periodo di follow up considerato, il confronto con il gruppo placebo confermava il forte beneficio della levodopa senza effetti sulla progressione di malattia.
In conclusione, alla generale raccomandazione sull'uso di DA nella fase precoce della MP come strategia per il risparmio di levodopa devono essere associate le seguenti considerazioni:
a) la levodopa rimane il farmaco sintomatico antiparkinsoniano più efficace e non sembra ancora dimostrato un chiaro effetto deleterio sul processo che sottende la malattia; b) la terapia con levodopa non dovrebbe essere rimandata nei pazienti con MP in fase precoce i cui sintomi non sono adeguatamente controllati da altri farmaci; c) mancano, a tutt'oggi, dati clinici definitivi a supporto del ruolo neuroprotettivo dei DA e di un possibile ritardo nella comparsa di complicanze motorie quando utilizzati come terapia iniziale14.
I farmaci da associare
I farmaci da impiegare in associazione sono rappresentati dagli inibitori delle MAO-B, dagli anticolinergici e dall'amantadina. L'abbondante letteratura conferma sostanzialmente il loro ruolo secondario dovuto, in diversa misura per i vari farmaci, al limitato effetto terapeutico-sintomatico oppure alla induzione di effetti indesiderati rilevanti. L'utilizzo di questi farmaci nella pratica clinica corrente giustifica la trattazione di seguito riportata.
MAO-B inibitori
La selegilina (es. Jumex) è tra i MAO-B inibitori più studiati, soprattutto come farmaco associato alla levodopa nella MP avanzata, e per le potenziali proprietà neuroprotettive. Agisce aumentando l'attività degli enzimi antiossidanti superossido dismutasi (SOD) e della catalasi (CAT) nelle regioni dopaminergiche cerebrali. I risultati dello studio DATATOP15 indicano che il farmaco è in grado di ritardare l'inizio della terapia dopaminergica e questo ha portato molti clinici a utilizzarlo nella fase precoce della MP. La selegilina viene somministrata in dosi da 5 a 10 mg/die; i benefici sintomatici sono modesti e i suoi metaboliti amfetaminici possono causare insonnia. Trials multicentrici non hanno dimostrato l'attività neuroprotettrice, ma confermano il beneficio sui sintomi motori così da dilazionare l'uso della levodopa16.
La rasagilina (non ancora disponibile in Italia) è un altro MAO-B inibitore irreversibile, non metabolizzato in derivati amfetamino-simili. E' recente la pubblicazione dello studio LARGO dove il farmaco (1 mg/die), impiegato come terapia adiuvante, è stato confrontato con l'entacapone (200 mg con ciascuna dose di levodopa), vs. placebo, in 687 pazienti con MP, già in trattamento con levodopa, per 18 settimane. Rasagilina ed entacapone si sono dimostrati entrambi più efficaci del placebo sia sulla misura di esito primaria, riducendo le fluttuazioni motorie valutate come valore medio giornaliero di off-time, sia migliorando il punteggio UPDRS. La rasagilina è risultata ben tollerata; nei tre gruppi di trattamento, non vi sono state differenze nei più frequenti eventi avversi come ipotensione, sintomi gastrointestinali, disturbi dell'attenzione17.
Una meta-analisi di 17 trials su un totale di 3.525 pazienti in fase precoce indica che gli inibitori delle MAO-B riducono la disabilità, il bisogno di levodopa e l'incidenza di fluttuazioni motorie, senza importanti effetti indesiderati o aumento della mortalità. Comunque, poiché gli studi di confronto tra MAO-B inibitori e altri farmaci antiparkinsoniani sono pochi, rimane l'incertezza sulla relazione tra rischi e benefici16.
Farmaci anticolinergici
Nel 1867, fu scoperto l'effetto antiparkinsoniano della tintura di Belladonna, somministrata ad alcuni pazienti per il trattamento della scialorrea. Inizialmente furono utilizzati preparati di atropina fino alla sintesi di anticolinergici come biperidene, bornaprina, metixene, orfenadrina, prociclidina, triesifenidile (Tabella 4), che agiscono mediante il blocco muscarinico a livello degli interneuroni striatali. L'efficacia antiparkinsoniana degli anticolinergici è modesta, interessa il 20% dei trattati e si manifesta soprattutto sul tremore e la rigidità. Il blocco muscarinico si esercita anche ad altri livelli del sistema nervoso centrale, periferico ed autonomo, e provoca la comparsa di eventi avversi come il deterioramento cognitivo, la ritenzione urinaria, la stipsi, la xerostomia e il deficit dell'accomodazione. Rappresentano controindicazioni assolute il glaucoma ad angolo acuto, l'ipertrofia prostatica e l'età avanzata (>70 anni) poiché facilitano i disturbi della memoria. Considerate le limitazioni e gli effetti indesiderati, gli anticolinergici costituiscono un trattamento alternativo, possono essere utili nei pazienti giovani con tremore non controllabile con i DA.
Amantadina
L'amantadina è un'amina triciclica ad azione antivirale con una debole azione antiparkinsoniana (Mantadan, 200 mg/die). Aumenta la sintesi presinaptica e il rilascio della dopamina, e ne inibisce la ricaptazione; possiede inoltre un'azione anticolinergica ed è antagonista dei recettori del glutammato di tipo NMDA (N-metil-D-aspartato)18. Viene escreta immodificata con le urine e i dosaggi devono essere individualizzati in base alla funzionalità renale. Nella fase precoce della MP, l'amantadina è stata utilizzata per trattare soprattutto il tremore. Può essere associata ad altri farmaci antiparkinsoniani con effetto sinergico, ma può determinare un peggioramento degli effetti indesiderati dei farmaci anticolinergici (secchezza delle fauci, annebbiamento della vista). Nei 6 studi analizzati dalla Cochrane19,20, l'amantadina, impiegata in monoterapia o come adiuvante in 215 pazienti con MP idiopatica, ha mostrato un effetto sovrapponibile al placebo. Con lo sviluppo di terapie più efficaci come i DA, l'amantadina viene usata raramente nella MP precoce e i problemi dermatologici (es. livedo reticularis), edema agli arti inferiori, insonnia, xerostomia, confusione ed allucinazioni ne limitano l'uso.
Il trattamento della malattia in fase avanzata
Il controllo dei sintomi e delle complicanze motorie
La levodopa resta il farmaco anti-parkinson più potente e l'asse portante del trattamento durante tutto il corso della malattia. La maggior parte dei pazienti che inizia il trattamento con DA, dopo 2-5 anni aggiunge levodopa. Dati clinici suggeriscono che la levodopa o rallenta la progressione della MP o ha un effetto prolungato sui sintomi della malattia. In contrasto, i dati di "neuroimaging" suggeriscono che la levodopa o accelera la perdita delle terminazioni nervose dopaminergiche nigrostriatali o che i suoi effetti farmacologici modificano i trasportatori di dopamina. I potenziali effetti della levodopa a lungo termine nella MP restano non del tutto definiti21. Per impedire la conversione periferica a dopamina da parte della dopa-decarbossilasi si somministrano associazioni con benserazide (Madopar) o carbidopa (Sinemet), quest'ultima, come il domperidone, utile nel ridurre la nausea da levodopa. Come ampiamente noto, i problemi maggiori sono essenzialmente dovuti al trattamento a lungo termine con levodopa per la comparsa di:
effetti indesiderati simili a quelli dei DA, ma con minore incidenza di sonnolenza, allucinazioni e edemi degli arti inferiori;
fluttuazioni motorie, ovvero periodi alterni di mobilità ed immobilità quali:
- wearing-off o fluttuazioni di fine dose, prevedibili e correlate con l'effetto dose; infatti i pazienti percepiscono la riduzione dell'effetto della dose di levodopa e diventano più lenti e tremolanti,
- fenomeni on-off, imprevedibili ed improvvisi cambiamenti tra mobilità ed immobilità (freezing). Anche pazienti che assumono levodopa a basse dosi possono sviluppare fluttuazioni motorie dopo 5 anni di trattamento.
discinesie, possono presentarsi dopo mesi o anni di trattamento con vari pattern
- movimenti coreici al picco del dosaggio, più comune,
- distonia, da sola o in combinazione con i movimenti coreici,
- discinesia difasica: compare o peggiora all'inizio ed alla fine del ciclo di una dose di levodopa (off-period dystonia).
Le fluttuazioni motorie sono causate principalmente dalla breve emivita della levodopa (90-120 minuti) e possono essere ridotte aumentando l'assorbimento e la biodisponibilità della levodopa, modificando la frequenza delle somministrazioni e prolungando l'effetto di ogni dose. I DA migliorano l'efficacia della levodopa e aiutano a ridurre l'off time. Anche la dieta può influire: l'aumento delle proteine alimentari riduce l'assorbimento della levodopa e ne limita la capacità di attraversare la barriera ematoencefalica. Frazionare l'introduzione di proteine nella giornata può pertanto ridurre le fluttuazioni motorie. Il prolungamento degli effetti di ogni dose di levodopa può essere realizzato con forme a rilascio controllato di levodopa, ma la possibilità di regolare l'assorbimento è operazione complessa.
Gli inibitori delle COMT (Catecol Orto Metil Transferasi) (Tabella 1) come l'entacapone (Comtan) o il tolcapone riducono il fenomeno del wearing off di fine dose allungando l'emivita della levodopa circolante. Il tolcapone (Tasmar) è l'inibitore più potente, ma per la comparsa di alcuni casi di insufficienza epatica fatale, in molti paesi (Italia compresa) è stato ritirato dal commercio22,23.
La discinesia è ampiamente correlata all'uso della levodopa e può essere esacerbata da alcuni farmaci utilizzati nel trattamento delle fluttuazioni motorie. Il miglioramento può essere ottenuto con la riduzione delle dosi di levodopa, ma questo decremento porta generalmente ad un minor controllo dei sintomi motori a cui si può eventualmente porre rimedio con l'aggiunta di DA. L'amantadina può essere utilizzata per controllare la discinesia forse per il già descritto antagonismo con il recettore del glutammato NMDA24. La stimolazione dopaminergica pulsatile è considerata la causa della discinesia, perciò l'uso di DA ad emivita relativamente lunga, riducendo le variazioni dei livelli di dopamina, potrebbe prevenire o attenuare/eliminare le discinesie25, mentre ancora incerto rimane l'uso di associazione con terapie neuroprotettive e fattori trofici.
Il trattamento delle complicanze motorie a lungo termine con levodopa per os, in un prossimo futuro, potrebbe giovarsi del cambiamento da "stimolazione pulsatile" a "stimolazione costante" dei recettori dopaminergici cerebrali realizzabile con la somministrazione non-orale di DA e/o levodopa26. Le opzioni per un trattamento non-orale comprendono strategie invasive (levodopa intraduodenale), oppure apomorfina sottocutanea e, più recentemente, dispositivi non-invasivi a rilascio transdermico del nuovo DA rotigotina. I possibili benefici di un tale approccio necessitano ancora di sperimentazione clinica e di validazione in studi controllati.
Il controllo dei sintomi non motori
La gestione clinica del paziente parkinsoniano è impegnativa per la frequente presenza di problemi connessi alla cronicità della patologia e ai limiti delle attuali terapie disponibili. La sintomatologia non-motoria può essere riassunta in:
- disfunzioni autonomiche
- alterazioni del tono dell'umore (depressione)
- disordini del sonno
- psicosi e demenza
e, soprattutto, nella diversa e complessa articolazione di questi sintomi-problemi con eventuali copatologie, stato funzionale e problematiche assistenziali.
Le disfunzioni autonomiche a. Tra le disfunzioni autonomiche spicca l'ipotensione ortostatica sintomatica che può essere trattata riducendo il dosaggio dei farmaci antiparkinsoniani e aumentando l'introito di acqua e sale ed eventualmente, se necessario, con l'aggiunta di fludrocortisone (Florinef, dispensato direttamente dalle ASL) o midodrina (es. Gutron). b. La stipsi richiede una introduzione giornaliera costante di acqua e fibre, l'utilizzo di fibre supplementari (psyllio) e di emollienti delle feci. c. L'urgenza minzionale può essere controllata con farmaci anticolinergici [ossibutinina (Ditropan) o tolderodina (Detrusitol)] o alfa-bloccanti [es. terazosin (es. Urodie)]. Sfortunatamente, gli anticolinergici peggiorano la stipsi e gli alfa-bloccanti esacerbano l'ipotensione. d. La disfunzione erettile può avvantaggiarsi dell'uso del sildenafil (Viagra) anche se richiede uno stretto controllo pressorio.
Le alterazioni del tono dell'umore
Nei pazienti con MP è frequente il riscontro di sintomi depressivi che vengono usualmente trattati con inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI) pur in assenza di studi che dimostrino la loro effettiva efficacia e/o superiorità rispetto ad altri farmaci. L'uso degli antidepressivi triciclici viene generalmente evitato per il potenziale peggioramento della ipotensione ortostatica. Negli ipotesi, come farmaco di scelta è indicata la venlafaxina (Efexor).
Le alterazioni del sonno
Nei pazienti con MP possono essere presenti
a. sonnolenza diurna e attacchi di sonno, quali effetti indesiderati dei DA, b. insonnia notturna determinata dalla rigidità e dalla bradicinesia; c. il segno delle gambe senza riposo o movimenti periodici degli arti che possono trarre giovamento da levodopa long-acting (Madopar HBS e Sinemet CR) o dall'associazione con entacapone; d. disordini del sonno REM controllabili efficacemente con una benzodiazepina.
Psicosi e demenza
Le allucinazioni del paziente parkinsoniano possono essere causate dalla levodopa, ma, soprattutto, dai DA. Si tratta di una condizione farmaco-indotta e il primo passo nel trattamento è l'interruzione dei DA o l'uso delle più basse dosi possibili di levodopa. Spesso si rende necessaria l'aggiunta di un neurolettico atipico. La clozapina (es.Leponex) è l'unico neurolettico la cui efficacia sia stata dimostrata in uno studio controllato. Il rischio di una potenziale agranulocitosi fatale impone di tenere sotto controllo l'emocromo ogni 1-2 settimane. Tra i neurolettici atipici, la quetiapina viene utilizzata frequentemente sia per l'assenza del rischio di agranulocitosi sia per gli scarsi effetti extrapiramidali rispetto al risperidone e all'olanzapina27.
Diversi studi hanno suggerito che la demenza nella MP può essere trattata con gli inibitori della acetilcolinesterasi (rivastigmina e donepezil)28-30con tutti i limiti, ampiamente noti, di reale efficacia sullo stato funzionale, sul recupero di una pur limitata autonomia motoria e/o miglioramento della qualità di vita per il paziente ed i suoi familiari. La comparsa o il complicarsi del quadro clinico della MP con sintomi così gravi coincide con le fasi più avanzate di malattia, con un reale limite delle terapie disponibili, con la necessità di una assistenza gravosa e continua e, spesso, con l'istituzionalizzazione del paziente.
Le opzioni chirurgiche: tra passato e futuro
L'interesse per gli interventi chirurgici si è riproposto nella metà degli anni '90, con l'introduzione della stimolazione cerebrale profonda del talamo (DBS - deep brain stimulation) per la soppressione del sintomo tremore, attuata tramite l'impianto di un elettrodo connesso ad un generatore di impulsi posizionato sottocute. Prima dell'avvento della levodopa, già 60 anni fa, la neurochirurgia ha costituito, con interventi ablativi a livello del talamo e del globo pallido, il primo approccio terapeutico alla MP. L'ablazione può essere monolaterale o bilaterale. In generale, i risultati delle prime esperienze di neurochirurgia ablativa si possono riassumere nel discreto successo della talamotomia sul tremore controlaterale e nel variabile miglioramento dei sintomi motori con la pallidotomia (uni- o bi-laterale; quest'ultima non raccomandata per le rilevanti sequele associate costituite da disfagia, abulia, afonia e deficit cognitivi). Con l'introduzione in terapia della levodopa, queste procedure chirurgiche sono state abbandonate. Il successivo riscontro delle complicanze da levodopa a lungo termine e/o di soggetti con MP non adeguatamente controllati dalla sola terapia farmacologica e l'introduzione di innovative tecniche chirurgiche ha spinto i ricercatori a riconsiderare l'opzione chirurgica. La "stimolazione cerebrale profonda ad alta frequenza", mima la chirurgia ablativa, presumibilmente provocando la riduzione dell'attività neurale nel tessuto che circonda il punto di contatto con l'elettrodo, con il vantaggio di provocare un trauma cerebrale irreversibile inferiore rispetto alla tradizionale chirurgia ablativa. Inoltre, presenta il vantaggio della possibile graduazione della lesione funzionale indotta dall'alta frequenza modulando la configurazione dell'elettrodo, l'intensità, l'altezza e la frequenza dello stimolo. Questa procedura ha quindi sostituito le procedure ablative anche se casi selezionati di pazienti possono ancora oggi avvantaggiarsi della talamo- e pallidotomia. La stimolazione talamica profonda unilaterale, al pari della talamotomia, controlla il tremore controlaterale ma non risolve gli altri sintomi della MP. La stimolazione bilaterale della parte interna del globo pallido o del nucleo subtalamico è molto più efficace della stimolazione talamica nel risolvere i sintomi motori. La stimolazione bilaterale del globo pallido migliora la discinesia (drug-on state) e il tremore e la rigidità da sospensione del farmaco (drug-off state). La stimolazione bilaterale del nucleo subtalamico migliora il tremore, la rigidità e la bradicinesia maggiormente nello stato drug-off e permette la riduzione del dosaggio dei farmaci antiparkinsoniani. Mentre rimane tutt'ora aperto il dibattito sul migliore bersaglio da colpire (stimolazione bilaterale del nucleo subtalamico vs. stimolazione bilaterale del globo pallido), il ricorso a tecniche di neurochirurgia funzionale rimane fortemente limitato per l'invasività della metodica, il rischio operatorio e l'alto rischio di sequele come l'emorragia cerebrale, l'infarto, le crisi convulsive, il peggioramento della discinesia, le parestesie, i disturbi cognitivi, del comportamento, del linguaggio, della fonazione e dell'andatura oltre alle possibili complicanze correlate al malfunzionamento del generatore di impulsi. L'opzione chirurgica rimane perciò limitata a categorie molto selezionate di pazienti in cui la terapia medico-farmacologica si è dimostrata largamente insufficiente nel controllo dei sintomi motori, delle fluttuazioni motorie o della discinesia.
La neuroprotezione
Parola chiave in ambito di ricerca scientifica sulle patologie neurologiche degenerative, la neuroprotezione è una strategia di trattamento altamente auspicabile per arrestare l'evoluzione/progressione della patologia e per minimizzare l'evenienza di complicanze e recidive. Purtroppo, allo straordinario sforzo scientifico non corrispondono, a tutt'oggi, risultati clinicamente utili. Una breve trattazione viene presentata come intermezzo ed aggiornamento tra le opzioni terapeutiche disponibili appena esposte e le prospettive future della farmacoterapia della MP. La stessa opzione "DA nella fase iniziale della sintomatologia" è sostenuta dal possibile ruolo neuroprotettivo di questa categoria di farmaci31,32. Altre molecole ritenute attive nel contrastare la degenerazione neuronale ed attualmente in corso di studio sono la vitamina E, la selegilina, il coenzima Q10, il glutatione e fattori neurotrofici.
Al ruolo della funzione mitocondriale neuronale nella patogenesi della MP è associata l'ipotesi di efficacia delcoenzima Q10 (CoQ10)33e della sua attività antiossidante. In uno studio pilota realizzato su 8 pazienti in fase precoce di malattia e senza disabilità motoria, la somministrazione di 1.200 mg/die si è dimostrata sicura, ben tollerata e associata ad un ridotto sviluppo della disabilità (valutazione periodica con UPDRS) rispetto ai placebo nei 16 mesi di osservazione. Il CoQ10 sembra ridurre il progressivo deterioramento delle funzioni motorie nella MP, ma queste osservazioni preliminari devono essere confermate da studi controllati, randomizzati26. In diversi centri clinici vengono somministrate alte dosi di glutatione endovena, ma non sono disponibili studi controllati che ne chiariscano il ruolo nella neuroprotezione e nel controllo dei sintomi31. L'utilizzo di fattori neurotrofici è stato affrontato con due diversi approcci. In uno studio clinico controllato in doppio cieco è stato somministrato il fattore neurotrofico derivato dalle cellule gliali (GDNF) attraverso un catetere impiantato nei ventricoli cerebrali, ma questo trattamento non ha prodotto alcun miglioramento dei sintomi motori, probabilmente per la difficoltà del fattore a raggiungere la via nigrostriatale34. L'infusione via catetere di cellule gliali produttrici di GDNF direttamente nel putamen, sperimentata in uno studio in aperto, ha evidenziato, dopo un anno, un miglioramento delle capacità motorie e delle attività della vita quotidiana35. Sulla base delle attuali conoscenze, si può concludereche non vi è ancora una risposta chiara riguardo la neuroprotezione nei pazienti con malattia in fase iniziale e la decisione di introdurla è tra le prospettive dei ricercatori e le speranze dei pazienti36. Comunque, pazienti e medici dovrebbero essere confortati dai recenti progressi nella conoscenza delle cause della MP e dalla possibilità che riescano a tradursi in terapie volte a prevenire la progressione della malattia. La sfida più immediata è certamente quella di una migliore conoscenza della storia naturale della malattia e di quale e quanta parte di questa potrebbe essere evitata da una efficace azione neuroprotettiva. Sul piano metodologico ciò deve tradursi in criteri e strumenti idonei a valutare il fenomeno "progressione-della-malattia"; gli studi descritti sono probabilmente il germe per ulteriori ricerche sulla neuroprotezione.
Gli scenari della ricerca e le speranze per il futuro
Dopo la scoperta, negli anni '60, del deficit di produzione di dopamina alla base della MP e la sua introduzione in terapia nel 1970, molti passi avanti sono stati compiuti nella comprensione della eziopatogenesi della malattia, ma i trattamenti rimangono, per molti versi, parziali e insoddisfacenti. La ricerca scientifica prosegue:
- sul piano diagnostico, nel tentativo di individuare marker biologici e/o strumentali per screening precoci;
- sul piano etiopatogenetico, per una maggiore comprensione dei fattori genetici ed ambientali e della loro interazione nella presentazione e sviluppo della malattia;
- sul piano clinico, per una migliore conoscenza della storia della malattia e soprattutto, della sua progressione;
- sul piano terapeutico, con la scoperta di nuovi farmaci e tecniche chirurgiche di stimolazione sino alle frontiere del trapianto cellulare.
La ricerca sui meccanismi etiopatogenetici (apoptosi, difetti mitocondriali, stress ossidativi37, aggregazione proteica aberrante32) aggiunge progressivamente tasselli al mosaico delle ipotesi che spiegano la degenerazione dei neuroni dopaminergici consentendo l'individuazione di nuove sedi di possibile intervento. Tra le molecole in sviluppo si possono ricordare:
- le forme metil- ed etil- esterificate della levodopa (etilevodopa e melevodopa), inibitori degli enzimi monoamino-ossidasi tipo B (ad es. la rasagilina);
- inibitori delle catecol-O-metil-transferasi (ad es. BIA-3202);
- inibitori della ricaptazione delle monoamine (es. brasofensine)38;
- dopamino-agonisti totali o parziali (sumanirolo, piribedil, BP-897 e rotigotina26) con formulazioni a rilascio transdermico;
- trattamenti non-dopaminergici per la discinesia da levodopa: antagonisti dei recettori alfa 2 adrenergici (fipamezole), antagonisti del recettore A2A dell'adenosina (istradefillina), antagonisti del recettore AMPA (talampanel), modulatori della sincronizzazione neuronale come gli agonisti della 5-HT1A (sarizotan) e antagonisti 5-HT2A (quetiapina).
- un crescente numero di agenti neuroprotettivi che cercano di fermare o anche invertire la progressione di malattia38. Tra questi agenti anti apoptosi: inibitori delle chinasi (CEP-1347), modulatori della funzione mitocondriale (creatina), fattori di crescita (leteprinim), neuroimmunofilline (V-10367), estrogeni (MITO-4509), inibitori dell'oligomerizzazione della c-sinucleina (PAN-408)31.
Infine, come linea più avanzata di ricerca, il trapianto cellulare si propone di ripristinare l'attività dopaminergica nel tessuto cerebrale degenerato. La prima esperienza, utilizzando tessuto mesencefalico fetale, ha mostrato, sia alla PET imaging che all'autopsia, buone possibilità di successo39,40. Studi controllati hanno dimostrato che possono avvantaggiarsi soprattutto i pazienti più giovani in drug-off, ma lo sviluppo di discinesie disabilitanti riduce l'utilità clinica di tale procedura. A dispetto della dimostrata sopravvivenza dei neuroni dopaminergici trapiantati, gli studi non registrano miglioramenti clinici significativi, pertanto, al momento, il trapianto di nigro fetale non è una opzione praticabile per il trattamento della MP. Gli innesti di cellule staminali, potenziali produttrici di dopamina e/o di fattori neurotrofici costituiscono una prospettiva ancora tutta da verificare.
Conclusioni
Le evidenze che debbono guidare le scelte terapeutiche attuali possono riassumersi in quanto già noto:
- nelle fasi iniziali, la terapia può essere rimandata fino a quando il deficit motorio non altera la qualità della vita;
- la levodopa resta l'asse portante della terapia della MP;
- la terapia delle fasi iniziali della malattia è una monoterapia: da preferire farmaci dopamino-agonisti nei pazienti più giovani e più sani e la levodopa nei più anziani e più fragili;
- sono immutate le incertezze sull'uso dei dopamino-agonisti (linee guida LIMPE [Lega Italiana per la Lotta contro la Malattia di Parkinson, le Sindromi Extrapiramidali e le Demenze] 200241);
- non vi sono certezze sulla neuroprotezione.
Rimangono accese le speranze di prospettive praticabili come:
- ricerca di un biomarker utile per lo screening preclinico;
- maggiore comprensione dei fattori genetici ed ambientali con un ruolo nella MP;
- nuove terapie a partire dalle sempre maggiori conoscenze dei meccanismi etiopatogenetici;
- sviluppo di nuovi farmaci con minori effetti indesiderati e attivi per tempi più lunghi rispetto alla levodopa;
- sviluppo di più efficaci trattamenti neurochirurgici;
- sviluppo delle tecniche di trapianto per il recupero e la protezione del circuito dopaminergico.
Linee Guida per il Trattamento della Malattia di Parkinson 2002
I DOPAMINOAGONISTI
...Nel 1974, in piena era levodopa, fu dimostrata l'attività antiparkinsoniana della bromocriptina. Negli anni seguenti, sono stati testati nuovi dopamino-agonisti (DA) dotati di maggiore efficacia clinica, tanto che oggi sono disponibili in Italia 8 farmaci di questa classe. All'inizio, i DA sono stati sviluppati per il trattamento della MP avanzata, come aggiunta (add on) e sostituzione parziale della levodopa stessa (30% circa della dose giornaliera), con il risultato di un contemporaneo miglioramento delle fluttuazioni motorie e delle discinesie. In epoca del tutto recente, alcuni DA sono stati valutati come terapia iniziale in alternativa alla levodopa, evidenziando complessivamente una maggior frequenza di effetti indesiderati dopaminergici periferici e centrali e un'efficacia lievemente inferiore almeno per i primi 2-5 anni di malattia. La frequenza e la gravità di fluttuazioni/discinesie nei pazienti trattati con DA in monoterapia o in associazione con basse dosi di levodopa è, però, inferiore rispetto alla monoterapia con levodopa.
Efficacia comparativa dei DA
A tutt'oggi non esistono studi comparativi sull'efficacia terapeutica dei DA di più recente introduzione. Pergolide, ropinirolo, pramipexolo e cabergolina sono stati generalmente valutati vs. bromocriptina, rispetto alla quale mostrano una maggior efficacia, sia in fase iniziale che in fase avanzata. La sostituzione di un DA con un altro agonista, talora necessaria per mancanza di efficacia o per insorgenza di eventi avversi, può essere eseguita con modalità temporali diverse (sostituzione immediata o lenta), tenendo conto dei valori di equivalenza ricavati talora indirettamente dalla letteratura. Un unico studio, disegnato a questo scopo, ha evidenziato l'assoluta sicurezza della sostituzione immediata (1 giorno) rispetto a quella lenta (8 settimane) per pramipexolo vs. bromocriptina o pergolide.
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