Se è uscita dalla attualità (puntuale: il 31 agosto, quando i racconti d'estate si chiudono sui quotidiani) anche l'appassionante vicenda di Milingo, con tempi certo meno efficienti anche la "storia italiana" della cerivastatina farà parte delle cronache minori. La valutazione delle conseguenze culturali ed istituzionali di questo evento mediatico sarà senz'altro più difficile di quella - epidemiologica, di mercato, di politica farmaceutica - che ha avuto al suo centro uno dei tanti ritiri dal commercio di un farmaco tra i tanti. I protagonisti che sono entrati in questa storia sono già stati tutti, in diversi tempi e modi, oggetto di anallsi e discussione su queste pagine, e sarebbe ripetitivo andare a riprenderne il filo, le articolazioni, le continuità. Sembra doveroso tuttavia ringraziare -proprio come si fa(-ceva) con gli ex-voto, per scampato pericolo e/o per grazia ricevuta - la rabdomiolisi per aver riproposto, "globalmente", dentro e fuori il mondo dei tecnici, con il suo fascino di parola esotico-scientifica, un pro-memoria (saggi principi? buon senso? solida metodologia?) da tenere presente da parte di quanti lavorano nell'informazione sui farmaci.
I farmaci si confermano come area critica ed esemplare del rapporto tra medicina e società. Sono i più studiati secondo le regole scientifiche comunemente accettate, sono quelli che scatenano (per il bene e per il male) le reazioni di massa più emotive e meno scientifiche, nelle attese e nei timori.
La razionailtà documentata dell'informazione - nei suoi diversi momenti di produzione, verifica, distribuzione, utilizzazione di conoscenze - è imprescindibile e dovuta. Senza illusioni, tuttavia. Nella realtà è la variabile che conta meno, non appena si passa alla gestione di informazioni che - casualmente o programmaticamente, per dati reali o immaginari - sono dichiarate "di emergenza". La nota di Erri De Luca sui fatti di Genova riportata alla fine di questo articolo fotografa perfettamente i processi che si mettono in atto.
L'informazione-condivisa, creatrice di intelligenza-autonomia, è l'unica forma di [farmaco] vigilanza: questa non è infatti una tecnica [necessaria] clinico-epidemiologica gestita da gruppi [più o meno] esperti o specializzati, ma una cultura che mira a mettere in evidenza i rapporti dinamici tra benefici e rischi, incidenti evitabili ed ignoranze colpevoli, come parte di un gioco complesso di conoscenze, interessi, poteri che accomuna la medicina a tutte le altre aree della società. La iatrogenesi da farmaci (e/o da prescrittori) è una delle tante aree di ambiguità della società: e non ha senso provare a quantificare e gerarchizzare quale è la più pericolosa. Chi vigila sulla iatrogenesi (= danno prodotto da professionisti-esperti che hanno come mansione-mandato quello di produrre con i loro saperi-interventi un beneficio per utenti-riceventi-consumatori) delle scienze-legislazioni-decisioni in campo scolastico, sociale, economico, giuridico?
La (farmaco)vigilanza come cultura implica alleanze attorno ad un progetto di bene comune, per far si che i diversi ruoli e saperi - con le loro dialettiche, divergenze, complementarietà - contribuiscano a sviluppare condizioni di intelligenza di ciò che succede. Nel settore che qui ci interessa: alleanze tra autorità sanitarie, produttori, consumatori, mass-media, professionisti della prescrizione, della epidemiologia, della informazione, garanti di diritti. E' fin troppo banale constatare - senza alcun stupore - che il gioco delle parti segue la legge del "Viceversa" sopra ricordata.
La (farmaco)vigilanza-informazione vive in una società delle non-alleanze. Constatazione non significa condivisione, o (per riprendere le "esternazioni estive" di qualche ministro, certo più iatrogene della rabdomiolisi ) "convivenza". Lavorare constatando dati di fatto è conditio sine qua non metodologica nel senso più tecnico di questa parola. Da tener presente e da applicare, per esempio, da subito, alla programmazione di investimento e spesa dei (tanti) fondi per la farmacovigilanza-informazione che sono a disposizione delle Regioni. Saranno progetti che vigilano sui farmaci, o che propongono in modo articolato lo sviluppo di intelligenza condivisa tra professionisti e cittadini? Interventi-programmi che mirano a mettere paletti formali di qualità o di controllo in un mercato sanitario-farmaceutico di cui non si discutono le pretese di autonomia, o che ri-esplorano la praticabilltà di percorsi in cui i bisogni sono più importanti dei consumi e degli accanimenti terapeutici? (N.B.: non hanno un po' questo sapere le/gli ottantenni associati nelle cronache, e nelle denunce, a rabdomiolisi?). Studi che si preoccupano di quantificare (tempestivamente?) i danni, o strategie che sviluppano l'attenzione di professionisti e cittadini per ciò che effettivamente ha senso, ed è dovuto, rispetto a ciò che si prescrive/consuma senza domandarsi-verificare quali sono gli esiti?
I (tanti) fondi disponibili (e speriamo che ce ne siano ancora: in un buon modello di alleanza tra Ministero e Regioni? Nel contesto di ex-voto anche le cose impensabili devono essere oggetto perlomeno di auspici) non sono verosimilmente né l'unica né la principale soluzione o risposta o risorsa. La domanda di fondo rimane - è una vecchia tesi di questo bollettino, ma non solo: basta vedere l'editoriale -augurio per la ripresa autunnale 2001 della Revue Prescrire - quella relativa al ruolo dei medici nella (farmaco)vigilanza-informazione. Cose molto intelligenti-pertinenti sono state dette di questi tempi sul sito CSeRMeG, soprattutto nello scambio tra M. Tombesi e V. Oddone: non val la pena di riassumerle: è bene andarsele a ritrovare, come primo passo per rispondere all'invito-riflessione che segue. Nella saga Lipobay i medici (specie di MG: ma non si capisce perché sono stati cosi esclusi gli "specialisti") sono "oggetto di attenzione" e si sono mossi soprattutto con atteggiamenti-dichiarazioni difensive. Di questa "difesa" ha fatto parte una serie di impegni (spesso molto decisi) da parte di organizzazioni di categoria, che promettono la attivazione di programmi di "vigilanza attiva". Se l'ipotesi di questo ex-voto è corretta, il nodo di fondo è un altro, certo non nuovo. La (farmaco)vigilanza non è un'attività a parte, o in più. E' la normalità di una professione. E' il suo contratto. La sua identità. Non da dichiarare, ma da rendere normalmente visibile e documentata. Come mestiere di base, i medici devono essere (è il loro modo di essere cittadini nel pezzo di società che loro compete) i promotori-tessitori di quelle alleanze che sopra si ricordavano. Senza attendere - anzi evitando - incentivi o progetti ad hoc. La credibilità - identità si costruisce nella normalità-continuità della produzione di dati che raccontano via via alla società i margini di razionalità, ambiguità, successi, pasticci, fallimenti, progressi falsi e veri, di cui si è protagonisti. Questi "racconti" realistici, della scientificità minima o massima consentita-possibile nelle pratiche quotidiane responsabili, comprensibili al pubblico e interpretabili dalla collettività dei "pari", potranno riguardare, di volta in volta, farmaci, problemi, popolazioni, strategie. Con progetti grandi o piccoli, che hanno protagonisti, secondo i casi, cluster "intensivi" omogenei di medici e/o pazienti, o reti molto estese e "leggere" di contesti assistenziali e di popolazioni (di cui si sospetta o si esplorano condizioni) a rischio. La (farmaco)vigilanza è formazione permanente, esplicitazione e presa in carico di tutto lo spettro delle incertezze e delle domande aperte. E' finito, da tempo, il tempo delle distinzioni, sottili o reali o finte, tra valutazioni sperimentali controllate, fasi III b, c e IV, outcome research, trasferibilità. O almeno dovrebbe essere concluso dal punto di vista dei medici reali, che pongono domande a partire da quello che è il loro fare e (non) sapere rispetto a popolazioni-mercati-contesti altrettanto reali, non (solo) attendendo imbeccate più o meno pilotate dall'esterno (produttori o legislatori). ll contesto è ora più che maturo, se si dà alla normativa sulla sperimentazione una lettura non burocratica (N.B. Per tutta questa tematica, v. Ricerca & Pratica n.101, 2001; Dialogo sui Farmaci n.4, 2001).
Sarebbe tutto più semplice senza "variabili Guariniello"? E' possibile. ll diritto dei singoli pazienti non passa, specie in problemi come quelli evocati da Lipobay & C, per indagini amministrativo-penali, che in nome della verifica dei fatti singoli, staccano i fatti ed i singoli dai contesti che li causano sul serio. Ancor meno la perdita di una cultura della "precauzione" come diritto e come dovere collettivo può essere ritrovata con blitz, inchieste, commissioni che pretendono di ritrovare nei dettagli delle cronache la comprensione dei nodi di fondo, o la chiave di volta delle soluzioni. Le "variabili Guariniello", nelle più diverse versioni sono parte della ambiguità obbligata in cui si muove la medicina. Non sono verosimilmente evitabili. Forse se ne può controllare-prevenire la iatrogenesi (e farne emergere ipotetici benefici?) solo se la medicina (ed i consumatori) si muovono normalmente senza attendere i momenti di attaccare o difendersi.
Gli ex-voto non sono, ovviamente, strumenti tecnici. Le sedi in cui le iniziative evocate si possono tradurre in proposte operative di (farmaco)vigilanza - informazione sono altre: speriamo non siano tanto appassionate di razionalità dichiarata, da essere smemorate dalla storia che sta intorno.
Vicevers
di Erri De Luca
La polizia protesta:
quei filmati risultano montati
alla rovescia, a metterli
nell'ordine corretto
si vedono le teste, i corpi,
gli arti colpire i manganelli
con violenza
dal basso verso l'alto
e il sangue che era sparso
già da prima
rientrare al posto suo
nel comunista.
Si vede pure un cranio
che da terra si tuffa a capofitto
contro il calcio del funzionario
preso in contropiede.