Negli ultimi 10 anni l'utilizzo degli antidepressivi inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI) è progressivamente aumentato in tutto il mondo. Dati italiani evidenziano che nel 1996 il 30% degli antidepressivi venduti era rappresentato da SSRI ed il 40% da antidepressivi triciclici (TCA)1. Nonostante un così diffuso impiego ed almeno 10 anni di commercializzazione nel mondo, il profilo di tollerabilità degli SSRI non è ancora del tutto noto. Gli studi clinici controllati condotti per la registrazione di questi farmaci, infatti, sono stati in grado di riconoscere solamente gli effetti indesiderati più comuni e di facile identificazione. Vi sono però effetti indesiderati difficili da riconoscere e, soprattutto, vi sono casi in cui l'associazione con il farmaco in uso non è agevole da evidenziare.
Questa rassegna si propone di rivedere le evidenze disponibili inerenti alcuni problemi specifici - disturbi extrapiramidali e della sfera sessuale, emergenza di sintomi in seguito all'interruzione del trattamento con SSRI - accomunati dal fatto di essere stati messi in relazione all'uso di SSRI solo negli ultimi anni.
Effetti extrapiramidali
L'associazione tra la comparsa di effetti extrapiramidali (vedi riquadro) e l'assunzione di SSRI è stata suggerita da alcuni studi di monitoraggio delle reazioni avverse di singoli principi attivi, soprattutto fluoxetina, e da numerose segnalazioni di casi singoli di pazienti in trattamento antidepressivo. Al momento, tuttavia, non esistono stime di prevalenza o incidenza condotte su grandi numeri, e perciò attendibili, per cui si può solo compiere un'analisi qualitativa del fenomeno, non una descrizione quantitativa. In letteratura sono presenti tre revisioni sistematiche di segnalazioni di pazienti in terapia con SSRI che hanno sviluppato sintomatologia extrapiramidale2-4.
Uno studio ha analizzato gli effetti indesiderati della fluoxetina in un campione di 5.555 pazienti seguiti in Nuova Zelanda. In 15 casi vi è stata la segnalazione di effetti extrapiramidali quali tremori, distonia, acatisia, discinesia tardiva, trisma e spasmi muscolari agli arti inferiori. Nessuno dei soggetti aveva più di 65 anni. Solo in 7 dei 15 casi i pazienti erano in monoterapia con fluoxetina, negli altri l'antidepressivo era associato a neurolettici (4 casi), litio (2 casi) e metoclopramide (1 caso). La sospensione della fluoxetina ha comportato la risoluzione della sintomatologia extrapiramidale in 12 dei 15 pazienti trattati. Esistono segnalazioni di pazienti in monoterapia con fluoxetina, paroxetina e sertralina che hanno sviluppato sintomi extrapiramidali3. In alcuni casi erano probabilmente presenti fattori di rischio, come danni cerebrali o una precedente terapia neurolettica. In ogni caso la sospensione dell'antidepressivo e la sua successiva reintroduzione si associavano in questi pazienti ad una iniziale remissione e ad un ritorno successivo dei sintomi extrapiramidali. In un paziente trattato con sertralina si è verificata una distonia mandibolare, risoltasi dopo interruzione del trattamento, ma ripresentatasi alla successiva introduzione di trazodone.
A giudicare dal numero di segnalazioni l'acatisia sembra essere relativamente frequente tra gli effetti extrapiramidali. Le segnalazioni si riferiscono in alcuni casi a pazienti che precedentemente avevano assunto neurolettici o altri farmaci, rendendo così piuttosto difficile stabilire un sicuro rapporto di causa. In altri casi i pazienti erano in monoterapia con paroxetina (20 mg/die), fluoxetina (20 mg/die o più), sertralina (100 mg/die), citalopram (20 mg/die) e fluvoxamina (300 mg/die). In rari casi, i dosaggi di antidepressivo erano piuttosto elevati (140 mg/die di fluoxetina). Nella maggior parte delle segnalazioni l'acatisia si è presentata qualche giorno dopo la prescrizione dell'antidepressivo, spesso associata a rigidità muscolare diffusa, insonnia, ansia e, raramente, idee di morte. Va in ogni caso ribadita la difficoltà nello stabilire dei rapporti causali, poiché molti di questi sintomi sono tipici dei pazienti depressi. Più raramente, sintomi extrapiramidali e acatisia si sono presentati alcuni mesi dopo l'inizio del trattamento.
L'associazione tra disturbi extrapiramidali e SSRI ha suggerito un possibile rischio di insorgenza di discinesia tardiva, tra tutti gli effetti extrapiramidali, certamente il più temibile, visto che, in una percentuale di casi non trascurabile, è irreversibile. In effetti esistono segnalazioni di movimenti discinetici insorti in seguito all'uso prolungato di SSRI, oppure dopo interruzione del trattamento. Questo, però, molto spesso in pazienti con problemi neurologici o pazienti che avevano assunto neurolettici per lunghi periodi. Una donna di 42 anni ha sviluppato un quadro di discinesia tardiva dopo 4 anni di monoterapia con fluoxetina. La sospensione del farmaco, così come l'aggiunta di un neurolettico, provocava un peggioramento della sintomatologia; viceversa, un aumento del dosaggio di fluoxetina risolveva temporaneamente il quadro clinico. Questo andamento della sintomatologia assomiglia molto a quello che si riscontra nei pazienti in trattamento neurolettico che manifestano discinesia tardiva. Anche in questi ultimi, infatti, un aumento del dosaggio di neurolettico migliora temporaneamente il quadro, per peggiorarlo però nel lungo periodo. Nel caso sopracitato, la graduale sospensione della fluoxetina produceva, a lungo termine, una graduale diminuzione dei movimenti discinetici, che tuttavia erano ancora presenti un anno più tardi. I dati attualmente a disposizione, al di là dell'informazione di un rischio di effetti extrapiramidali non ancora quantificabile, non permettono di indicare con sicurezza quali siano i fattori predisponenti alla loro insorgenza. Tuttavia è possibile individuare alcune categorie di soggetti potenzialmente a maggior rischio (tabella 1). Anche per quanto riguarda la gestione dei disturbi extrapiramidali nei pazienti in trattamento con SSRI i dati sono piuttosto scarsi. Esistono delle indicazioni essenzialmente basate sul buon senso e in parte anche derivate dall'esperienza acquisita nella gestione di questi effetti indesiderati nei pazienti che assumono neurolettici. Evidentemente dovrebbe sempre essere tentata la riduzione della posologia fino ad una eventuale sospensione del farmaco. L'eventuale necessità di terapia antidepressiva potrebbe essere fronteggiata con un antidepressivo appartenente ad una diversa classe, un triciclico per esempio come la nortriptilina. Queste considerazioni non si basano comunque su prove di efficacia; è noto che anche i triciclici, gli inibitori delle MAO, il litio e la carbamazepina possono provocare acatisia ed altri effetti extrapiramidali. Gli anticolinergici e le benzodiazepine, efficaci nel ridurre alcuni sintomi extrapiramidali nei pazienti in terapia neurolettica, sono stati usati anche nei pazienti in trattamento con SSRI, con risultati diversi a seconda del tipo di effetto extrapiramidale.
Disturbi della sfera sessuale
Gli effetti indesiderati a carico della sfera sessuale in corso di trattamento con antidepressivi sono generalmente sottostimati. Spesso le disfunzioni sessuali vengono interpretate come un sintomo del disturbo che si vuole trattare: diminuzione della libido e dell'attività sessuale sono infatti una delle componenti delle sindromi depressive5. Ulteriori fattori confondenti sono rappresentati da eventuali malattie organiche concomitanti, che possono peggiorare i disturbi indotti dal farmaco, e da altre terapie assunte, che possono aumentare gli effetti indesiderati. Da ultimo, si tratta di disturbi difficilmente indagati dal medico e molto spesso non riferiti dal paziente. Uno studio6 ha messo in evidenza l'importanza di una corretta comunicazione medico-paziente: chiedere se il trattamento comporti problemi legati alla sfera sessuale aumenta di quattro volte la possibilità del riconoscimento. Questo dato può sembrare banale nella sua semplicità, tuttavia suggerisce come il primo intervento "terapeutico" sia indagare e monitorare frequentemente il trattamento in corso con SSRI, sapendo che un paziente su due lamenterà disturbi della sfera sessuale.
In generale, l'uso di antidepressivi di ogni classe farmacologica si associa a disfunzioni della sfera sessuale7,8: segnalazioni di casi di diminuzione della libido fino all'impotenza, orgasmo ritardato ed anorgasmia interessano praticamente tutti i farmaci antidepressivi9. Non è noto, invece, se la frequenza con cui gli SSRI inducono questi effetti indesiderati sia uguale o diversa da quella associata all'uso dei vecchi triciclici; le informazioni provenienti dagli studi clinici controllati, infatti, sono molto spesso incomplete e si limitano a segnalare il tasso di pazienti che interrompono il trattamento, indicando solo sommariamente la ragione dell'interruzione.
Le disfunzioni sessuali più comunemente segnalate riguardano l'orgasmo, con problemi quali difficoltà, ritardo, diminuzione dell'intensità o durata fino all'anorgasmia; in aggiunta molto frequente sembra essere la diminuzione della libido. Meno frequenti i problemi dell'erezione o dell'eiaculazione. I maschi sembrano essere più frequentemente colpiti delle femmine, anche se queste ultime, quando colpite, ne soffrono con gravità maggiore5.
Alcuni studi osservazionali hanno seguito coorti di pazienti in trattamento antidepressivo. Le stime ottenute sono variabili, ma si tratta di un problema piuttosto frequente: gli studi longitudinali riportano una frequenza del 60%, mentre gli studi retrospettivi, che sottostimano il problema, riportano percentuali del 10-20%. Sembra che la frequenza di questi disturbi sia più elevata nei pazienti affetti da depressione maggiore rispetto a quelli trattati con SSRI per altre patologie come attacchi di panico e disturbo ossessivo-compulsivo. In uno studio si sono ottenute stime di incidenza prossime al 70% nei pazienti depressi, mentre nelle altre categorie diagnostiche non si raggiungerebbero frequenze superiori al 10%. Questo evidentemente ripropone la questione dell'attribuzione del sintomo/effetto indesiderato, al farmaco appunto oppure alla patologia. Altre possibili spiegazioni di tali differenze si rifanno alle diversità nel dosaggio assunto di SSRI, spesso maggiore nella depressione che negli altri disturbi.
Per gestire questo problema, in letteratura vengono suggerite numerose opzioni terapeutiche che, grosso modo, rientrano in due possibili strategie: agire sulla terapia in corso oppure mettere in atto rimedi specifici. Per quanto riguarda il trattamento con SSRI, in una certa percentuale dei casi si assiste ad una regressione spontanea del disturbo con il passare del tempo8. In ogni caso, una strategia fondata sul buon senso è quella di diminuire progressivamente i dosaggi, cercando però di non scendere sotto le dosi minime efficaci per non compromettere il successo del trattamento. Un'altra possibilità è quella di sostituire l'antidepressivo SSRI con un altro farmaco di diversa classe, anche se, purtroppo, non esistono evidenze che possano in qualche modo aiutare ed orientare nella scelta del nuovo farmaco10.
Un approccio differente è quello di utilizzare i farmaci cosiddetti 'antidoti', di efficacia quantomeno dubbia e gravati a loro volta effetti collaterali ed interazioni farmacocinetiche e farmacodinamiche con gli SSRI. In letteratura sono presenti solo piccole serie di casi trattati in aperto. Ciò che stupisce è la numerosità delle opzioni. Il più comune antidoto suggerito è la ciproeptadina, ma ci sono numerose segnalazioni anche per la yohimbina, che sembrerebbe efficace nelle disfunzioni erettili, nel contrastare la diminuzione della libido e nell'anorgasmia indotta da SSRI in entrambi i sessi. Vengono inoltre riportati casi di pazienti trattati con successo con amantadina, destroamfetamina, metilfenidato e pemolina. Infine, sono stati utilizzati anche alcuni farmaci come il bupropione, il nefazodone e il buspirone nel trattamento delle disfunzioni sessuali provocate dagli SSRI.
Vale la pena in ogni caso ribadire che l'assenza di dati di efficacia suggerisce di non ricorrere a questi presidi terapeutici nella pratica clinica quodidiana.
Sindrome da sospensione
Charles Medawar è stato fra i primi a segnalare la presenza di una sindrome da sospensione negli utilizzatori di SSRI: in una particolareggiata quanto provocatoria ed interessante rassegna, ha ipotizzato per gli SSRI la presenza di problemi di dipendenza e tolleranza simili a quelli che riguardano le benzodiazepine11. In seguito molti autori hanno affrontato il problema12-14. Purtroppo attualmente il dibattito verte soprattutto sulle definizioni: quanti sintomi devono essere presenti e per quanto tempo per poter dire che si è in presenza di una sindrome da sospensione? la presenza di sintomi alla sospensione degli SSRI configura o meno una "withdrawal syndrome" per come viene definita dalla American Psychiatric Association? dipendenza e tolleranza fanno parte della sindrome o no, e quindi, è meglio usare il termine di "drug dependance", "withdrawal symptoms" oppure "discontinuation reactions"?15. In questa rassegna con il termine di sindrome da sospensione intendiamo l'emergenza di una serie di sintomi in seguito all'interruzione della terapia antidepressiva con SSRI.
Per fornire una stima della frequenza dei casi di sintomi alla sospensione degli SSRI, si è utilizzato il sistema inglese di segnalazione degli effetti indesiderati16. Nel periodo di tempo considerato, il 5,1% di tutte le segnalazioni riguardava l'emergenza di sintomi alla sospensione di paroxetina, mentre per gli altri SSRI le stime erano dello 0,9% per la sertralina, 0,4% per la fluvoxamina e lo 0,06% per la fluoxetina. Utilizzando come denominatore il totale delle prescrizioni di questi farmaci, e non il totale delle segnalazioni, gli autori hanno ottenuto una frequenza di segnalazioni/1.000 prescrizioni pari a 0,3 per la paroxetina, 0,03 per sertralina e fluvoxamina, 0,002 per la fluoxetina. Risultati analoghi sono stati ottenuti utilizzando la banca-dati dell'OMS, che raccoglie segnalazioni spontanee provenienti da 47 Paesi17. Il tasso di segnalazioni, calcolato come numero di casi per milione di pezzi venduti in DDD per anno, è risultato più alto per paroxetina rispetto agli altri SSRI. La tabella 2 presenta i 7 studi di incidenza fino ad oggi pubblicati. L'utilizzo di un disegno sperimentale longitudinale e prospettico, anziché di uno basato sulle segnalazioni spontanee, porta a stime più elevate.
La paroxetina, il più studiato tra gli SSRI, indurrebbe una sindrome da sospensione in una percentuale di pazienti variabile dal 20 al 50%. Percentuali analoghe sono state calcolate per la fluvoxamina, mentre per gli altri antidepressivi i dati sono ancora scarsi per poter trarre delle indicazioni certe. A prima vista parrebbe che la fluoxetina causasse meno degli altri SSRI sintomi alla sospensione. Blomgren e collaboratori, a questo proposito, hanno recentemente portato a termine uno studio clinico controllato che randomizzava pazienti trattati con successo con SSRI alla prosecuzione del trattamento verso la sospensione. Tra i pazienti che interrompevano il trattamento, una sindrome da sospensione si manifestava più frequentemente con la sertralina e la paroxetina rispetto alla fluoxetina. Nella stessa direzione vanno anche i dati di Zajecka e collaboratori provenienti da un analogo studio in cui 395 pazienti trattati con successo con fluoxetina sono stati randomizzati alla prosecuzione del trattamento verso la sospensione. Gli autori non hanno evidenziato l'emergenza di una particolare sintomatologia nei pazienti senza farmaco rispetto a quelli che proseguivano il trattamento, suggerendo l'assenza di una sindrome da sospensione in seguito all'interruzione brusca del trattamento. I dati riguardo la fluoxetina, tuttavia, devono essere interpretati con estrema cautela. Le caratteristiche farmacocinetiche della fluoxetina sono infatti del tutto peculiari rispetto a quelle degli altri SSRI: l'emivita di questo composto si aggira sui 6 giorni, mentre quella del suo metabolita è di 4-16 giorni. Esiste dunque la possibilità che la sindrome da sospensione per la fluoxetina si verifichi giorni o settimane dopo la sua sospensione. Questo potrebbe spiegare il minor numero di segnalazioni spontanee, nonché il profilo tutto sommato favorevole emerso dagli studi di sospensione. Questi ultimi, infatti, seguivano i pazienti solo per poche settimane; vi è evidenza di sintomatologia rebound da fluoxetina emersa dopo 25 giorni di interruzione ed ancora presente 56 giorni dopo.
Le segnalazioni spontanee pubblicate in letteratura sono riportate nella tabella 3. Nella maggior parte delle segnalazioni tale quadro clinico si risolveva spontaneamente nel giro di un paio di settimane. In alcuni casi è stato invece necessario reintrodurre l'antidepressivo per eliminare la sintomatologia che esso stesso aveva prodotto. Una nuova sospensione, più graduale, ha poi quasi sempre permesso la definitiva interruzione del trattamento farmacologico.
La relazione tra emergenza di sintomi alla sospensione di SSRI e dosaggio di antidepressivo non è ancora chiara; generalmente viene comunque raccomandata una sospensione più graduale nei casi di terapia a dosaggio elevato. Per quanto riguarda la gestione di questo problema, un atteggiamento preventivo sembra emergere ancora una volta come il più razionale. Gli utilizzatori di antidepressivi dovrebbero essere informati del fatto che l'interruzione brusca della terapia può causare una serie di disturbi, e che tali disturbi sono spesso evitabili scalando gradualmente il dosaggio del farmaco18. Il British National Formulary (1998) suggerisce di diminuire gradualmente la posologia nell'arco di 1 mese circa, e di prestare maggiore attenzione ai pazienti che all'anamnesi rivelano una storia pregressa di frequenti reazioni alla sospensione di farmaci.
Commento conclusivo
I disturbi extrapiramidali, quelli della sfera sessuale e la sindrome da sospensione rappresentano un problema in corso di trattamento antidepressivo con SSRI che rimane ancora aperto per quanto riguarda frequenza, gravità e possibili strategie di gestione. La difficoltà di riconoscimento della relazione tra sintomi extrapiramidali e terapia antidepressiva con SSRI è verosimilmente connessa alla relativa rarità del fenomeno. In aggiunta, molto spesso questi sintomi compaiono in pazienti che in passato avevano assunto altri psicofarmaci, aumentando così il rischio di disturbi extrapiramidali; da ultimo, la comorbidità con problemi neurologici può complicare ulteriormente il quadro rendendo quindi difficile l'attribuzione del sintomo. Le difficoltà di riconoscimento dei disturbi della sfera sessuale e dei sintomi da sospensione sono più difficili da comprendere, data la frequenza verosimilmente alta di questi problemi negli utilizzatori di SSRI. Alcune possibili spiegazioni possono riferirsi alla difficoltà di attribuzione del sintomo. Sia i disturbi della sfera sessuale che una sintomatologia tutto sommato aspecifica quale quella che caratterizza la sospensione brusca di SSRI, infatti, possono essere facilmente attribuiti ad un peggioramento del quadro clinico della depressione. Questo è suggerito anche dal fatto che solamente in seguito alla segnalazione dell'esistenza di una possibile sindrome da sospensione di paroxetina le segnalazioni di casi di pazienti che manifestavano tale sindrome sono rapidamente cresciute19.
D'altra parte, confondere un effetto indesiderato di un farmaco con un peggioramento delle condizioni cliniche del disturbo che si sta trattando è dannoso non solo a livello del singolo paziente, ma anche a livello della interpretazione delle informazioni che provengono da gruppi di pazienti. Gli studi a lungo termine che randomizzano pazienti che hanno risposto agli SSRI alla prosecuzione della terapia verso la sospensione, ne sono un esempio. In questi trial si confronta il numero di pazienti con una riacutizzazione sintomatologica nei due gruppi sperimentali. Come suggerito sempre da Medawar, il migliore stato sintomatologico di coloro che proseguono la terapia potrebbe essere dovuto non tanto al fatto che il farmaco evita le ricadute depressive, quanto piuttosto al fatto che una quota di coloro che interrompe il farmaco manifesta una sindrome da sospensione classificata erroneamente come ricaduta depressiva. Il risultato netto di questi studi sarebbe quello di incentivare l'uso di antidepressivo non tanto perché continua ad essere presente una sintomatologia depressiva, quanto piuttosto per la paura che una eventuale interruzione possa provocare dei sintomi da sospensione. In questo senso l'uso cronico di antidepressivi potrebbe assomigliare a quello cronico di benzodiazepine20.
L'esempio del profilo di tollerabilità degli SSRI, ancora non del tutto noto a 10 anni dalla commercializzazione, induce inoltre una riflessione sui sistemi di farmacovigilanza a nostra disposizione. I modelli di segnalazione spontanea sono considerati ottimi strumenti per una rapida identificazione di nuove e rare reazioni avverse. D'altra parte i singoli casi segnalati vengono spesso criticati per non essere abbastanza significativi nel definire un nuovo problema di sicurezza di un farmaco; hanno inoltre lo svantaggio di essere estremamente selettivi, di riportare falsi positivi, di sottosegnalare l'esistente e di non permettere delle valide stime della frequenza o della incidenza di una reazione avversa21,22. Gli stessi limiti posseggono le informazioni provenienti dai registri di mortalità e morbilità, che identificano reazioni avverse acute o subacute in relazione alla somministrazione di un farmaco23. Certamente gli studi caso-controllo sono una importante fonte di informazione, nel momento in cui rispondono ad un quesito specifico. Essi hanno permesso, per esempio, di stimare il rischio di malformazioni fetali nelle donne in gravidanza che assumono fluoxetina24. Il limite di questo approccio è tuttavia che non può essere impiegato senza una precisa ipotesi da testare, in una situazione in cui si voglia sorvegliare la routine delle prescrizioni di farmaco per identificare e quantificare ogni problema - effetto indesiderato o altro - che dovesse emergere. Sembra cioè che quello che continua a mancare sia una epidemiologia degli effetti indesiderati e delle reazioni avverse. Oppure, per usare una terminologia più alla moda, una epidemiologia degli outcome, in questo caso negativi, una outcome research insomma.
Per arrivare a questo obiettivo è necessario un vero e proprio cambiamento di atteggiamento culturale25: un approccio di ricerca dovrebbe essere trasferito e radicato nei servizi, in questo caso i servizi psichiatrici, territoriali e non, che non sono certo i luoghi deputati istituzionalmente a fare ricerca, tuttavia sono i luoghi dove si incontrano i pazienti, quelli veri, quelli che prendono i farmaci e poi li smettono, quelli che hanno gli effetti collaterali strani, rari, e i sintomi da sospensione26. In questo contesto sarebbe prioritario un monitoraggio, magari longitudinale, di tutti i pazienti ai quali vengono prescritti gli SSRI. La farmacovigilanza potrebbe così semplicemente diventare una tra le tante attività che svolgiamo, finalmente parte integrante della nostra pratica clinica quotidiana.
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