Introduzione
L'ipertensione arteriosa rappresenta ancora oggi uno dei principali fattori di rischio cardiovascolare interessando circa 1/3 della popolazione adulta nei paesi ad elevato sviluppo industriale, e la sua incidenza risulta ulteriormente aumentata dal progressivo invecchiamento della popolazione 1,2.
I grandi studi osservazionali hanno evidenziato fin dagli anni '60 l'aumento della mortalità e morbidità cardiovascolari correlato con i livelli di pressione arteriosa3,4. Sempre negli stessi anni gli studi di intervento randomizzati verso placebo hanno dimostrato in maniera chiara che la riduzione dei valori di pressione arteriosa ottenuta con i farmaci antiipertensivi era in grado di ridurre il rischio cardiovascolare5,7.
In questi studi sono stati utilizzati per lo più i diuretici e in minor misura i beta-bloccanti. Fino a poco tempo fa queste due classi di farmaci erano le uniche ad avere un supporto di provata efficacia e sicurezza basato sulle evidenze scientifiche fin ad allora disponibili. Ciò nonostante, nella pratica si assiste ad un notevole impiego di farmaci antiipertensivi appartenenti alle classi più disparate (ACE-inibitori, calcio-antagonisti, antagonisti dell'angiotensina II, alfa e beta-bloccanti, nuovi "beta-bloccanti"), giustificato soprattutto dalla loro capacità di ridurre i valori pressori.
Del resto anche le linee guida dell'ipertensione arteriosa hanno fatto proprio l'assunto che la riduzione dei valori di pressione possa essere considerata un surrogato del loro beneficio clinico ed hanno largamente raccomandato tutte le classi sopra menzionate come farmaci di prima scelta, con alcune diversificazioni in relazione alla presenza o meno di malattie o particolari condizioni concomitanti8,9.
Questa convinzione viene oggi da più parti criticata, considerando più giusto e scientificamente corretto che la valutazione dell'efficacia di un trattamento ipotensivo derivi direttamente dalla sua capacità di ridurre gli eventi cardiovascolari maggiori (morte, infarto, ictus, etc) in una determinata categoria di pazienti e non semplicemente dal suo solo effetto ipotensivo10.
Ciò è ancora più vero se si tiene conto del concetto costo-efficacia: in altri termini la spesa può essere accettata dalla collettività se il trattamento in oggetto si è dimostrato superiore a quello già disponibile, altrimenti deve essere rifiutato o al più considerato di II o III scelta. Per questo motivo negli ultimi anni sono stati condotti molti studi clinici con varie classi di farmaci antiipertensivi per confrontarne l'efficacia, nella riduzione del rischio cardiovascolare, nei confronti dei diuretici e dei beta-bloccanti.
Recentemente sono stati resi noti i risultati preliminari dello studio ALLHAT (The Antihypertensive and Lipid-Lowering Treatment to Prevent Heart Attack Trial), iniziato nel 1994, che con le loro conclusioni impongono un momento di riflessione e riconsiderazione su come vengono impostati gli studi clinici oggi11
Lo studio ALLHAT
Lo studio, sponsorizzato da un ente indipendente, il National Heart, Lung and Blood Institute (NHLBI), e condotto su un numero molto grande di pazienti ipertesi (42.488 pazienti randomizzati) con almeno un altro fattore di rischio cardiovascolare ed età > o = a 55 anni, si prefiggeva due obiettivi:
valutare se i più recenti farmaci antiipertensivi (lisinopril, amlodipina e doxazosin) fossero superiori al clortalidone nel ridurre l'incidenza di eventi coronarici;
valutare inoltre se la pravastatina somministrata a pazienti ipertesi ed ipercolesterolemici fosse in grado di ridurre la mortalità per qualsiasi causa rispetto ad un gruppo di controllo.
L'end point primario dello studio consisteva nell'incidenza di infarto del miocardio fatale o non, mentre gli end point secondari consistevano nell'incidenza di mortalità totale, ictus e malattia cardiovascolare combinata (morte per cardiopatia ischemica, IMA non fatale, ictus, angina, necessità di rivascolarizzazione miocardica, scompenso cardiaco e arteriopatia periferica).
Nel gennaio scorso, in base alla valutazione dei dati disponibili, è stato interrotto il braccio del trattamento con doxazosin perché, rispetto al clortalidone, è stata rilevata una più alta incidenza di eventi cardiovascolari combinati. In particolare, è risultato statisticamente significativo l'aumentato rischio relativo di scompenso cardiaco e di ictus, mentre non sono state rilevate differenze tra i due trattamenti per quanto concerne il rischio relativo di malattia coronarica. Gli altri bracci dello studio, quelli con il lisinopril e l'amlodipina continuano e se ne attendono i risultati.
Franz H. Messerli recentemente su Lancet ha commentato che "è del tutto plausibile che la decisione di sospendere il gruppo doxazosin dallo studio (ALLHAT) sia stata fortemente motivata ed attuata dopo profonda ed attenta valutazione..."12.
La conseguenza più immediata è che il doxazosin non può più essere considerato un farmaco di prima scelta, come indicato dalle linee guida, mentre resta da vedere se gli alfa-litici possano essere ancora aggiunti ad una terapia standard. Al momento attuale, alla luce dei dati disponibili, ancorché parziali, si possono fare alcune considerazioni in merito ai risultati pubblicati:
Non ci sono state differenze per quanto concerne l'end point primario, per il quale era stato impiantato lo studio.
Lo scompenso cardiaco è un end point estremamente sfuggente, difficilmente obiettivabile, se non specificamente ricercato, quando si ha una iniziale compromissione della funzione contrattile, in assenza di sintomi. E' chiaro che in simili situazioni il beneficio indotto dal diuretico sarebbe tale da giustificare i miglioramenti osservati. In più, si può ascrivere all'alfa-bloccante, oltre alla inefficacia, un verosimile effetto negativo, come confermato dalle precedenti esperienze con il prazosin, dove rispetto al placebo ci fu un maggior numero di interruzioni per peggioramento dello scompenso (- 8.5% vs 5.5% nello studio V - HeFT-I). Per contro, l'end point primario - infarto del miocardio - era garantito da elementi diagnostici certi e non soggettivi quali l'ECG, il laboratorio e la clinica13,14. A tale proposito sono estremamente importanti le considerazioni fatte nell'editoriale del Journal of Cardiac Failure del giugno scorso da J.N.Cohn che critica la metodologia con cui vengono condotti gli studi clinici oggi15. Invece di un approccio frammentario ai vari fattori di rischio con la conseguenza di focalizzare l'attenzione su un marker surrogato, occorre considerare l'insieme dei processi fisiopatologici responsabili degli end points primari; lo studio HOPE rappresenta un ottimo esempio in tal senso16. Infatti, considerare la morbilità e la mortalità come end points di studi disegnati per validare l'attendibilità di singoli markers surrogati (per esempio la riduzione dei valori pressori, della colesterolemia, della placca aterosclerotica, del trombo coronarico, etc.) non è più scientificamente ammissibile15.
E' possibile che il gruppo trattato con doxazosin differisca di partenza rispetto al gruppo trattato con clortalidone, in relazione ad alcuni parametri non noti, come le dimensioni e la funzione ventricolare sinistra. Le curve relative all'incidenza di scompenso cardiaco divergono immediatamente e, nel tempo, continuano a divaricare come se il trattamento sin dall'inizio abbia influenzato negativamente la funzione contrattile17.
Esiste una notevole eterogeneità dei fattori di rischio addizionali con possibilità che si tratti di una popolazione dove già in partenza è ipotizzabile una migliore "performance" di un farmaco rispetto ad un altro.
Nel gruppo col doxazosin c'è stata una minore aderenza alla terapia assegnata (a 4 anni solo il 75% dei partecipanti continuava ad assumere il farmaco vs l'86% di quelli trattati con clortalidone), il che può portare ad una sovrastima della reale differenza tra i due farmaci.
Come si può notare esistono vari punti controversi e quindi, in questa fase, è necessaria particolare prudenza prima di trarre conclusioni definitive.
Tuttavia è documentato che il doxazosin, almeno in alcune realtà territoriali, presenta degli indici di prescrizione extra ospedaliera molto elevati (DDD nell'ordine di 10 per 1.000 assistibili/die) che sembra improbabile ricondurre solo a prescrizioni di II o III scelta. La conclusione che se ne trae è che ci sia un improprio utilizzo come farmaco di prima scelta, che, almeno momentaneamente, non è giustificato. Ruolo dei diuretici nella ipertensione arteriosa
Pur con queste molteplici e dovute riserve, il clortalidone è risultato superiore, sia in termini di efficacia che di tollerabilità, al doxazosin come farmaco di prima linea in un gruppo di pazienti ipertesi di età > o = a 55 anni con altri fattori di rischio11.
Possiamo quindi dire che, ancora una volta, i diuretici riescono quasi a stupire con i risultati ottenuti, a dispetto della semplicità del loro meccanismo d'azione.
Quando agli inizi degli anni '50 cominciarono ad essere usati nell'ipertensione arteriosa, ne modificarono radicalmente la storia naturale, impedendone la progressione verso l'ipertensione maligna. In una recente revisione sistematica delle terapie antiipertensive, in cui sono stati considerati 38 studi pubblicati tra il 1966 e il 1997, con una popolazione complessiva di 50.853 pazienti ipertesi, viene ribadito che le prove attualmente a disposizione indicano chiaramente che i diuretici possono essere prescritti come farmaci di prima scelta con la certezza che tale trattamento è efficace nel ridurre il rischio cardiovascolare18.
Nonostante ciò, raramente vengono considerati come farmaci di prima scelta, ma vengono prescritti per lo più in associazione, estemporanea o fissa, con altri farmaci (beta-bloccanti, ACE-inibitori), oppure per contrastare effetti indesiderati di alcune classi di farmaci (calcio-antagonisti diidropiridinici), o infine, quando vi siano specifiche condizioni che ne impongano l'uso (scompenso cardiaco). A riprova di ciò basta considerare che essi rappresentano meno del 2% del mercato dei farmaci antiipertensivi, rispetto al 75% degli ACE-inibitori e calcio antagonisti.
Le ragioni di questo scarso interesse nei loro confronti possono essere varie. 1) Si tratta di farmaci poco costosi e quindi poco "gratificanti" per le industrie farmaceutiche, che perciò investono poco nella ricerca, commercializzazione e pubblicizzazione del prodotto. 2) Ai diuretici, soprattutto ad alto dosaggio, sono attribuiti importanti effetti indesiderati, specificamente sulla base di rapporti che li hanno associati ad un aumento della incidenza di morte improvvisa, per un possibile incremento di ectopie ventricolari19,21. 3) Alla loro attività sul metabolismo glicidico e lipidico, si attribuisce un effetto negativo che ridurrebbe il beneficio sulla cardiopatia ischemica ottenuto con la riduzione dei valori pressori22 (pur senza dati solidi a sostegno). 4) Possono causare impotenza nel soggetto giovane. 5) Nella pratica clinica c'è spesso la necessità di ottenere riduzioni della pressione arteriosa maggiori di quelle ottenute negli studi clinici (in media 12 mmHg per la sistolica e 6 mmHg per la diastolica) difficilmente ottenibili con i diuretici in monoterapia. 6) I diuretici hanno una scarsa efficacia nella regressione della ipertrofia ventricolare sinistra, come dimostrato dalla maggior parte degli studi "ad hoc" effettuati23,24.
E' pur vero però che nonostante tutto ciò riducono la mortalità cardiovascolare.
A nostro avviso pertanto, i diuretici dovrebbero essere più usati, come del resto indicato chiaramente dalle ultime linee guida, nei soggetti anziani, in presenza di segni e sintomi di scompenso cardiaco, in presenza di iniziale riduzione della funzione ventricolare sinistra, quando vi sia una ipertrofia eccentrica, ritenzione idrosalina (s. climaterica, obesità), profilo a bassa renina ed elevato aldosterone.
Devono essere utilizzati a basso dosaggio (ad esempio idroclorotiazide 25 mg/ die) associandoli possibilmente allo spironolattone. Quest'ultimo, oltre a prevenire l'ipopotassiemia, ha un effetto antiproliferativo, che può avere ripercussioni positive sulla progressione dell'ipertrofia ventricolare sinistra e della cardiopatia ipertensiva.
Ruolo delle altre classi di farmaci nell'ipertensione arteriosa
Recentemente sono stati completati altri importanti studi, tra cui lo STONE e il SYST-EUR (nell'ipertensione sistolica isolata) che hanno mostrato un significativo beneficio nella prevenzione degli eventi cerebro- e cardiovascolari nei soggetti anziani, con l'uso rispettivamente di nifedipina e nitrendipina a lunga durata d'azione25,26.
Sempre nel soggetto iperteso anziano sono stati resi noti i risultati dello studio STOP-2, che ha confrontato l'efficacia dei nuovi antiipertensivi (ACE-inibitori e calcio-antagonisti) nei confronti della terapia convenzionale (diuretici e beta-bloccanti) sulla morbilità e mortalità cardiovascolare in questa classe di pazienti. I tre trattamenti hanno portato ad una simile riduzione della pressione sistolica, sono stati ben tollerati e non sono emerse differenze significative tra di loro relativamente al rischio di eventi cardiovascolari27.
Sono a tuffi noti i risultati dello studio HOPE che hanno documentato come il ramipril riduca il tasso di mortalità, infarto miocardico, ictus, rivascolarizzazione, arresto cardiaco, insufficienza cardiaca e complicanze correlate al diabete, in un'ampia popolazione ad alto rischio (età > o = a 55 anni con coronaropatia, ictus o vasculopatia o diabete più un altro fattore di rischio cardiovascolare, tra cui l'ipertensione arteriosa)16.
Anche questo studio non è stato esente da critiche ed è stato obiettato che, considerando le caratteristiche dei pazienti inclusi, forse il beneficio ottenuto non sarebbe stato così evidente se i pazienti fossero stati trattati in precedenza, con dosi ottimali di aspirina, beta-bloccanti e ipolipemizzanti 28.
Infine dobbiamo ricordare gli studi INSIGHT e NORDIL. Il primo è stato disegnato per confrontare direttamente l'efficacia di due trattamenti attivi antiipertensivi (nifedipina GITS vs amiloride + idroclorotiazide), nella riduzione del rischio cerebro- e cardiovascolare in pazienti ipertesi con almeno un fattore di rischio aggiuntivo29.
Non si sono evidenziate differenze significative per quanto riguarda l'incidenza degli end points primari (morte cardiovascolare, morte improvvisa, infarto miocardico, ictus, scompenso cardiaco) e secondari (mortalità totale e mobilità cardiovascolare totale) nel gruppo trattato con nifedipina GITS rispetto a quello trattato con diuretico30.
Lo studio NORDIL ha confrontato l'efficacia del diltiazem nel ridurre la morbilità e mortalità cardiovascolare nei confronti dei diuretici, dei beta-bloccanti o della loro associazione, in pazienti ipertesi. Sono stati arruolati 10.881 pazienti di età compresa tra 50 e 74 anni, con pressione diastolica uguale o superiore a 100 mmHg. End point primari sono stati considerati l'ictus fatale e non-fatale, l'infarto acuto del miocardio e la morte da altre cause cardiovascolari. Anche in questo caso non sono emerse differenze significative tra i vari trattamenti per quanto riguarda l'efficacia non solo nel ridurre i valori pressori, ma soprattutto nel migliorare la sopravvivenza e ridurre il rischio cardiovascolare31.
Conclusioni
Nell'ambito di una politica di sanità pubblica in cui vi sono delle priorità, il trattamento antiipertensivo oggi è indicato soprattutto nei pazienti anziani, in quelli con ipertensione moderata o grave (grado II e III) e in quelli che, indipendentemente dai livelli di pressione arteriosa, presentano danno d'organo o fattori addizionali di rischio. I pazienti con ipertensione lieve (classe I) presentano un rischio basso e vanno osservati per un significativo intervallo di tempo prima di decidere se instaurare una terapia farmacologica.
Anche alla luce degli ultimi studi, i farmaci di prima scelta rimangono ancora oggi i diuretici e i beta-bloccanti, pur riconoscendo che altre categorie di farmaci hanno effetti comparabili, nel contesto di strategie di controllo più generale del rischio cardiovascolare.
E' auspicabile che l'indirizzo ormai consolidato di valutare un farmaco sulla sua capacità di curare il paziente iperteso piuttosto che la sua pressione arteriosa continui a darci indicazioni importanti, basate sulle evidenze scientifiche, per la scelta dei farmaci da utilizzare.
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