A distanza di circa due anni dal precedente articolo sui nuovi farmaci in oncologia (Informazioni sui farmaci 2014; 38:60-78) abbiamo deciso di proporne un aggiornamento critico considerando tutte le nuove molecole autorizzate dalla FDA dal 1° gennaio 2014 al 31 dicembre 2015, includendo anche le estensioni di indicazioni di farmaci già disponibili. L’obiettivo del presente lavoro è far riflettere gli attori coinvolti nel trattamento del paziente oncologico (oncologi, farmacisti ospedalieri, farmacologi, decisori di spesa, associazioni di volontariato) sul rapporto beneficio/rischio di tali trattamenti senza però considerare il valore di ogni nuovo trattamento, “valore” inteso come grandezza del beneficio clinico in relazione al costo del nuovo farmaco. Torneremo, seppur succintamente, nelle conclusioni su quest’ultimo tema che ha visto nel 2015 importanti prese di posizione da parte delle maggiori associazioni oncologiche internazionali. Il lavoro è articolato per tipo di neoplasia ed è organizzato in modo da agevolare i Lettori che fossero interessati solo a specifici tipi di tumore: ad ogni tipo di neoplasia è dedicato un capitolo a se stante, corredato di discussione e Bibliografia. L’ordine di esposizione è attuato in senso decrescente del numero di nuovi farmaci discussi e, per le neoplasie in cui le novità si riducono ad un solo farmaco, si è evitato di istituire un formale paragrafo di “discussione e conclusioni” incorporandone però i contenuti nell’ultima parte del capitolo. Al termine del lavoro sono state inserite nostre conclusioni generali che costituiscono una base di riflessione sulle attuali dinamiche della ricerca clinica sui nuovi farmaci in Oncologia.
CARCINOMA DEL POLMONE NON A PICCOLE CELLULE
INIBITORI TIROSINO-CHINASICI: Ceritinib, Alectinib, Osimertinib,
ANTICORPI ANTI-EGFR: Necitumumab,
IMMUNOTERAPIA : Nivolumab, Pembrolizumab
ANTI-ANGIOGENETICI: Ramucirumab, Nintedanib,
DISCUSSIONE E CONCLUSIONI
MELANOMA MEK INIBITORI IN ASSOCIAZIONE CON BRAF INIBITORI : Vemurafenib + Cobimetinib, Dabrafenib + Trametinib
IMMUNOTERAPIA : Ipilimumab nel trattamento adiuvante, Nivolumab, Pembrolizumab, Nivolumab + Ipilimumab, Talimogene Laherparepvec
DISCUSSIONE E CONCLUSIONI
CARCINOMA DEL COLON-RETTO METASTATICO Ramucirumab, Trifluridina/Tipiracil (TAS-102),
DISCUSSIONE E CONCLUSIONI
CARCINOMA DIFFERENZIATO DELLA TIROIDE Sorafenib, Lenvatinib
DISCUSSIONE E CONCLUSIONI
CARCINOMA DELL’OVAIO Olaparib, Bevacizumab per carcinoma recidivato platinoresistente
DISCUSSIONE E CONCLUSIONI
CARCINOMA DELLO STOMACO Ramucirumab
CARCINOMA DEL RENE Nivolumab
CARCINOMA DELLA MAMMELLA Palbociclib
CARCINOMA DEL COLLO DELL’UTERO Bevacizumab
CARCINOMA DELLA PROSTATA Alpharadin
CARCINOMA DEL PANCREAS Irinotecan Liposomiale,
CARCINOMA DEL POLMONE NON A PICCOLE CELLULE
Negli ultimi anni è stato chiarito il ruolo cardine delle proteine ad azione tirosino-chinasica nella regolazione delle pathways di segnale che mediano la crescita e la sopravvivenza cellulare e come la deregolazione di tali segnali sia alla base dei processi dell’insorgenza e della progressione della malattia neoplastica.
L’identificazione di specifiche aberrazioni molecolari – coinvolgenti dapprima l’Epidermal Growth Factor Receptor (EGFR) e, successivamente, l’Anaplastic Lymphoma Kinase (ALK) – ha consentito di introdurre il concetto di “oncogene addiction”, con cui si intende la dipendenza della cellula trasformata da un’alterazione genomica somatica principale, responsabile dell’acquisizione e del mantenimento del fenotipo neoplastico. Ed è proprio in tale contesto, cioè mediante lo sviluppo di farmaci con azione inibitoria della tirosino-chinasi diretti contro specifici target molecolari, che trova fondamento il rationale dell’approccio terapeutico mirato del tumore del polmone non a piccole cellule (Non Small-Cell Lung Cancer, NSCLC) che sta cambiando la prognosi di quel sottoinsieme di pazienti portatori di peculiari alterazioni geniche predittrici di risposta.
a) Ceritinib
Ceritinib è un inibitore di ALK di seconda generazione, approvato dall’EMA nel maggio 2015 per il trattamento di pazienti adulti con NSCLC con traslocazione genica coinvolgente ALK, in stadio avanzato già sottoposti a terapia con crizotinib ed in progressione o intolleranti ad esso.
Analogamente ad altri composti della medesima categoria farmacologica, sviluppati nel tentativo di superare la resistenza acquisita all’inibitore di prima generazione, il ceritinib è altamente selettivo e con potenza di azione 20 volte superiore rispetto a crizotinib. Studi preclinici hanno messo in evidenza la significativa attività nei confronti di cloni cellulari ALK positivi anche in presenza di mutazioni geniche conferenti resistenza specifica a crizotinib, come L1196M e G1269A.
Il farmaco ha ottenuto un’approvazione accelerata sulla base dei risultati di uno studio di fase I in cui ceritinib è stato somministrato per via orale in 130 pazienti affetti da neoplasie in stadio avanzato (122 con NSCLC), precedentemente trattate e caratterizzate da traslocazione genica coinvolgente ALK1. Lo studio prevedeva una fase di dose-escalation finalizzata alla determinazione della dose massima tollerata e, quindi, della dose terapeutica raccomandata, ed una fase di dose-expansion mirata alla definizione di attività, sicurezza e farmacocinetica del farmaco. Endpoint primari erano l’ORR e la durata delle risposte, endpoint secondario era la sopravvivenza libera da progressione (Progression Free Survival, PFS).
Nello studio sono stati arruolati 130 pazienti, 59 nella fase di dose-escalation in cui la dose di ceritinib veniva aumentata da 50 mg die fino a 750 mg die e 71 nella fase di dose-expansion trattati con la dose massima tollerata di 750 mg die. I 114 pazienti che avevano ricevuto una dose di almeno 400 mg die di ceritinib ottenevano un ORR pari al 58% (negli 83 pazienti precedentemente trattati con crizotinib l’ORR era del 56%), mentre la durata mediana della risposta è stata di 8,2 mesi e la PFS mediana di 7,0 mesi.
L’attività del farmaco è stata poi valutata in due studi di fase II2,3, al momento pubblicati solo come abstract, in cui venivano arruolati, rispettivamente, 140 pazienti pretrattati con crizotinib e 124 naïve per ALK inibitori. L’ORR era pari al 38,6% nel primo caso e del 63,7% nel secondo, con una durata mediana della risposta di 9,7 e 9,3 mesi. La PFS mediana era 5,7 e 11,1 mesi, rispettivamente.
Tra gli eventi avversi più frequenti vi erano diarrea, nausea, vomito, dolori addominali (presenti nel 96% dei casi), di cui il 14% di grado ≥ 3, ed inoltre fatigue, alterazioni della funzionalità epatica, inappetenza, stipsi, rash cutaneo, aumento della creatininemia e anemia. Ipertransaminasemia ed astenia sono stati segnalati come eventi avversi di grado ≥ 3 in una percentuale ≥ 5% dei pazienti. Di rilievo in quanto potenzialmente fatali, eventi come polmonite e malattia polmonare interstiziale, prolungamento dell'intervallo QTc, bradicardia asintomatica (2% dei casi). Infine, in meno del 10 % dei pazienti trattati con ceritinib è stata riportata iperglicemia che era di grado ≥ 3 nel 5% dei casi.
Il ceritinib è disponibile in compresse da 150 mg che vanno assunte in unica somministrazione (5 compresse) due ore prima o dopo un pasto. Il farmaco è un substrato del CYP3A4 e quindi non è raccomandato l’uso concomitante con forti inibitori o induttori del CYP3A4.
L’efficacia del farmaco dovrà essere chiarita dagli studi di fase III attualmente in corso, in cui ceritinib in terza linea è confrontato con un singolo agente chemioterapico dopo progressione a doppietta a base di platino e a crizotinib, o in cui il farmaco viene testato come prima linea di trattamento in confronto alla chemioterapia convenzionale. Da considerare il profilo di tossicità del farmaco che, pur clinicamente gestibile, è caratterizzato da frequenti eventi avversi anche gravi di tipo persistente o ricorrente, in una popolazione già trattata e spesso con performance status non ottimale.
b) Alectinib
Nel dicembre 2015 alectinib ha ricevuto approvazione accelerata dalla FDA per il trattamento di pazienti affetti da carcinoma polmonare non a piccole cellule in fase avanzata, portatori di traslocazione di ALK, in progressione dopo trattamento con crizotinib o intolleranti ad esso. Si tratta di un farmaco dotato di elevata selettività di azione per l’ALK, con attività nei confronti della maggior parte delle mutazioni conferenti resistenza acquisita, in grado di superare la barriera emato-encefalica e raggiungere in alte concentrazioni il sistema nervoso centrale.
Il farmaco è stato approvato sulla base dei risultati di due studi di fase II pianificati per valutare l’attività e la tossicità di alectinib in pazienti in progressione di malattia dopo crizotinib4,5. In ambedue gli studi alectinib è stato somministrato alla dose di 600 mg (4 capsule da 150 mg) due volte/die entro 30 minuti dai pasti e l’endpoint primario era l’ORR. Il farmaco non interagisce con il CYP3A4.
Nel primo studio4 sono stati inclusi 138 pazienti di cui 122 valutabili per la risposta; 84 (61%) presentavano metastasi cerebrali. L’ORR è stato del 50% con una durata mediana della risposta di 11,2 mesi. La PFS mediana è stata di 8,9 mesi. Nei pazienti precedentemente trattati con chemioterapia l’ORR è stato del 44%, mentre è stato del 57% nei 35 pazienti con metastasi cerebrali. Gli effetti collaterali più frequenti, in genere di grado 1-2, erano stipsi (33%), fatigue (26%), edemi periferici (25%) e mialgie (23%).
Nel secondo studio5, sono stati inclusi 87 pazienti di cui il 74% pretrattati con chemioterapia ed il 60% con metastasi a carico del sistema nervoso centrale. L’ORR è risultato pari al 48% con durata mediana della risposta di 13,5 mesi. La PFS mediana è stata di 8,1 mesi. Dei pazienti con metastasi cerebrali valutabili il 75% ha ottenuto una risposta. Gli effetti collaterali più frequenti, in genere di grado 1-2, erano stipsi (36%), fatigue (33%), mialgia (24%) edemi periferici (23%). I più comuni eventi avversi di grado ≥ 3 sono stati alterazioni dei valori di laboratorio in particolare CPK (8%), SGPT (6%) e SGOT (5%).
In questo studio è stata eseguita una valutazione della qualità di vita con il questionario dell’EORTC QLQ-C30 + QLQ-LC13 (modulo specifico per tumore del polmone). Per quel che può valere il risultato della valutazione della qualità di vita in uno studio non randomizzato, sono stati osservati, rispetto al basale, sia una riduzione della fatigue, sia un miglioramento significativo dello stato globale di salute dopo sei settimane, miglioramento che si manteneva nelle due successive visite e persisteva fino alla fine del trattamento.
Sebbene i risultati preliminari siano interessanti, per poter esprimere un giudizio sull’alectinib è necessario conoscere l’impatto sulla sopravvivenza globale (Overall Survival, OS) e sulla qualità di vita rispetto ai trattamenti convenzionali. Questi risultati saranno prodotti dagli studi di fase III attualmente in corso.
c) Osimertinib
Nel novembre 2015 osimertinib ha ricevuto approvazione accelerata dalla FDA per pazienti affetti da carcinoma del polmone non a piccole cellule avanzato, portatori di mutazione T790M del gene EGFR ed in progressione di malattia dopo un precedente trattamento con inibitore tirosino-chinasico di EGFR.
Il farmaco è un inibitore tirosino-chinasico irreversibile ed altamente selettivo, attivo in presenza di mutazioni di EGFR, compresa la T790M, correlata in circa i due terzi dei casi a resistenza secondaria ad inibitori di EGFR di prima (erlotinib e gefitinib) e seconda generazione (afatinib).
Uno studio di fase I ha arruolato complessivamente 253 pazienti in progressione di malattia dopo un trattamento di prima linea con inibitori tirosino-chinasici di EGFR e documentata presenza di mutazione T790M. Dei 253 pazienti, 31 sono entrati nella fase di dose-escalation in cui il farmaco è stato somministrato inizialmente a dosi di 20 mg die e con incrementi del 100% di dose si è raggiunta la dose massima di 240 mg. Ogni volta che una dose si dimostrava attiva veniva iniziata una fase di dose-expansion con pazienti sottoposti a questa dose. Sono entrati in questa parte dello studio 222 pazienti6. Endpoint primari dello studio erano la sicurezza e l’attività del farmaco. Nella fase di dose-escalation non si evidenziava una tossicità dose limitante. L’ORR è stato del 51%. In 127 pazienti, dove è stato possibile determinare la presenza della mutazione T790M, è stata ottenuta una risposta nel 61%, mentre in chi non presentava la mutazione la risposta era del 21%. La PFS mediana è stata di 9,6 mesi e 2,8 mesi, rispettivamente tra coloro che presentavano o meno la mutazione. Le tossicità più frequenti, spesso di grado 1-2, dell’osimertinib erano diarrea (47%), rash (40%), nausea (22%) e diminuzione dell’appetito (21%), paronichia (17%).
In due studi clinici di fase II non ancora pubblicati, sono stati valutati 411 pazienti con NSCLC in progressione di malattia dopo un trattamento di prima linea con inibitori tirosino-chinasici di EGFR e documentata presenza di mutazione T790M7. Tutti i pazienti hanno ricevuto osimertinib alla dose approvata di 80 mg/die. Endpoint primario era la risposta obiettiva. Il trattamento con osimertinib ha determinato un ORR del 59%.
Complessivamente il farmaco può indurre polmoniti interstiziali (3,3% dei pazienti, fatali nello 0,5% dei casi), cardiomiopatia (1,4% dei pazienti, fatale nello 0,2% dei casi) e prolungamento del tratto QTc.
Al momento, il farmaco è valutato in uno studio di fase III, che confronta efficacia e tossicità di osimertinib versus chemioterapia con doppietta a base di platino in pazienti con NSCLC localmente avanzato o metastatico, EGFR T790M positivo, in progressione dopo una precedente terapia con inibitori tirosino-chinasici di EGFR.
L’evidente implicazione di EGFR nei meccanismi di regolazione della crescita e proliferazione cellulare e l’iperespressione del recettore nel NSCLC, costituiscono il rationale alla base degli studi sull’effetto degli anticorpi anti EGFR che, mediante legame competitivo con il TGF-alfa, con l’EGF e con altri ligandi naturali per i siti recettoriali extracellulari, prevengono l’autofosforilazione del recettore bloccando la cascata di trasduzione del segnale intracellulare.
a) Necitumumab
Necitumumab è stato approvato nel novembre 2015 dalla FDA per l'utilizzo in combinazione con cisplatino e gemcitabina, nel trattamento di prima linea di pazienti affetti da carcinoma del polmone non a piccole cellule con istologia squamosa, localmente avanzato o metastatico.
Il necitumumab è un anticorpo umano monoclonale della classe IgG1 che si lega al dominio extracellulare del recettore EGFR inibendone l’interazione con il ligando.
L’efficacia del farmaco è stata valutata in uno studio randomizzato di confronto fra cisplatino più gemcitabina più necitumumab versus cisplatino più gemcitabina nel quale sono stati arruolati 1093 pazienti affetti da carcinoma squamoso del polmone metastatico, non pretrattati con chemioterapia8. Il necitumumab è stato somministrato in infusione endovenosa alla dose di 800 mg nei giorni 1 e 8 di ogni ciclo, prima dell’infusione di gemcitabina (1250 mg/m2 giorni 1 e 8 di ogni ciclo) e cisplatino (75 mg/m2) ogni 21 giorni, e, come singolo agente, dopo il completamento del trattamento chemioterapico (massimo 6 cicli). La OS è stata considerata endpoint primario dello studio ed il calcolo della dimensione del campione è stato eseguito considerando clinicamente rilevante un aumento della OS mediana da 11,00 a 13,75 mesi con l’aggiunta del necitumumab. I pazienti eleggibili sono stati randomizzati a ricevere la sola chemioterapia (gemcitabina e cisplatino) o quest’ultima in associazione al necitumumab. L’aggiunta del necitumumab ha aumentato significativamente la OS mediana seppur con un beneficio marginale (da 9,9 mesi a 11,5 mesi, Hazard Ratio (HR) = 0,84), mentre la mediana della PFS è rimasta praticamente la stessa: da 5,5 mesi a 5,7 mesi. Il necitumumab ha aumentato, però, anche l’incidenza di grado ≥ 3 di ipomagnesemia (9% vs 1%) e di tromboembolismo venoso (4% vs < 1%).
Il farmaco è stato poi valutato nell’ambito di un secondo studio eseguito in 633 pazienti affetti da NSCLC con istologia non squamosa che sono stati randomizzati a ricevere in prima linea, chemioterapia con pemetrexed più cisplatino da sola o in combinazione con necitumumab9. Lo studio è stato chiuso prematuramente alla luce dell’elevata incidenza di eventi tromboembolici nei primi due cicli di chemioterapia.
Non sono state individuate differenze significative in termini di OS (11,3 nel braccio sperimentale e 11,5 mesi nel braccio di controllo). Il necitumumab ha aumentato l’incidenza di grado ≥ 3 di rash (15% vs <1%), ipomagnesemia (8% vs 2%) e di grado 3 di trombosi venose profonde ed embolie polmonari (8% vs 4%). Un piccolo aumento del numero di morti è stato registrato nel braccio dei pazienti trattati con necitumumab in entrambi gli studi (2,2 % vs 0,5% nel primo, e 3,6 % vs 1,6% nel secondo studio), ma per cause non del tutto precisate. Sembra che i disturbi elettrolitici relati alla combinazione di chemioterapia a base di platino con necitumumab, unitamente alle comorbidità dei pazienti inclusi negli studi (vasculopatia, ipertensione), abbiano giocato un ruolo nell’eziologia di tali eventi. Si segnala la correlazione tra l’utilizzo di anticorpi anti-EGFR e la patogenesi di eventi tromboembolici specie di tipo venoso (trombosi venose profonde ed embolia polmonare), recentemente individuata, probabilmente causati dalla inibizione indiretta del segnale mediato dal Vascular Endothelial Growth Factor (VEGF)10.
La migliore comprensione del ruolo del sistema immunitario nel controllo della crescita e dello sviluppo tumorale ha recentemente aperto numerose strade all’implementazione del trattamento del NSCLC mediante differenti strategie terapeutiche volte a potenziare la risposta immune nei confronti delle cellule neoplastiche. Di peculiare rilievo in tal senso, è l’introduzione di anticorpi immunomodulanti che hanno come bersaglio alcune molecole espresse sui linfociti T (CTLA-4 e PD-1/PD-L1) appartenenti al complesso sistema dei posti di blocco immunologici.
a) Nivolumab
Il farmaco è stato approvato dall’EMA ad aprile 2015 per il trattamento di seconda linea di pazienti affetti da NSCLC, istotipo squamoso, in progressione di malattia dopo un precedente trattamento chemioterapico.
Si tratta di un anticorpo monoclonale diretto nei confronti di un recettore antigenico denominato "di morte cellulare programmata 1" (PD-1), in grado di sbloccare l’attività delle cellule T del sistema immunitario e di scatenare la risposta immunitaria diretta contro il tumore.
Il nivolumab negli studi di fase I-II aveva determinato in pazienti con carcinoma squamoso metastatico del polmone un ORR del 15% e 17%, una mediana di sopravvivenza globale di 8,2 e 9,2 mesi ed una sopravvivenza ad un anno del 41% dei pazienti e a tre anni del 19%. L’efficacia del farmaco è stata valutata in uno studio di fase III in cui 272 pazienti affetti da carcinoma squamoso del polmone stadio IIIB/IV, in progressione di malattia durante o dopo un iniziale trattamento chemioterapico con doppietta a base di platino, sono stati randomizzati a ricevere terapia con nivolumab (3 mg/kg ev ogni due settimane) o docetaxel (75 mg/m2 ev ogni tre settimane)11. Endpoint primario dello studio era la OS. Il lavoro, pubblicato sul New England Journal of Medicine, stranamente non riporta le ipotesi su cui è stata calcolata la dimensione dello studio.
La OS mediana è risultata significativamente superiore nel gruppo di pazienti trattati con nivolumab rispetto a quelli trattati con chemioterapia convenzionale (9,2 vs 6,0 mesi, HR = 0,59); la sopravvivenza ad un anno è stata, rispettivamente, del 42% vs il 24%, con una curva che tende ad appiattirsi nei pazienti trattati con nivolumab a partire dai 18 mesi. L’ORR è stato significativamente superiore con nivolumab (20% vs 9%) così come la PFS mediana (3,5 vs 2,8 mesi).
Un totale di 28 pazienti hanno continuato il nivolumab dopo progressione della malattia, 9 di questi hanno ottenuto una risposta. L’83% dei pazienti randomizzati sono risultati positivi per espressione di PD-L1, positività che era ben bilanciata tra i due gruppi. La positività di PD-L1 non era correlata con il beneficio in sopravvivenza e non è stata pertanto prognostica o predittiva di efficacia clinica.
La percentuale di eventi avversi è risultata complessivamente inferiore nel gruppo trattato con nivolumab (58% vs 86%) e, in tale contesto, gli eventi di grado ≥ 3 sono risultati significativamente più frequenti con il docetaxel (57% vs 7%). Gli eventi avversi più frequenti con nivolumab sono stati: fatigue (16% dei pazienti vs 33% con docetaxel), inappetenza (11% vs 19%), astenia (10% vs 14%), nausea (9% vs 23%), diarrea (8% vs 20%), polmonite (5% vs 0%), ipotiroidismo (4% vs 0%), rash (4% vs 6%), aumento dei livelli di creatinina (3% vs 2%). La sospensione del farmaco è stata necessaria in una piccola percentuale di pazienti (3%) e più frequentemente era dovuta all’insorgenza di una polmonite su base immunitaria. Sono stati riportati tre eventi avversi di grado 3 nel gruppo sottoposto a terapia con nivolumab, ovvero nefrite tubulointerstiziale, colite, polmonite; non sono stati descritti eventi di grado 4.
In conclusione, il nivolumab nello studio di fase III ha confermato i risultati precedentemente osservati nello studio di fase II, recentemente pubblicato, in cui il farmaco è stato valutato come trattamento dalla terza linea in poi del carcinoma squamoso del polmone12.
Ad ottobre 2015 la FDA ha esteso l’indicazione all’utilizzo del nivolumab nel NSCLC, includendo pazienti affetti da istologia non squamosa, in progressione dopo un precedente trattamento con regimi a base di platino o dopo fallimento di terapie target in presenza di mutazioni di EGFR o traslocazione di ALK.
L’approvazione è stata basata sui risultati di uno studio di fase III13 nel quale 582 pazienti sono stati randomizzati 1:1 ad effettuare terapia con nivolumab alla dose di 3 mg/kg (n=292) ogni due settimane o docetaxel 75 mg/m2 ogni tre settimane (n=290). Lo studio ha documentato un incremento statisticamente significativo della OS mediana (12,2 vs 9,4 mesi, HR = 0,73). La OS mediana è risultata significativamente superiore con nivolumab (ad un anno la percentuale di sopravviventi era 51% vs 39% ed a 18 mesi 39% vs 23%, rispettivamente) così come l’ORR (19% vs il 12%) e la durata mediana della risposta (17,2 mesi vs 5,6 mesi). Non sono state osservate differenze significative in termini di PFS mediana (2,3 mesi vs 4,2 mesi, rispettivamente).
L’espressione di PD-L1 è stata eseguita su 455 pazienti. In tale sottogruppo, il 46% sono risultati PD-L1 negativi (espressione documentata in meno dell’1% delle cellule tumorali) ed il 54% positivi. È emersa una correlazione significativa tra l’espressione del PD-L1 e l’outcome clinico con il nivolumab; infatti un maggior beneficio in termini di OS, PFS e ORR è stato evidenziato a livelli crescenti di espressione di PD-L1 (≥1%, ≥5%, ≥10%), suggerendo un valore predittivo di efficacia del farmaco, contrariamente a quanto finora osservato nelle forme ad istologia squamosa. Nei pazienti PD-L1 negativi non vi erano differenze in termini di OS mediana tra nivolumab e docetaxel.
Il profilo di sicurezza è risultato analogo a quello già descritto negli altri studi, essendo gli eventi avversi con il nivolumab poco frequenti e di scarsa intensità. Eventi avversi di ogni grado sono stati riferiti dal 69% dei pazienti trattati con nivolumab e dall’88% dei pazienti trattati con docetaxel, un evento di grado 3 o 4 è stato riportato dal 10% e dal 54% dei pazienti, rispettivamente. Tra gli eventi più frequenti di ogni grado segnalati nel gruppo trattato con nivolumab: fatigue (16% vs 29% con docetaxel), nausea (12% vs 26%), inappetenza (10% vs 16%), astenia (10% vs 18%).
b) Pembrolizumab
Pembrolizumab ha ricevuto l’approvazione accelerata dalla FDA ad ottobre 2015 per il trattamento di pazienti affetti da NSCLC in fase avanzata, PD-L1 positivi (cut-off di positività pari al 50%), con istotipo squamoso o non squamoso, in progressione di malattia durante o dopo un trattamento chemioterapico con doppietta a base di platino.
Il farmaco è stato approvato con un “companion diagnostic” (test PD-L1 IHC 22C3 pharmDx) sviluppato dalla società Agilent Technologies, primo test progettato per rilevare l'espressione di PD-L1.
Pembrolizumab è un anticorpo monoclonale IgG4 diretto contro il recettore di morte cellulare programmata (PD-1) che è espresso sui linfociti T CD4 e CD8, sulle cellule NK, sui linfociti B, sui monociti. L’interazione fra PD-1 ed i suoi ligandi, PD-L1 e PD-L2 provoca una inibizione della risposta immunitaria mediata dalle cellule T, meccanismo fisiologicamente coinvolto nella prevenzione delle risposte autoimmuni e sapientemente sfruttato dalle cellule neoplastiche per eludere la sorveglianza immunitaria. Pembrolizumab quindi potenzia la risposta immunitaria antitumorale mediata dalle cellule T attraverso il blocco del legame PD-1 ai ligandi PD-L1 e PD-L2.
Nello studio di fase I (KEYNOTE-001) che ha portato all’approvazione della FDA, sono stati arruolati 495 pazienti affetti da NSCLC avanzato, l’80% dei quali aveva già ricevuto un precedente trattamento14. Endpoint primario dello studio era la valutazione della tossicità e dell'attività del pembrolizumab, somministrato endovena in differenti dosaggi (2 mg/kg e 10 mg/kg ogni 3 settimane o 10 mg/kg ogni 2 settimane). La positività per PD-L1 è stata definita mediante colorazione della membrana cellulare in almeno l’1% delle cellule neoplastiche. Il pembrolizumab ha determinato un ORR del 19,4% (18,0% nei 394 pazienti precedentemente trattati e 24,8% nei 101 pazienti non pretrattati) indipendente da dose, schedula di somministrazione, istotipo di malattia. La durata mediana della risposta è stata pari a 12,5 mesi, la PFS mediana è stata di 3,7 mesi (3,0 nei pazienti pretrattati vs 6,0 mesi in quelli non pretrattati) e la OS mediana è stata di 12,0 mesi (9,3 nei pretrattati vs 16,2 mesi nei non pretrattati).
Nei pazienti che presentavano un livello di positività del PD-L1 di almeno il 50% è stato riscontrato un ORR del 45,2% con una PFS mediana di 6,3 mesi, il che prova l’esistenza di un’associazione tra l’espressione del PD-L1 in almeno il 50% delle cellule neoplastiche e l’efficacia del pembrolizumab.
I più comuni eventi avversi sono stati fatigue (19,4%), prurito (10,7%), diminuzione dell’appetito (10,5%), rash (9,7%) artralgia (9,1%) e diarrea (8,1%). Complessivamente, eventi avversi di grado ≥ 3 sono stati riportati nel 9,5% dei casi. Eventi avversi immunorelati che si sono verificati in più del 2% dei pazienti sono reazioni infusione-relate (3,0%), ipotiroidismo (6,9%), polmoniti (3,6%, di cui di grado ≥ 3 nell’1,8% dei pazienti). Non sono state riscontrate differenze di eventi avversi tra le diverse dosi e schedule di trattamento con pembrolizumab.
Recentemente è stato pubblicato lo studio di fase II-III che ha confrontato pembrolizumab (2 o 10 mg/kg ev ogni 3 settimane) con docetaxel (75 mg/m2 ev ogni 3 settimane) in 1034 pazienti PD-L1 positivi in almeno l’1% delle cellule neoplastiche, affetti o da carcinoma del polmone squamoso, o da adenocacinoma, in progressione dopo una, due o più linee di chemioterapia o dopo un inibitore di EGFR o ALK15. Gli endpoint co-primari dello studio erano la OS e la PFS, valutate sia nell’intera popolazione che in quella dei pazienti in cui il PD-L1 era presente in ≥ 50% delle cellule tumorali. Il calcolo della dimensione campionaria è stato eseguito ipotizzando di evidenziare un aumento della OS mediana da 9 mesi con il docetaxel a 11,7 mesi con pembrulizumab (HR = 70%).
La OS mediana è stata di 10,4 mesi e 12,7 mesi con pembrolizumab, alle dosi di 2 e 10 mg/kg, rispettivamente, e 8,5 mesi con docetaxel (differenze statisticamente significative tra entrambe le due dosi di pembrolizumab e docetaxel, HR = 0,71 e 0,61, rispettivamente). La PFS mediana è stata praticamente la stessa sia per i due diversi dosaggi di pembrolizumab (3,9 e 4,0 mesi) sia nei pazienti trattati con docetaxel (4,0 mesi). Anche con il pembrolizumab la curva di sopravvivenza tende ad appiattirsi dopo circa 16 mesi dall’inizio del trattamento. Nei pazienti in cui il PD-L1 era espresso da ≥ 50% delle cellule tumorali la OS mediana è stata significativamente più lunga con pembrolizumab che con docetaxel (14,9 e 17,3 mesi vs 8,2 mesi), così come la PFS mediana (5,0 e 5,2 mesi vs 4,1 mesi). Sulla base di questi risultati sembrerebbe che la dose di pembrolizumab da utilizzare sia di 2 mg/kg ev ogni 21 giorni.
L’incidenza degli eventi avversi di grado ≥ 3 è stata significativamente inferiore con il pembrolizumab (13% e 16% vs 35% con il docetaxel). Quelli più frequenti con pembrolizumab 2 mg/kg/10 mg/kg erano diminuzione dell’appetito (14%/10% vs 16% con docetaxel), fatigue (14%/14% vs 25%), nausea (11%/9% vs 15%), rash (9%/13% vs 5%) diarrea (7%/6% vs 18%). L’ipotiroidismo insorgeva nell’8%/8% vs < 1% dei pazienti e la polmonite nel 5%/4% vs 2% con docetaxel.
Il principale problema dei farmaci immunitari nel NSCLC è il costo esagerato rispetto al beneficio di sopravvivenza mediana di 3-4 mesi in più rispetto al trattamento con docetaxel. L’identificazione di markers di risposta al trattamento potrebbe ridurre il rapporto costo incrementale tra i due farmaci.
Numerosi agenti sono stati finora studiati nell’ambito del trattamento del carcinoma del polmone non a piccole cellule con l’obiettivo di contrastare il processo di neoangiogenesi coinvolto nella crescita tumorale e nella metastatizzazione.
a) Ramucirumab
È stato approvato dalla FDA nel dicembre 2014, in combinazione con docetaxel, per il trattamento di seconda linea di pazienti affetti da NSCLC, in progressione di malattia dopo doppietta a base di platino o portatori di mutazione di EGFR o traslocazione ALK che siano andati in progressione dopo terapie target.
Si tratta di un anticorpo monoclonale umanizzato della classe IgG1 diretto contro il dominio extracellulare del Vascular Endothelial Growth Factor Receptor (VEGFR-2) coinvolto nel processo di neoangiogenesi mediante l’induzione di proliferazione e migrazione delle cellule endoteliali.
Nello studio registrativo (REVEL), di fase III randomizzato doppio cieco, 1.253 pazienti affetti da NSCLC (26% con istotipo squamoso) metastatico (stadio IV) sono stati randomizzati a ricevere docetaxel (75 mg/m2 ogni 3 settimane) + ramucirumab (10 mg/kg ogni tre settimane) o docetaxel con la stessa schedula di trattamento combinato a placebo ogni tre settimane16. Nello studio non sono stati inclusi pazienti con ECOG performance status ≥ 2, ipertensione non controllata, interventi di chirurgia maggiore nei precedenti 28 giorni, evidenza radiologica di invasione dei vasi sanguigni o delle vie aeree, neoplasia cavitata, episodio di emottisi nei mesi precedenti, contemporaneo trattamento antiaggregante piastrinico (diverso da aspirina) o anticoagulante e pazienti precedentemente sottoposti a sole terapie con inibitori tirosino-chinasici di EGFR e ALK.
Tutti i pazienti erano stati precedentemente sottoposti a terapia con regimi a base di platino ed in circa il 14% dei casi, quest’ultimo aveva incluso bevacizumab.
Lo studio era stato pianificato con una dimensione campionaria di 1.242 pazienti per dimostrare un aumento significativo della OS (endpoint principale dello studio) mediana da 5,7 mesi a 9,2 mesi con l’aggiunta del ramucirumab al docetaxel. La OS mediana è risultata significativamente maggiore nel gruppo sottoposto a ramucirumab (10,5 vs 9,1 mesi, HR = 0,86), così come la PFS mediana (4,5 mesi vs 3,0 mesi, HR = 0,76) e l’ORR (23% vs 14%).
Il 33% dei pazienti trattati con ramucirumab più docetaxel e il 23% di quelli del gruppo di controllo hanno presentato un evento avverso che ha portato ad almeno una riduzione di dose: neutropenia (12% vs 9%), fatigue (9% vs 6%), neutropenia febbrile (7% vs 5%). Eventi avversi di grado ≥ 3 sono stati neutropenia 49% nel gruppo sottoposto a ramucirumab versus 39% in quello di controllo, neutropenia febbrile (16% vs 10%), fatigue (14% vs 10%), leucopenia (14% vs 12%), ipertensione (6% vs 2%). Il trattamento con ramucirumab è stato poi associato ad un maggior numero di eventi emorragici di ogni grado (29% vs 15%). L’analisi della qualità di vita non ha messo in evidenza un differente significativo deterioramento tra i due gruppi di pazienti ma purtroppo la valutazione dopo un mese dall’inizio del trattamento è stata eseguita in meno del 50% dei pazienti.
b) Nintedanib
Il farmaco è stato approvato dall’EMA nel novembre 2014, in combinazione con docetaxel, per il trattamento di seconda linea di pazienti affetti da adenocarcinoma polmonare in fase avanzata, metastatica o localmente recidivante.
Nintedanib è un triplo inibitore di angiochinasi responsabile del blocco farmacologico della neoangiogenesi attraverso inibizione di proliferazione e sopravvivenza delle cellule endoteliali e perivascolari (periciti e cellule della muscolatura liscia vascolare). Mediante legame competitivo al sito dell’adenosina trifosfato, il farmaco interferisce negativamente con la cascata di segnale intracellulare a partire dai recettori dei fattori di crescita endoteliale vascolare (VEGFR 1-3), del fattore di crescita derivato dalle piastrine (PDGFR alfa e beta) e del fattore di crescita dei fibroblasti (FGFR 1-3).
L'approvazione di nintedanib si basa sui risultati di due studi randomizzati di fase III, lo studio LUME Lung 117 (pivotal) e lo studio LUME Lung 2 (supportive)18. Il primo, uno studio randomizzato doppio cieco di fase III, ha messo a confronto l'efficacia e la tossicità di nintedanib in associazione a docetaxel rispetto a docetaxel + placebo. Nello studio sono stati inclusi 1.314 pazienti affetti da vari istotipi di NSCLC in stadio IIIb/IV (il 50,1% con istologia adenocarcinoma). Endpoint primario era la PFS la cui mediana è risultata statisticamente più alta con ramucirumab (3,4 mesi vs 2,7 mesi, HR = 0,79), ma la rilevanza clinica di tale risultato è davvero esigua. La sopravvivenza globale mediana non era significativamente differente fra i due trattamenti (10,1 mesi con nintedanib vs 9,1 con solo docetaxel, HR = 0,94). Da un’analisi per sottogruppi, è emerso che il nintedanib + docetaxel rispetto al docetaxel da solo ha incrementato significativamente la OS mediana in pazienti affetti da adenocarcinoma (12,6 vs 10,3 mesi, HR = 0,83) e fra gli adenocarcinomi che erano andati in progressione entro 9 mesi dall’inizio del trattamento di prima linea (206 pazienti vs 199 rispettivamente) la OS mediana era significativamente superiore (10,9 mesi vs 7,9 mesi, HR = 0,75) così come la PFS mediana (3,6 mesi vs 1,5 mesi, HR = 0,63).
Per quanto concerne la tossicità, gli eventi di grado ≥ 3 sono stati più frequenti con nintedanib associato a docetaxel: diarrea (6,6% vs 2,6%), incremento dei valori di alanina aminotrasferasi (7,8% vs 0,9%) e di aspartato aminotransferasi (3,4% vs 0,5%). Tutti i gradi di nausea (24,2% vs 18,0%) e vomito (16,9% vs 9,3%), inappetenza (22,2% vs 15,6%) erano più frequenti con nintedanib. Non sono emerse differenze significative riguardo agli eventi indesiderati comunemente associati a terapie antiangiogenetiche (ipertensione, emorragie, perforazione intestinale). È stata eseguita una valutazione della qualità di vita nei pazienti arruolati in questo studio ma i risultati non sono stati ancora pubblicati.
Lo studio LUME Lung 218 è uno studio randomizzato doppio cieco di fase III nel quale nintedanib in associazione a pemetrexed è stato confrontato con pemetrexed + placebo in pazienti affetti da NSCLC ad istologia non squamosa (prevalentemente adenocarcinomi). Lo studio è stato chiuso prematuramente per futilità in seguito ad un'analisi ad interim sulla PFS (endpoint primario) valutata dagli investigatori dopo aver randomizzato 713 pazienti in stadio IIIb/IV. Infatti, la PFS mediana è stata trovata significativamente superiore con l’aggiunta del nintedanib al pemetrexed (4,4 mesi vs 3,6 mesi, HR = 0,83) ma è risultata clinicamente irrilevante. La OS mediana era simile nei due bracci (12,7 vs 12,0 mesi). Il nintedanib è un farmaco che dà un beneficio marginale quando aggiunto in seconda linea al docetaxel. Il risultato ottenuto negli adenocarcinomi in un’analisi per sottogruppi non sembra confermato dallo studio LUME Lung 2, pubblicato al momento solo come abstract.
DISCUSSIONE E CONCLUSIONI
L’armamentario terapeutico per il trattamento dei pazienti affetti da NSCLC si è arricchito enormemente alla luce delle nuove scoperte nei campi della biologia molecolare e della genetica. Questo, però, almeno per il momento, non è un buon segno perché attesta che si è ancora molto lontani dal raggiungere un prolungamento soddisfacente della durata di vita.
In base alla loro azione, le nuove molecole approvate possono classificarsi in:
• Inibitori tirosino-chinasici
• Anticorpi anti-EGFR
• Immunoterapia
• Anti-angiogenetici
Come si sarà notato, a fronte delle più che ragionevoli proprietà biologiche dei singoli farmaci, determinate in laboratorio e riassunte nel presente lavoro alla presentazione dei singoli farmaci, quando si passa all’osservazione dei loro effetti sul paziente, si è di fronte ad una realtà clinica a dir poco sconfortante: un modesto miglioramento degli endpoint prescelti – che non sempre concernono la sopravvivenza globale – a fronte di una maggiore tossicità e di costi altissimi.
Inoltre, non sempre appare accettabile la decisione delle autorità regolatorie di approvazione dei singoli farmaci presa sulla base dei risultati di studi non controllati; eppure quante esperienze negative si sono avute nel passaggio dalla fase II alla fase III, e non solo in campo oncologico! È vero che si tratta spesso di “approvazioni accelerate”, ma nell’attesa di conoscere i risultati di studi controllati, il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) è costretto a spendere una grande quantità di denaro per farmaci della cui efficacia non c’è ragionevole certezza. Ad esempio, nel caso degli Inibitori tirosino-chinasici i 3 farmaci recentemente introdotti sono stati approvati soprattutto sulla base di interessanti percentuali di risposte obiettive in determinati sottogruppi di pazienti, quando è nota la debolezza del legame tra risposta e sopravvivenza globale.
Più matura appare la ricerca clinica sugli Anticorpi anti-EGFR; infatti sono stati pubblicati i risultati di due studi di fase 3 sull’efficacia/tossicità del necitumumab i cui risultati, però, sono del tutto deludenti: uno studio è stato chiuso anticipatamente per inconsistenza dei risultati e per tossicità, l’altro ha mostrato un incremento della OS mediana di soli 1,6 mesi, nettamente inferiore a quella che si riteneva clinicamente rilevante: 2,75 mesi. Un’analisi farmaco-economica recentemente pubblicata ha dimostrato che il necitumumab per essere costo-efficace dovrebbe costare meno di 563 dollari e meno di 1309 dollari a ciclo per ottenere un costo-incrementale per QALY < $100.000 e < $200.000, rispettamente [Goldstein DA, Chen Q, Ayer T, et al. Necitumumab in metastatic squamous cell lung cancer. Establishing a value-based cost. Jama Oncol 2015; 1: 1293-1300]. Si auspica che le agenzie regolatorie tengano conto di tali aspetti nel decidere sulla rimborsabilità del farmaco.
L’introduzione dell’Immunoterapia sembra descrivere uno scenario un po’ migliore, perché i due inibitori del PD-1, nivolumab e pembrolizumab, hanno dimostrato di essere più efficaci e meno tossici del docetaxel in seconda linea di terapia del carcinoma polmonare non a piccole cellule. Resta da verificare quale sarà la percentuale di sopravviventi a lungo termine con ambedue i trattamenti che saranno utilizzabili sia nel carcinoma squamoso che nell’adenocarcinoma con una differente dose (3 mg vs 2 mg) e schedula (ogni 2 vs ogni 3 settimane, rispettivamente); non ci illudiamo però che sia l’industria a condurre gli studi sui long-survivors perché non lo ha mai fatto: dovrebbero essere i ricercatori che hanno partecipato agli studi a prendere tale iniziativa, magari utilizzando parte delle risorse ottenute con la ricerca sponsorizzata. Per quanto concerne i costi, un’analisi farmaco-economica del nivolumab in seconda linea di terapia nel carcinoma squamoso del polmone metastatico ha mostrato un valore del rapporto costo-efficacia incrementale di circa $150.000 dollari per QALY: per ogni anno di vita in buona salute, guadagnato in più con il nivolumab rispetto alla terapia standard, occorre spendere 150.000 dollari. Pertanto, il nivolumab non può essere considerato costo efficace. Comunque, il differente costo dei due trattamenti, entrambi esagerati rispetto ai benefici apportati, verosimilmente determinerà il farmaco da utilizzare nella pratica clinica considerando ovviamente che il pembrolizumab sarà disponibile solo per i pazienti con tumore PD-L1 positivo in oltre il 50% delle cellule tumorali.
Per quanto concerne i nuovi farmaci Anti-angiogenetici, i risultati appaiono del tutto deludenti: lo studio sul ramucirumab ha documentato un prolungamento marginale della sopravvivenza globale (+ 1.4 mesi rispetto al controllo; invece, lo studio era stato pianificato sotto un’ipotesi di una sopravvivenza mediana maggiore di 3,5 mesi, ritenuta quindi differenza minima clinicamente rilevante) con aumento della tossicità. Non sono al momento noti biomarkers che consentano di predire un particolare beneficio clinico derivante dall’utilizzo di farmaci ad azione antiangiogenetica che permetterebbero di selezionare la popolazione da trattare al fine di massimizzarne il beneficio. Il nintedanib ha ottenuto risultati ancor più deludenti in termini di sopravvivenza globale e il ricorso, davvero eccessivo, alle analisi per sottogruppi attesta uno spasmodico tentativo di trovare un rationale al suo impiego nella pratica clinica. Ambedue i farmaci appaiono esageratamente costosi rispetto ai benefici apportati.
In conclusione tutti i farmaci esaminati hanno un solido rationale biologico, ma, poi, quando si passa dal laboratorio alla pratica clinica, ottengono risultati complessivamente deludenti. Infine, sotto un profilo metodologico, desta stupore che le autorità regolatorie, nel concedere la registrazione del farmaco – seppure con procedura accelerata – tengano conto della risposta obiettiva quando è nota la sua scarsa predittività nel determinare un prolungamento della sopravvivenza. Inoltre non è chiaro perché talvolta sia considerata la sopravvivenza libera da progressione, quando, data la prognosi povera di questi pazienti, sarebbe da valutare solo l’effetto sulla sopravvivenza globale. Com’è noto, gli studi clinici operano in un contesto astratto rispetto alla pratica clinica quotidiana, per cui il lieve beneficio clinico aggiuntivo ottenuto da nuovo farmaco non è detto che poi si riproduca nella pratica clinica. A proposito, che fine ha fatto l’Outcome Research?
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Come abbiamo già esposto in questa rivista nel 2014, i BRAF inibitori (il vemurafenib ed il dabrafenib) insieme con i MEK inibitori (inizialmente il trametinib e poi il cobimetinib), e l’immunoterapia (dapprima l’ipilimumab e poi il nivolumab ed il pembrolizumab) hanno determinato una rivoluzione nel trattamento del melanoma metastatico.
Negli ultimi due anni l’attenzione è stata rivolta alle combinazioni di un BRAF inibitore più un MEK inibitore ed agli inibitori del PD-1, usati da soli o in associazione con ipilimumab.
MEK INIBITORI IN ASSOCIAZIONE CON BRAF INIBITORI
a) Vemurafenib + Cobimetinib
La famiglia di chinasi RAF consta di tre proteine (ARAF, BRAF e CRAF) che fanno tutte parte della cascata di trasduzione del segnale nominata “Mitogen-Activated Protein Kinase” (MAPK) pathway. Nei melanociti, BRAF induce l’attivazione di MEK che, a sua volta, attiva ERK, che costituisce l’effettore finale della cascata MAPK.
Nel melanoma, il gene BRAF risulta mutato nel 40-60% dei casi. La mutazione prevalente (circa il 90% dei casi) è rappresentata dalla sostituzione di una valina con acido glutammico al codone 600 (V600E), nel restante 10% dei casi la mutazione è V600K; altre mutazioni sono molto rare.
Vemurafenib è un inibitore reversibile BRAF che blocca l’attivazione di MEK solo nelle cellule che presentano la mutazione di BRAF. Nelle cellule BRAF wild type, vemurafenib paradossalmente incrementa la attivazione di MEK tramite la stimolazione dell’attività chinasica di BRAF.
Cobimetinib è un inibitore reversibile, selettivo, che blocca la via della MAPK attraverso l’inibizione del meccanismo di trasduzione del segnale MEK1/2. Cobimetinib, a differenza di trametinib, non ha mostrato efficacia in monoterapia.
Il tentativo di combinare inibitori di MEK e BRAF deriva dallo sforzo di eludere la resistenza che si sviluppa in corso di terapia con gli inibitori di BRAF (dopo un tempo mediano di circa 6-8 mesi). I meccanismi chiamati in causa per la resistenza ai BRAF inibitori sono diversi, fra questi la riattivazione della pathway di MAPK, lo sviluppo di mutazioni de novo di NRAS o di MEK, la dimerizzazione o lo splicing di BRAF V600 mutato.
A novembre 2015 l’associazione di cobimetinib e vemurafenib è stata approvata dall’FDA e dall’EMA nel trattamento del melanoma inoperabile/metastatico con mutazione di BRAF (V600E o V600K) sulla base di uno studio (CoBRIM), di fase III condotto in pazienti con melanoma stadio IIIC o stadio IV con mutazione di BRAF V600E o V600K1. Erano eleggibili solo pazienti con ECOG performance status 0 e 1. In totale sono stati arruolati 495 pazienti di cui 247 sono stati randomizzati a ricevere la terapia combinata vemurafenib (960 mg os due volte/die) + cobimetinib (60 mg os die per 21 giorni ogni 28 giorni), mentre 248 pazienti sono stati trattati con solo vemurafenib (960 mg os due volte/die). Endpoint principale dello studio era la PFS. La dimensione del campione è stata calcolata ipotizzando un aumento della PFS mediana da 6 mesi a 11 mesi. Il trattamento di combinazione (vemurafenib + cobimetinib) ha determinato un aumento statisticamente significativo della PFS mediana rispetto a quella riscontrata nei pazienti sottoposti al solo vemurafenib (9,9 mesi vs 6,2 mesi, HR = 0,51).
Un successivo update di questo studio dopo un follow up mediano di 14,2 mesi ha evidenziato un ulteriore aumento della PFS mediana (12,3 mesi versus 7,2 mesi, HR = 0,58). La percentuale di pazienti sopravviventi a 9 mesi è stata dell’81% per la terapia di combinazione rispetto al 73% del braccio di controllo (HR = 0,63).
Anche l’ORR è risultato significativamente maggiore con la terapia di combinazione rispetto alla monoterapia (68% vs 45%); la durata mediana della risposta è stata di 7,3 mesi nel braccio di controllo mentre non era ancora stata raggiunta con la combinazione. Ad un successivo update, la durata della risposta è risultata di 13 mesi con la combinazione versus 9,2 mesi con la monoterapia.
Il trattamento combinato è stato ben tollerato anche se, in questo gruppo, gli eventi avversi, soprattutto di grado 1 e 2, sono risultati più frequenti (65% vs 59%), mentre l’incidenza degli eventi avversi di grado 3 sono stati sostanzialmente sovrapponibili nei due gruppi di pazienti.
I più comuni eventi avversi di grado 1e 2 sono stati disturbi visivi temporanei dovuti alla inibizione di MEK (20% vs 1%), eventi avversi gastrointestinali – fra i quali diarrea (56% vs 28%), nausea (40% vs 24%), vomito (21% vs 13%) – fotosensibilità (28% vs 15%), incremento delle transaminasi (46% vs 31%). Altri eventi avversi si sono verificati con un’incidenza minore nei pazienti sottoposti a terapia di combinazione, fra questi i cheratoacantomi (< 1% vs 8%), i carcinomi squamocellulari cutanei (3% vs 11%), l’alopecia e le artralgie.
Gli eventi avversi di grado 4 (per lo più rappresentati da anormalità degli esami ematobiochimici, quali ad esempio incremento delle transaminasi e della CPK), sono risultati lievemente più frequenti nel gruppo di pazienti sottoposti a terapia di combinazione (13% vs 9%).
La tossicità cardiaca, in particolare l’allungamento dell’intervallo QT e la diminuzione della frazione di eiezione, è risultata simile nei due gruppi di pazienti. Lo studio non ha valutato l’impatto dei trattamenti sulla qualità di vita.
b) Dabrafenib + Trametinib
Dabrafenib è un inibitore del BRAF mentre trametinib è un inibitore altamente selettivo di MEK1 e di MEK2; entrambi i trattamenti sono somministrati per via orale.
L’associazione trametinib-dabrafenib ha ricevuto un’approvazione accelerata dall’FDA nel gennaio 2014 in prima linea nei pazienti con melanoma avanzato/metastatico BRAF mutato sulla base di uno studio di fase I/II2 suddiviso in più parti, una delle quali eseguita in 162 pazienti in cui si confrontavano dabrafenib (150 mg os due volte/die) + trametinib (1 mg os die) o dabrafenib + trametinib (2 mg os die) con il dabrafenib da solo alle stesse dosi. Sono stati arruolati pazienti con melanoma stadio IIIC-IV con mutazione di BRAF ed ECOG performance status 0-1. I pazienti potevano aver ricevuto una precedente linea di terapia che però non comprendesse BRAF o MEK inibitori. In questo studio la percentuale di ORR è stata del 76% con la combinazione con trametinib 2 mg, del 50% con dabrafenib + trametinib 1 mg e del 54% con la monoterapia. La DOR è stata rispettivamente 10,5 mesi, 9,5 mesi e 5,6 mesi. La PFS mediana è risultata significativamente più alta nei pazienti trattati con la terapia di combinazione con trametinib 2 mg (9,4 mesi) e con trametinib 1 mg (9,2 mesi) rispetto a chi era stato trattato con il solo dabrafenib (5,8 mesi). Le percentuali dei pazienti non ancora in progressione a 12 mesi sono state, rispettivamente, del 41%, 26% e 9%.
Le combinazioni sono risultate sostanzialmente ben tollerate ed anche l’incidenza di secondi tumori cutanei è diminuita con la combinazione (7%, 1%, 19%, rispettivamente). Recentemente è stato pubblicato3 un update dello studio2 che ha mostrato i risultati ottenuti in 78 pazienti BRAF-naïve (54 di quelli randomizzati ai tre bracci di trattamento e 24 non randomizzati) sottoposti alla combinazione utilizzata negli studi di fase III di trametinib (2 mg os die) + dabrafenib (150 mg os x 2/die). La OS mediana è stata, nei pazienti randomizzati/non randomizzati, di 25,0/27,4 mesi e le percentuali di pazienti non ancora in progressione a 1, 2, 3 anni sono state, rispettivamente, 41%, 25% e 21% / 44%, 22% e 18%.
L’approvazione della combinazione è stata successivamente confermata dalla FDA e dall’EMA nel novembre 2015 sulla base dei risultati di due studi clinici di fase III (COMBI-v e COMBI-d4,5) che hanno confrontato rispettivamente la terapia di combinazione con il solo vemurafenib o con il solo dabrafenib. Entrambi gli studi hanno mostrato un vantaggio statisticamente significativo della terapia di combinazione rispetto alla monoterapia.
Il COMBI-v condotto su 704 pazienti con melanoma inoperabile/metastatico BRAF mutato in prima linea ha confrontato la terapia con dabrafenib (150 mg os x 2 /die) + trametinib (2 mg os die) con il solo vemurafenib (960 mg os x 2/die)4. La OS (endpoint primario dello studio) mediana è risultata significativamente maggiore nei pazienti sottoposti a trattamento di combinazione (17,2 mesi nei pazienti sottoposti a vemurafenib, mentre non è ancora disponibile il dato per i pazienti che hanno ricevuto la terapia con dabrafenib + trametinib). La percentuale di sopravviventi ad un anno era del 72% in chi aveva ricevuto la terapia di combinazione e del 65% nel braccio di controllo. Anche la PFS mediana è risultata significativamente più alta nel braccio di combinazione rispetto alla monoterapia (11,4 vs 7,3 mesi, HR = 0,56). L’ORR (64% vs 51%) e la DOR media (13,8 vs 7,5 mesi) sono risultati significativamente superiori con la terapia di combinazione.
L’incidenza degli eventi avversi di grado 3 e 4 è risultata simile nei due gruppi di trattamento (52% con la terapia di combinazione e 63% con vemurafenib). Il profilo di tossicità è risultato diverso (terapia di combinazione vs vemurafenib): febbre (53% vs 21%) e rash (22% vs 43%). Da notare una diminuzione della frazione di eiezione cardiaca che si è avuta nell’8% dei pazienti che ricevevano trametinib + dabrafenib e in nessuno dei pazienti che ricevevano il solo vemurafenib. I tumori squamocellulari inclusi i cheratoacantomi si sono ridotti significativamente con la combinazione (1% vs 18%).
Un’analisi della qualità di vita dei pazienti che hanno partecipato a questo studio ha mostrato come questa fosse migliorata nei pazienti sottoposti a terapia di combinazione6. L’altro studio di fase III è il COMBI-d5 che ha confrontato, in 443 pazienti con le stesse caratteristiche dello studio precedente, la terapia con dabrafenib (150 mg os 2 volte die ) associata a trametinib (2 mg os die) con il solo dabrafenib alla stessa dose.
L’endpoint primario dello studio era la PFS la cui mediana è risultata significativamente superiore con la combinazione (11,0 mesi vs 8,8 mesi, HR = 0,67). La OS mediana è altresì risultata significativamente più elevata con la combinazione (25,1 mesi vs 18,7 mesi, HR = 0,71). La percentuale di sopravviventi ad 1 anno è stata del 74% vs 68% e a 2 anni del 51% vs 42%.
Il profilo di tossicità anche in questo caso è risultato diverso fra i due bracci i trattamento, per lo più febbre, fatigue e rash con la terapia di combinazione mentre con il solo dabrafenib si è avuta ipercheratosi, fatigue, sindrome mano-piedi e alopecia. L’incidenza di eventi avversi di grado 3 e 4 è risultata simile fra i due gruppi di pazienti (32% vs 30%). Anche in questo studio la qualità di vita, così come il controllo del dolore, sono risultati mediamente migliori nel braccio di combinazione7.
Il melanoma è considerato un tumore potenzialmente sensibile a vari tipi di trattamento immunoterapico e fra questi gli inibitori dei posti di blocco quali l’ipilimumab, di cui abbiamo discusso nel precedente lavoro, che è stato il primo ad essere approvato dalla FDA nel 2011, e gli inibitori del PD-1, nivolumab e pembrolizumab, che sono stati oggetto di numerosi studi che ne hanno determinato l’approvazione degli enti regolatori in varie fasi di trattamento del melanoma metastatico da soli o in combinazione con ipilimumab.
a) Ipilimumab nel trattamento adiuvante
Attualmente non sono presenti opzioni terapeutiche valide per il trattamento adiuvante del melanoma operato; pertanto è di fondamentale importanza valutare l’efficacia dell’immunoterapia nel trattamento adiuvante in considerazione degli ottimi risultati ottenuti nella malattia avanzata. L’unico trattamento approvato dagli enti regolatori finora con questa indicazione è l’interferon ad alte dosi che ha dimostrato di aumentare la PFS, ma non la OS, mediana.
Un’analisi condotta su 3.307 pazienti dall’American Joint Committee on Cancer (AJCC), ha mostrato che la sopravvivenza a 5 anni nel melanoma è del 78% nei pazienti stadio IIIA, del 59% nei pazienti stadio IIIB e del 40% per lo stadio IIIC. Il tasso di recidiva a 5 anni è stato del 37% nei pazienti con malattia in stadio IIIA, del 68% in quelli con stadio IIIB e dell’89% nei pazienti con malattia stadio IIIC8.
Al congresso dell'ASCO 2014 è stata presentata una metanalisi di 15 studi randomizzati che hanno riguardato in totale più di 7.500 pazienti, dalla quale è emerso che la terapia adiuvante con interferon, se confrontata con la sola osservazione, riduce il rischio di recidiva del 14% e il rischio di morte del 9%9. L’HR per recidiva o morte con l’utilizzo di alte o basse dosi di interferon è pari a 0,83-0,85.
Ipilimumab nell’ottobre 2015 è stato approvato dall’FDA per il trattamento adiuvante del melanoma, in particolare per il trattamento dei melanomi con coinvolgimento dei linfonodi regionali di almeno 1 mm sottoposti a chirurgia radicale comprendente la linfoadenectomia totale (stadio IIIA, IIIB, IIIC senza metastasi in transit).
L’approvazione si è avuta sulla base dello studio di fase III dell’EORTC 18.07110, condotto su 951 pazienti con melanoma cutaneo sottoposti a trattamento chirurgico radicale entro le 12 settimane dall’inizio della terapia. I pazienti sono stati randomizzati a ricevere terapia con ipilimumab (10 mg/kg ev ogni 3 settimane per 4 somministrazioni seguita da terapia di “mantenimento” della stimolazione immunitaria in cui ipilimumab era somministrato ogni 3 mesi fino a 3 anni) vs placebo.
Secondo gli autori dello studio, la scelta della posologia del trattamento con ipilimumab deriva dai risultati di uno studio di fase II11 in cui sono state valutate 3 posologie di ipilimumab (10 mg/kg, 3 mg/kg, 0,3 mg/kg) in pazienti con melanoma stadio III (non resecabile) o IV non precedentemente trattati o già sottoposti a terapia senza farmaci ad azione immunitaria. Da questo studio è emerso un effetto dose-dipendente del trattamento con ipilimumab nei pazienti con melanoma in stadio avanzato. Endpoint primario era la risposta ottenuta con ipilimumab. Lo studio ha evidenziato un’attività dose-dipendente: le percentuali di risposte sono state 11,1% con 10 mg/kg, 4,2% con 3 mg/kg e 0% con 0,3 mg/kg.
Tornando alla terapia adiuvante con ipilimumab, la RFS (valutata su 528 pazienti, 234 randomizzati a ricevere ipilimumab e 294 placebo), era l’endpoint primario dello studio; la sua mediana è risultata significativamente superiore nei pazienti che ricevevano immunoterapia (26,1 vs 17,1 mesi, HR = 0,75). A 3 anni il 46,5% dei pazienti sottoposti a ipilimumab e il 34,8% di quelli trattati con placebo non presentavano ancora una recidiva. Non è ancora noto l’impatto del trattamento sulla OS.
Un’analisi per sottogruppi post hoc ha evidenziato che l’effetto positivo di ipilimumab era maggiore nei pazienti che presentavano malattia con ulcerazione e coinvolgimento linfonodale microscopico rispetto alla malattia non ulcerata con coinvolgimento linfonodale macroscopico. Questo risultato è in accordo con quanto già noto con la terapia con interferon nel setting adiuvante.
La tossicità è stata importante in quanto il 52% dei pazienti trattati con ipilimumab ha interrotto il trattamento per eventi avversi. Una tossicità di grado 3 e 4 si è avuta nel 54% dei pazienti trattati con ipilimumab rispetto al 25% di quelli sottoposti a placebo. I principali eventi avversi di grado G3-G4 immunorelati nei pazienti sottoposti ad ipilimumab vs placebo sono stati di tipo gastrointestinale (16% vs < 1%), epatico (11% vs < 1%) ed endocrino (8% vs 0%). Il tempo alla risoluzione degli eventi avversi immunorelati è risultato di circa 4-8 settimane fatta eccezione per le endocrinopatie il cui tempo di risoluzione è stato mediamente di circa 31 settimane. Nel gruppo di pazienti che hanno ricevuto ipilimumab si sono avute 5 morti (1%) quasi sicuramente relate al trattamento.
b) Nivolumab
Nivolumab è stato approvato nel novembre 2015 dall’FDA in prima linea nei pazienti con melanoma non operabile e/o metastatico BRAF V600 wild type e nel giugno 2015 dall’EMA per il trattamento del melanoma inoperabile/metastatico indipendentemente dallo stato di BRAF.
L’approvazione in prima linea si è avuta sulla base dello studio Checkmate 066, studio di fase III condotto su 418 pazienti con melanoma inoperabile/metastatico BRAF wild type che ha confrontato nivolumab (3 mg/kg ev ogni 2 settimane) rispetto alla chemioterapia con (dacarbazina 1000 mg/m2 ev ogni 3 settimane)12. Come endpoint primario è stata scelta la OS, la cui mediana, al momento della valutazione, non era stata ancora raggiunta nei pazienti sottoposti a nivolumab mentre era di 10,8 mesi nei pazienti trattati con dacarbazina. La sopravvivenza ad 1 anno era, rispettivamente, del 72,9% versus 42,1%, HR = 0,42. La PFS mediana è stata significativamente superiore nei pazienti che ricevevano nivolumab rispetto a quelli trattati con dacarbazina (5,1 vs 2,2 mesi, HR = 0,43), ed anche l’ORR (40% vs 13,9%). La risposta ottenuta con nivolumab era confermata in tutti i sottogruppi di malattia considerati, indipendentemente anche dallo stato di PD-L1 (cut off utilizzato 5%). In particolare, nei pazienti PD-L1 positivi la percentuale di risposte al nivolumab era del 52,7% mentre quella relativa alla dacarbazina del 10,8%; nei pazienti PD-L1 negativi la percentuale di risposte con il nivolumab era del 33,1% e del 15,7% con la dacarbazina.
Per quanto concerne la tossicità, nel gruppo di pazienti sottoposti a nivolumab si è avuta una minore incidenza degli eventi avversi di grado 3 e 4 (11,7% vs 17,6%). Con nivolumab gli eventi avversi più frequenti sono stati fatigue (19,9%), prurito (17%) e nausea (16,5%). Con la dacarbazina gli eventi avversi più frequenti sono stati quelli già noti, cioè gastrointestinali ed ematologici. La percentuale di pazienti che hanno interrotto il trattamento per tossicità era del 6,8% nel braccio “nivolumab” e dell’11,7% in quello “dacarbazina”. Non è stata eseguita la valutazione della qualità di vita.
Checkmate 066 è lo studio di fase III che presenta il più lungo follow up nei pazienti con melanoma trattati con anticorpo anti PD-1 e dimostra un importante beneficio in sopravvivenza globale nei pazienti con melanoma metastatico in prima linea. Purtroppo non è stato ancora possibile identificare dei biomarkers (quali ad esempio l’espressione di PD-L1) predittivi di risposta al trattamento con nivolumab.
Nivolumab è stato approvato dall’FDA nel dicembre 2014 in linee successive alla prima per il trattamento del melanoma inoperabile/metastatico in progressione dopo ipilimumab e, se BRAF mutato, dopo un inibitore di BRAF.
Dopo uno studio di fase I condotto su pazienti con melanoma metastatico che avevano già ricevuto precedenti linee di trattamento, in cui nivolumab ha mostrato di indurre risposte obiettive nel tumore e una percentuale di sopravviventi del 62% e del 43% a 1 e 2 anni rispettivamente, è stato eseguito uno studio di fase III13.
Nello studio Checkmate 037 sono stati arruolati 405 pazienti con melanoma stadio IIIC/IV che avevano già ricevuto un trattamento con ipilimumab (se BRAF wild type) o con un inibitore di BRAF + ipilimumab (se BRAF mutati), randomizzati 2:1 a ricevere nivolumab (3 mg/kg ev ogni 2 settimane) o chemioterapia (dacarbazina 1000 mg/m2 ev ogni 3 settimane o associazione carboplatino AUC6 + paclitaxel 175 mg/m2 ev ogni 3 settimane).
La risposta obiettiva era l’endpont co-primario (il lavoro pubblicato riporta solo questa parte dello studio) insieme alla OS. Il confronto tra le percentuali di risposte è stata condotta sui primi 120 pazienti arruolati nel braccio del nivolumab e sui primi 47 nel braccio della chemioterapia. Il nivolumab ha determinato un aumento di ORR dal 10,6% al 31,7%, che è risultato indipendente dallo stato di BRAF e dalla precedente risposta alla terapia con anti CTLA-4. In particolare nei pazienti BRAF mutati si è osservata una percentuale di risposte del 23% con nivolumab e del 9% con la chemioterapia, mentre nei pazienti BRAF wild type la stessa percentuale è stata, rispettivamente, del 34% vs 11%. Nel braccio “nivolumab”, nei pazienti PD-L1 positivi (cut-off 5%) l’ORR era del 44% mentre in quelli PD-L1 negativi era del 20%. Non è stato riscontrato un miglioramento significativo della PFS mediana (4,7 mesi nei pazienti che ricevevano nivolumab vs 4,2 mesi in quelli trattati con chemioterapia). La tossicità è stata maggiore nei pazienti che hanno ricevuto chemioterapia con un’incidenza di eventi avversi legati al trattamento di grado 3 e 4 pari al 31% per la chemioterapia e al 9% per il nivolumab. Anche la tossicità che ha portato all’interruzione del trattamento è stata inferiore con il nivolumab (3% vs 7%). La qualità di vita nei pazienti sottoposti a terapia nei due gruppi di trattamento è stata valutata ma non sono ancora noti i risultati. Ovviamente, si resta in attesa della pubblicazione dei risultati finali di questo studio che forniranno l’impatto del nivolumab in linee successive alla prima rispetto alla chemioterapia sia in termini di sopravvivenza globale che di qualità di vita.
c) Pembrolizumab
A maggio 2015 il pembrolizumab è stato approvato dall’EMA per il trattamento del melanoma metastatico in prima linea ed in linee successive.
In data 18 Dicembre 2015 l‘FDA ha approvato il trattamento con pembrolizumab in prima linea nel melanoma in stadio avanzato. Pembrolizumab era già stato approvato dall’FDA in maniera accelerata nel Settembre 2014 nel trattamento del melanoma in stadio avanzato in seconda linea dopo progressione alla immunoterapia con ipilimumab e nei BRAF mutati dopo terapia con BRAF inibitore. A quel tempo, ipilimumab allora era il trattamento standard in I linea nel melanoma avanzato. Il dosaggio approvato di pembrolizumab è 2 mg/kg ev ogni 3 settimane.
Gli studi che hanno portato all’approvazione del pembrolizumab nel melanoma avanzato sono il Keynote 00214 e il Keynote 00615.
Keynote 002 è uno studio di fase II che ha arruolato 540 pazienti con melanoma metastatico che in seconda linea (dopo ipilimumab, se BRAF wild type o inibitore di BRAF + ipilimumab, se BRAF mutato) ha confrontato 3 bracci di terapia: pembrolizumab 2 mg/kg ev ogni 3 settimane, pembrolizumab 10 mg/kg ev ogni 3 settimane, e un trattamento chemioterapico a scelta dell’investigatore (dacarbazina o temozolomide, o carboplatino + paclitaxel o paclitaxel da solo). L’endpoint primario dello studio era la PFS.
È emersa una differenza statisticamente significativa ma clinicamente irrilevante della PFS mediana nei pazienti che ricevevano pembrolizumab (2,9 mesi con pembrolizumab 2 mg/kg ev, e 2,9 mesi con pembrolizumab 10 mg/kg ev) rispetto ai pazienti trattati con chemioterapia (2,7 mesi, HR = 0,57 e 0,50, rispettivamente). La percentuale dei pazienti non ancora in progressione a sei mesi era del 34% con pembrolizumab 2 mg/kg, del 38% con pembrolizumab 10 mg/kg e del 16% con la chemioterapia; HR = 0,57 e 0,50 rispetto alla chemioterapia, rispettivamente). Al momento della pubblicazione dello studio il risultato in termini di OS mediana non era ancora disponibile. L’ORR è stato superiore con pembrolizumab (21% con 2mg/kg, 25% con 10 mg/kg) rispetto alla chemioterapia (4%). In questo studio di fase II è stata valutata la qualità di vita con il questionario QLQ-C30 dell’EORTC che ha evidenziato un minor deterioramento nei pazienti sottoposti a pembrolizumab rispetto a coloro che avevano ricevuto la chemioterapia. Vi era una ridotta tossicità con pembrolizumab rispetto alla chemioterapia con una percentuale di eventi avversi G3 e G4 del 20% e del 25% rispettivamente in chi aveva ricevuto pembrolizumab 2 mg/kg e 10 mg/kg e del 45% in quelli trattati con chemioterapia.
Come già visto per il nivolumab in seconda linea dopo ipilimumab, questo studio ha dimostrato un aumento di ORR e una minore tossicità di pembrolizumab rispetto alla chemioterapia nel trattamento del melanoma metastatico. Dopo la prima approvazione in seconda linea, lo studio che ha esteso l’indicazione al trattamento con pembrolizumab in prima linea nel melanoma metastatico è il Keynote 00615, studio di fase III che ha confrontato pembrolizumab con ipilimumab.
Sono stati arruolati 834 pazienti con melanoma metastatico, randomizzati a ricevere pembrolizumab 10 mg/kg ev ogni 2 settimane o ogni 3 settimane vs ipilimumab 3 mg/kg ev ogni 3 settimane per 4 dosi. Endpoint co-primari erano la PFS e la OS. La sopravvivenza globale ad 1 anno è risultata aumentata in maniera statisticamente significativa in chi riceveva pembrolizumab (74,1% dei pazienti con somministrazioni ogni 2 settimane, HR = 0,63; 68,4% dei pazienti con somministrazioni ogni 3 settimane, HR = 0,69) rispetto a chi era sottoposto ad ipilimumab (58,2% dei pazienti). Pertanto lo studio è stato chiuso precocemente ed è stato consentito il crossover, ossia i pazienti che erano trattati con ipilimumab, al momento della chiusura dello studio potevano passare a pembrolizumab. Al momento della pubblicazione dello studio, la OS mediana non era ancora stata raggiunta in nessuno dei bracci.
Anche la PFS mediana è stata significativamente inferiore con ipilimumab (2,8 mesi) rispetto a pembrolizumab: 5,5 mesi con pembrolizumab bisettimanale (HR = 0,58) e 4,1 mesi con pembrolizumab trisettimanale (HR = 0,58). A 6 mesi non erano ancora andati in progressione il 47,3% dei pazienti che avevano ricevuto pembrolizumab ogni 2 settimane, il 46,4% in quelli che lo avevano ricevuto ogni 3 settimane e il 26,5% di quelli trattati con ipilimumab.
L’ORR è stato del 33,7% nei pazienti che ricevevano pembrolizumab bisettimanale, del 32,9% con pembrolizumab trisettimanale e dell’11,9% con ipilimumab.
Eventi avversi di grado ≥ 3 sono risultati meno frequenti in chi aveva ricevuto pembrolizumab (13,3%, 10,1% vs 19,9%, rispettivamente nei 3 gruppi di trattamento). Il tasso di interruzione dello studio per eventi avversi è risultato inferiore nei pazienti trattati con pembrolizumab (4,0%, 6,9% vs 9,4%, rispettivamente). Gli eventi avversi di ogni grado nei pazienti trattati con pembrolizumab sono stati più frequenti con la schedula bisettimanale rispetto a quella trisettimanale, ed erano fatigue (20,9% vs 19,1%), diarrea (16,9% vs 14,4%), rash cutaneo (14,7% vs 13,4%) e prurito (14,4% vs 14,1%); comunque, tali eventi sono risultati di grado 1 o 2 eccetto la diarrea che è risultata di grado 3 o 4 nel 2,5% e nell’1,1% dei casi rispettivamente. Per quanto concerne la tossicità da ipilimumab, gli eventi avversi più frequenti sono stati prurito (25,4% vs 14,4%/14,1%, rispettivamente con ipilimumab e pembrolizumab bi/trisettimanale), diarrea (22,7% vs 16.9 %/14.4%), fatigue (15,2% vs 20.9%/19.1%) e rash (14,5% vs 14.7%/13.4%). Tali eventi erano di grado ≥ 3 in meno dell’1% dei pazienti tranne per la diarrea (3,1%) e la fatigue (1,2%). A conferma di quanto già visto con nivolumab, da questo studio emerge una maggiore attività del pembrolizumab rispetto ad ipilimumab in prima linea nei melanomi inoperabili o metastatici, con ogni schedula di trattamento utilizzata a fronte di una tossicità ridotta.
d) Nivolumab + Ipilimumab
Il 30 settembre 2015, l’FDA ha approvato in via accelerata il trattamento di combinazione nivolumab ed ipilimumab nei pazienti con melanoma metastatico BRAF wild type. Gli anti CTL-A4 e gli anti PD-1 agiscono stimolando la risposta immunitaria antitumorale in maniera complementare. Studi preclinici hanno dimostrato come la combinazione di questi due posti di blocco del sistema immunitario abbia un’azione sinergica sulla stimolazione della risposta immunitaria. Tali considerazioni hanno portato a disegnare gli studi clinici che ora esamineremo.
L’approvazione accelerata si è avuta sulla base dello studio di fase II Checkmate 06916, che ha riguardato 142 pazienti con melanoma inoperabile/metastatico che sono stati randomizzati 2:1 (95 vs 47 pazienti) a ricevere la terapia di combinazione con nivolumab (1 mg/kg ev ogni 3 settimane per 4 somministrazioni e poi 3 mg/kg ev ogni 2 settimane in “mantenimento”) + ipilimumab (3 mg/kg ev ogni 3 settimane per un totale di 4 somministrazioni) o solo ipilimumab alle stesse dosi e tempi di somministrazione. Nello studio era prevista la possibilità di un crossover alla combinazione per i pazienti che avevano ricevuto il solo ipilimumab.
Endpoint primario dello studio era la risposta obiettiva nei pazienti BRAF wild type. I risultati hanno mostrato che l’ORR è stato significativamente superiore nei pazienti trattati con la terapia di combinazione rispetto a quelli trattati con ipilimumab (61% vs 11%). Una risposta completa si è avuta nel 22% dei pazienti trattati con la combinazione ed in nessun paziente che aveva ricevuto il solo ipilimumab.
Nei pazienti che presentavano una mutazione di BRAF i risultati sono apparsi sostanzialmente simili a quelli osservati nei pazienti BRAF wild type; in particolare, in questi ultimi, l’ORR è stato del 61%, con una percentuale di risposte complete del 22%, nei pazienti che avevano ricevuto la terapia di combinazione rispetto all’11% di risposte, con nessuna risposta completa, in quelli trattati con il solo ipilimumab. Nei pazienti BRAF mutati, l’ORR è stato del 52%, di cui il 22% risposte complete nei pazienti sottoposti a terapia di combinazione, e del 10%, senza alcuna risposta completa, in quelli trattati con ipilimumab.
Nei pazienti BRAF wild type, la PFS mediana non era stata ancora raggiunta con la terapia di combinazione, mentre è risultata di 4,4 mesi nei pazienti trattati con ipilimumab (HR = 0,40). Nei pazienti BRAF mutati, la PFS mediana è stata di 8,5 mesi con la combinazione mentre è risultata di 2,7 mesi nei pazienti trattati con monoterapia (HR = 0,38).
Infine, dallo studio emerge che PD-L1 non può essere considerato un biomarker predittivo di risposta al trattamento immunoterapico combinato, almeno con il cut-off utilizzato (pari al 5%), in quanto l’ORR per la terapia di combinazione era del 58% nei pazienti PD-L1 positivi e del 55% in quelli PD-L1 negativi, mentre nei pazienti trattati con il solo ipilimumab l’ORR è risultato superiore nei pazienti PD-L1 positivi rispetto a quelli PD-L1 negativi (18% versus 4%).
Gli eventi avversi di grado 3 e 4 sono risultati complessivamente più frequenti con la terapia di combinazione rispetto alla monoterapia (54% vs 24%). In particolare è stata osservata colite immunorelata (17% vs 7%) e incremento delle transaminasi (18% vs 0%), mentre l’incidenza di diarrea (11%) è stata uguale nei due gruppi. L’interruzione del trattamento era dovuta per lo più a tossicità (45% vs 23%). L’impatto dei trattamenti sulla qualità di vita non è stato valutato.
La conferma dell’approvazione si è avuta grazie ai risultati dello studio di fase III Checkmate 06717 che ha randomizzato 945 pazienti con melanoma stadio III inoperabile/IV a ricevere nivolumab (3 mg/kg ev ogni 2 settimane) o ipilimumab (3 mg/kg ev ogni 3 settimane per 4 dosi) o la combinazione di nivolumab + ipilimumab (1 mg/kg ev di nivolumab ogni 3 settimane associato a ipilimumab 3 mg/kg ev ogni 3 settimane per 4 dosi seguiti da nivolumab 3 mg/kg ogni 2 settimane).
La PFS è stata scelta come endpoint primario dello studio; la sua mediana è risultata significativamente superiore nel gruppo di pazienti sottoposti a terapia di combinazione rispetto al solo nivolumab (11,5 mesi vs 6,9 mesi, HR = 0,42), mentre il solo nivolumab ha mostrato una PFS mediana più elevata rispetto al solo ipilimumab (6,9 mesi vs 2,9 mesi, HR = 0,74).
Tali risultati sono stati confermati in tutti i sottogruppi di pazienti; quindi sono indipendenti dallo stato di PD-L1, dallo stato di BRAF e dallo stadio di malattia. Anche l’ORR è aumentato con la terapia di combinazione ed in particolare è stato del 57,6% nei pazienti trattati con l’associazione ipilimumab-nivolumab, del 43,7% nei pazienti trattati con nivolumab, e del 19% in quelli trattati con ipilimumab.
La tossicità è aumentata con la combinazione; infatti eventi avversi di tutti i gradi sono stati il 95,5% con la combinazione, l’82,1% con nivolumab, l’86,2% con ipilimumab. Anche gli eventi avversi di grado 3 e 4 sono stati più frequenti con la terapia di combinazione: 55% vs 16,3% con nivolumab vs 27,3% con ipilimumab. Nel caso della combinazione gli eventi avversi più comuni sono stati diarrea (44,1%), rash (40,3%), fatigue (35,1%) e prurito (33,2%).
In questo studio, nei pazienti PD-L1 positivi (cut-off utilizzato 5%) sia la terapia di combinazione che il solo nivolumab mostravano la stessa PFS mediana (14 mesi), superiore rispetto al solo ipilimumab (3,9 mesi), ma nei pazienti PD-L1 negativi la PFS mediana era più elevata nel gruppo di pazienti sottoposti a terapia di combinazione (11,2 mesi con nivolumab + ipilimumab, 5,3 mesi con nivolumab e 2,8 mesi con ipilimumab). Riteniamo sia necessaria una grande cautela nell’interpretazione di tali risultati in assenza di quelli inerenti la OS mediana.
e) Talimogene Laherparepvec
I virus oncolitici rappresentano una novità in tema di sperimentazione nelle malattie neoplastiche grazie all’importanza ormai riconosciuta al sistema immunitario nel combattere questo tipo di patologie. I virus oncolitici sono rappresentati da virus wild type o modificati geneticamente.
Talimogene Laherparepvec (T-VEC) è un virus herpes simplex 1 geneticamente modificato al fine di infettare e di replicare nelle cellule tumorali producendo GM-CSF (Granulocyte-Macrophage Colony Stimulating Factor) inducendo quindi una stimolazione del sistema immunitario. Questa attivazione del sistema immunitario provoca la morte o la lisi cellulare del tumore, con rottura delle cellule tumorali ed il rilascio di antigeni che, insieme al GM-CSF, promuovono la risposta immunitaria antitumorale. L’esatto meccanismo di azione di T-VEC non è noto. Sembra che la sua azione si esplichi in due modi: il T-VEC entra nella cellula tumorale ed usa l’apparato energetico cellulare per replicare e per indurne la morte. Inoltre, tramite la produzione di GM-CSF, stimola il sistema immunitario dell’ospite a riconoscere e distruggere le cellule tumorali. Una volta che la cellula infettata viene uccisa, copie del virus sono rilasciate nel sangue per infettare ed uccidere altre cellule. Anche se il virus può entrare in cellule sane, qui non è in grado di replicarsi e quindi non è in grado di ucciderle.
In relazione al rischio di diffusione dell’infezione erpetica, il T-VEC non può essere utilizzato nei pazienti immunocompromessi, inclusi quelli con immunodeficienza primaria o acquisita, leucemia, linfoma, AIDS o nei pazienti in trattamento con immunosoppressori.
T-VEC è stato valutato in studi di fase I e II mostrando un accettabile profilo di sicurezza con la somministrazione intralesionale e un ORR del 26% in pazienti con melanoma stadio IIIC e IV18.
La terapia con T-VEC è stata approvata ad ottobre 2015 dall’EMA per il trattamento del melanoma inoperabile o metastatico (stadio IIIB, IIIC e IV M1a) senza metastasi ossee, cerebrali, polmonari o altre localizzazioni viscerali e dall’FDA per il trattamento dei pazienti con melanoma cutaneo e sottocutaneo non resecabile chirurgicamente e con lesioni linfonodali in pazienti che avevano recidivato dopo trattamento chirurgico.
L’approvazione è avvenuta sulla base di uno studio di fase III (OPTim) che ha coinvolto 436 pazienti con melanoma stadio IIIB e IV (senza metastasi ossee, metastasi cerebrali sintomatiche o più di 3 metastasi viscerali) in cui era possibile la somministrazione del virus oncolitico direttamente nella lesione sotto guida ecografica19.
I pazienti sono stati randomizzati 2:1 (295 vs 141) a ricevere un trattamento intralesionale con T-VEC o terapia con GM-CSF ricombinante sottocutanea. La prima dose di T-VEC era al massimo di 4 ml (in base alle dimensioni della lesione) di una concentrazione di 106 pfu/mL (al fine di effettuare la sieroconversione nei pazienti HSV sieronegativi) e successivamente il dosaggio era sempre quello massimo di 4 ml di una concentrazione di 108 pfu/ml 3 settimane dopo la prima dose e successivamente ogni 2 settimane per almeno 6 mesi. Non è stata effettuata l’instillazione sulle metastasi viscerali. Il braccio di controllo prevedeva la somministrazione sottocutanea di GM-CSF 125 µg/m2/die per 14 giorni ogni 28 giorni. L’endpoint primario dello studio era la durata della risposta di almeno 6 mesi.
Il trattamento con T-VEC si è dimostrato superiore al GM-CSF in termini di durata della risposta; infatti, le risposte della durata di almeno 6 mesi sono state del 16,3% vs il 2,1%. Inoltre, le percentuali di tutte le risposte (incluse quindi anche quelle di durata inferiore a 6 mesi) sono state del 26,4% vs il 5,7%). Inoltre il 10,8% dei pazienti ha avuto una risposta completa con T-VEC rispetto all’1% dei pazienti trattati con GM-CSF. Infine, c’è da sottolineare che il tempo medio al fallimento della terapia nei pazienti trattati con T-VEC è risultato di 8,2 mesi mentre era di 2,8 mesi in quelli appartenenti al braccio di controllo. La OS mediana, comunque, è risultata ai limiti della significatività statistica (23,3 mesi versus 18,9 mesi, HR = 0,79). La percentuale di sopravviventi ad 1 anno era del 74% nei pazienti trattati con T-VEC e del 69% in quelli del braccio di controllo; a 3 anni del 39% vs 30%. La durata della risposta e l’ORR sono state superiori nei pazienti che non presentavano metastasi viscerali ma solo metastasi cutanee e linfonodali (stadio IIIB, IIIC, IV M1a), forse per l’azione locale del farmaco iniettato localmente o per il minor carico di malattia, anche se la vera ragione non è stata accertata. Sia la durata che l’ORR, inoltre, sono risultati più elevati nei pazienti che ricevevano T-VEC in prima linea.
Entrambi i trattamenti sono stati ben tollerati; comunque la tossicità è risultata maggiore nei pazienti trattati con T-VEC. I principali eventi avversi che si sono verificati nel braccio sperimentale rispetto a quello di controllo sono stati brivido (49% vs 9%), febbre (43% vs 9%), dolore nel sito di inoculazione (28% vs 6%), nausea (36% vs 20%), fatigue (50% vs 36%), sintomi simil-influenzali (30% vs 15%), vitiligo (5% vs 1%). Anche gli eventi avversi di grado 3 e 4 sono stati più frequenti (11% vs 5%) ma, complessivamente, T-VEC è risultato comunque ben tollerato. La qualità di vita non è stata valutata.
Va sottolineato che lo studio è stato eseguito utilizzando come comparator GM-CSF che ha un meccanismo d’azione immuno-mediato ed evidenze preliminari di attività come terapia adiuvante in melanomi resecati e, anche se modesta, nella malattia avanzata. La differenza in sopravvivenza tra i due trattamenti è risultata esigua sia perché i pazienti trattati con GM-CSF sono stati sottoposti più precocemente ad altri trattamenti terapeutici che potrebbero aver migliorato la sopravvivenza globale, sia perché in alcuni studi il GM-CSF ha mostrato un’azione sinergica con ipilimumab.
Il T-VEC è il primo virus oncolitico autorizzato in Europa; la sua approvazione apre quindi nuovi scenari di trattamento del melanoma, anche per via della sua buona tollerabilità, nei pazienti che per varie ragioni non sono in grado di ricevere altri trattamenti.
Uno studio di fase Ib ha mostrato un ORR del 56,3% con la combinazione di pembrolizumab + T-VEC; un altro studio, sempre di fase Ib, ha mostrato che con l’associazione T-VEC + ipilimumab si ottiene un ORR del 56%, con il 33% di risposte complete. Sulla base di questi risultati sono stati disegnati studi di fase III per valutare l’associazione fra immunoterapia e T-VEC.
Sull’onda dei successi conseguiti con i nuovi farmaci, nel campo delle terapie del melanoma, continua una ricerca clinica effervescente che sta dando buonissimi frutti.
Finora, i risultati più rilevanti sono stati ottenuti con la combinazione di inibitori di BRAF e MEK. Infatti almeno quattro studi hanno dimostrato che l’associazione di un BRAF ed un MEK inibitore è superiore rispetto al BRAF inibitore da solo ed è oggi da considerare il trattamento standard del melanoma metastatico BRAF mutato. Ovviamente è necessario un follow up più lungo per valutare meglio l’entità dell’aumento della OS mediana e la percentuale di lungo sopravviventi ottenuti con la terapia di combinazione, tenendo conto che solo il 5-8% dei pazienti sottoposti ad una terapia costituita da soli BRAF inibitori ha una lunga sopravvivenza. Inoltre, andrà anche valutata l’incidenza di eventi avversi a lungo termine fra i quali l’insorgenza di seconde neoplasie e la comparsa di alterazioni della funzionalità cardiaca. Resta infine da valutare l’impatto economico di questi trattamenti sul SSN in quanto, al momento, mancano studi farmaco-economici.
Per quanto concerne l’immunoterapia, i risultati ottenuti in numerosi studi sembrano interessanti, ma meno eclatanti di quelli sopra riportati. Infatti, l’approvazione della FDA dell’ipilimumab come terapia adiuvante sembra francamente prematura avendo dimostrato solo una diminuzione della sopravvivenza libera da recidiva ma non una riduzione della mortalità, come ci si dovrebbe attendere da uno studio di terapia precauzionale (si osservi che, nel melanoma, questo fenomeno era già stato osservato con l’interferone ed il bevacizumab). Tali modesti risultati, unitamente alla non indifferente tossicità, inducono a concludere che ipilimumab vada usato come trattamento adiuvante solo dopo aver conosciuto il suo impatto sulla OS e sulla qualità di vita; in altre parole, a nostro avviso, prima di deciderne l’introduzione nella pratica clinica, occorre attendere i risultati di studi in corso sia sul confronto testa a testa tra ipilimumab e interferone, sia sul dosaggio ottimale di ipilimumab (10 mg/kg vs 3 mg/kg).
I risultati degli studi sul pembrolizumab e sul nivolumab in prima linea o in seconda linea di terapia permettono di asserire che i due farmaci sono più attivi della chemioterapia (testata contro nivolumab) e dell’ipilimumab (rispetto al pembrolizumab) e meno tossici ma manca ancora di conoscere se questi farmaci determinano anche un aumento della OS.
Non sono stati infine pubblicati dati sulla qualità di vita nello studio di fase III sul nivolumab in seconda linea, mentre quelli raccolti nello studio di fase II con pembrolizumab sono riportati ma, non essendo stati ottenuti con uno studio doppio cieco, non permettono di trarre conclusioni sufficientemente certe.
Infine, l’associazione di nivolumab + ipilimumab sembra essere molto promettente; considerando comunque l’aumentata tossicità, è necessario attendere i risultati in termini di OS mediana e di impatto sulla qualità di vita a tutt’oggi non ancora disponibili: solo essi consentiranno di identificare il ruolo della combinazione nel trattamento del melanoma avanzato/metastatico. Riteniamo che questi aspetti debbano essere considerati dagli enti regolatori nel decidere il rimborso dei farmaci.
L’impiego di virus oncolitici nella terapia del melanoma metastatico è una novità assoluta; per questo la ricerca clinica in tale settore è ancora alla fasi iniziali; infatti, ciò che si è dimostrato è che il Talimogene Laherparepvec (T-VEC) è attivo nel ritardare la progressione della malattia ma non impatta significativamente sulla OS19. Sono in corso studi molto interessanti sull’efficacia della combinazione di T-VEC con immunoterapia. In futuro, è auspicabile che vengano condotti studi testa a testa tra combinazioni farmacologiche diverse in grado di suggerire quale di esse è la più efficace nell’aumentare la sopravvivenza e nel migliorare la qualità di vita. Ma, forse, questo resterà un sogno.
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CARCINOMA DEL COLON-RETTO METASTATICO
Recentemente sono stati approvati dalla FDA due farmaci per il trattamento del carcinoma metastatico del colon-retto: ramucirumab nel luglio 2015 e trifluridina/tipiracil nel settembre 2015.
Il ramucirumab è stato approvato in combinazione con FOLFIRI per il trattamento di pazienti la cui malattia ha progredito dopo una prima linea di chemioterapia con una combinazione di bevacizumab, oxaliplatino e fluoropirimidine, mentre trifluridina/tipiracil è stato approvato per pazienti in progressione dopo un trattamento a base di oxaliplatino, irinotecan e fluoropirimidine, un trattamento con un VEGF e, se RAS wild type, con un inibitore EGFR.
a) Ramucirumab
Il farmaco è un anticorpo monoclonale che inibisce il VEGFA legandosi al recettore 2 del VEGF, considerato il recettore principale che guida il processo di angiogenesi. Dopo uno studio di fase II con risultati promettenti in 48 pazienti con carcinoma metastatico del colon-retto in cui il farmaco era associato in prima linea con FOLFOX-6 è stato eseguito lo studio registrativo. Si tratta di uno studio di fase III randomizzato, doppio-cieco, controllato con placebo in cui il ramucirumab 8 mg/kg ev ogni 14 giorni combinato con FOLFIRI è stato valutato in termini di efficacia e tossicità rispetto al FOLFIRI da solo, come seconda linea di trattamento del carcinoma del colon-retto metastatico1. Endpoint primario dello studio era la OS. Il numero di pazienti da arruolare (1050) è stato calcolato ipotizzando di ottenere con il ramucirumab un aumento della OS mediana da 10 a 12,5 mesi. Nei 1072 pazienti arruolati, la OS mediana è stata significativamente superiore con ramucirumab rispetto al placebo (13,3 vs 11,7 mesi). Un aumento della sopravvivenza era presente in tutti i sottogruppi di pazienti. Anche la PFS mediana è stata significativamente più lunga (5,7 vs 4,5 mesi) mentre simile era l’ORR (13,4% vs 12,5%, rispettivamente).
L’incidenza di tossicità di grado ≥ 3 è stata significativamente superiore con ramucirumab (79% vs 62%). Gli effetti collaterali più frequenti sono stati neutropenia (38% vs 23%), neutropenia febbrile (3% vs 2%), ipertensione (11% vs 3%), diarrea (11% vs 10%) e fatigue (12% vs 8%). La qualità di vita, valutata con il questionario QLQ-C30 dell’EORTC, non ha evidenziato differenze significative tra i due gruppi di pazienti ed è rimasta sostanzialmente stazionaria o è migliorata eccetto che alla prima valutazione (dopo 1 mese dall’inizio del trattamento) dove la qualità di vita è stata trovata inferiore con ramucirumab.
Al momento non sono state pubblicate analisi farmaco-economiche riguardanti il ramucirumab nel carcinoma metastatico del colon-retto.
b) Trifluridina/Tipiracil (TAS-102)
Trifluridina è un nucleoside analogo a base di timidina che è metabolizzata dalla timidina fosforilasi. Questo enzima è a sua volta inibito dal tipiracil, che così incrementa l’esposizione alla trifluridina delle cellule tumorali. La trifluridina una volta captata dalle cellule tumorali e incorporata nel DNA interferisce con la sintesi del DNA inibendo la proliferazione cellulare.
Uno studio di fase II, doppio cieco, controllato con placebo, condotto con 112 pazienti con carcinoma del colon-retto metastatico che avevano già ricevuto 2 o più regimi di chemioterapia ed erano resistenti o intolleranti alle fluoropirimidine, oxaliplatino e irinotecan, ha dimostrato che trifluridina/tipiracil aumentava significativamente la OS mediana da 9.0 mesi a 11,3 mesi con tossicità accettabile2.
Sulla base di tali risultati è stato pianificato uno studio di fase III, randomizzato 2:1, doppio-cieco, controllato con placebo, che ha valutato l’efficacia e la tossicità di trifluridina/tipiracil in pazienti con carcinoma del colon-retto metastatico già trattato con fluoropirimidine, oxaliplatino, irinotecan, un inibitore del VEGF e un inibitore del EGFR, se RAS wild type3. II regorafenib era stato eseguito da circa il 20% dei pazienti. Il TAS-102 era somministrato ogni 28 giorni alla dose di 35 mg/m2 due volte die per 5 giorni consecutivi e due giorni di riposo per due settimane e poi due settimane di riposo. Endpoint principale dello studio era la OS. Il numero di pazienti da arruolare (800) è stato calcolato considerando una riduzione del rischio di morte del 25% con trifluridina/tipiracil.
La OS mediana è stata significativamente più elevata con trifluridina/tipiracil rispetto a placebo (7,1 mesi vs 5,3 mesi) e tale beneficio era presente in tutti i sottogruppi di pazienti. Anche la PFS mediana è stata, seppur lievemente, a favore del farmaco (2,0 vs 1,7 mesi). L’ORR è stata dell’1,6% vs lo 0,4% dei pazienti rispettivamente. Trifluridina/tipiracIl ha determinato un significativo ritardo medio nel peggioramento del performance status (5,7 vs 4,0 mesi).
Le tossicità di grado ≥ 3 è stata significativamente più frequente con il farmaco sperimentale (69% vs 52%). Gli eventi avversi più importanti sono stati neutropenia (38% vs 0%), leucopenia (21% vs 0%), neutropenia febbrile (4% vs 0%) e anemia (18% vs 3%). La qualità di vita non è stata valutata.
Prima di prescrivere un nuovo farmaco è necessario considerare le alternative terapeutiche già disponibili con il beneficio che apportano al paziente in termini di efficacia e di tossicità e, a parità di queste, il loro costo.
Le alternative disponibili al ramucirumab sono la continuazione del bevacizumab fino a progressione di malattia cambiando il tipo di chemioterapia e l’aflibercept.
Malgrado non siano stati eseguiti confronti testa a testa, i risultati con i tre farmaci in termini di OS rispetto alla sola chemioterapia in seconda linea sembrano marginali e assai simili (1,4 mesi in più con bevacizumab 1,4 mesi in più con aflibercept e 1,6 mesi in più con ramucirumab); è altresì difficile stabilire se la tossicità dei tre VEGF sia diversa non essendo stata valutata nello stesso studio4,5.
In genere aumenti della OS mediana inferiori a due mesi sono considerati di basso valore. Ci sono due tipi di trattamenti considerati di basso valore: il tipo 1 ed il tipo 2. Il tipo 1 è un nuovo farmaco che, rispetto ai trattamenti alternativi, ha benefici statisticamente significativi ma clinicamente modesti ed un più alto costo; in questi casi il valore del nuovo farmaco può essere formalmente valutato con un’analisi costo-efficacia. Il tipo 2 è costituito da un nuovo farmaco che non aggiunge benefici in termini di maggiore efficacia e minore tossicità rispetto a quanto già disponibile ed ha un costo molto più elevato.
Questo è il caso del ramucirumab nel carcinoma del colon-retto metastatico in seconda linea5. In questi casi non serve un’analisi farmaco-economica: va prescritto il trattamento che costa meno.
Negli USA, il costo medio per mese di trattamento del ramucirumab è circa tre volte quello del bevacizumab e dell’aflibercept. In conclusione, il ramucirumab potrebbe trovar posto nella terapia del carcinoma metastatico del colon-retto solo se il costo sarà inferiore rispetto sia a quello del bevacizumab, sia a quello dell’aflibercept.
Sotto un profilo metodologico, data la pluralità di farmaci registrati con le stesse indicazioni, occorre stigmatizzare la politica di approvazione da parte degli enti regolatori: attualmente ogni nuovo farmaco è approvato non appena abbia dimostrato una qualche utilità in una certa patologia, indipendentemente dall’esistenza di farmaci approvati in precedenza con la stessa indicazione. In tal modo, si lascia un ampio spazio alla soggettività della scelta del prescrittore che potrebbe essere soprattutto orientata dal marketing delle aziende farmaceutiche produttrici dei singoli farmaci. A nostro avviso, le autorità regolatorie dovrebbero imporre un confronto testa a testa tra ogni nuovo farmaco e la migliore terapia esistente, costituita dal farmaco già approvato con quella indicazione, a tutto vantaggio del processo di formazione delle linee-guida e, quindi, del paziente e del SSN. Viene da chiedersi da che parte stiano le autorità regolatorie.
Per quanto riguarda il trifluridina/tipiracil il valore del farmaco sembra abbastanza modesto. Esso si pone come alternativa al regorafenib per pazienti senza più alternative terapeutiche o per pazienti in progressione durante o dopo il regorafenib. Purtroppo, anche se lo studio di fase III sembra evidenziare che l’efficacia non è diversa nei pazienti che abbiano in precedenza ricevuto o meno il regorafenib, dato lo scarso numero di pazienti resistenti al regorafenib arruolati nello studio3, è necessario attendere i risultati di altri studi per confermare questa ultima indicazione. Per una valutazione del regorafenib si rimanda al lavoro da noi pubblicato in precedenza su questa rivista.
Bibliografia
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CARCINOMA DIFFERENZIATO DELLA TIROIDE
Il carcinoma differenziato della tiroide costituisce circa il 95% dei casi di carcinoma della tiroide. La chirurgia e il radioiodio sono i trattamenti di scelta per queste neoplasie. La sopravvivenza a 5 anni è molto alta (98%), ma, nonostante ciò, circa il 30% dei pazienti ha una recidiva della malattia.
I pazienti con malattia avanzata non resecabile, refrattari al radioiodio hanno una sopravvivenza a 10 anni di circa il 10%. Purtroppo la chemioterapia non ha dimostrato di aumentare la sopravvivenza di questi pazienti e presenta spesso una tossicità importante. Numerose alterazioni genetiche sono state identificate nella patogenesi del carcinoma della tiroide: mutazioni BRAF e RAS, RET, del Fibroblast Growth Factor (FGF) e del Platelet-Derived Growth Factor (PDGF). Anche il VEGF gioca un ruolo importante.
Recentemente due farmaci, entrambi inibitori di molte tirosino-kinasi, sono stati approvati per il trattamento del carcinoma differenziato della tiroide (follicolare e papillare) localmente avanzato o metastatico, in progressione e refrattario al trattamento con radioiodio: sorafenib e lenvatinib: sorafenib nel novembre 2013 e lenvatinib nel febbraio 2015.
a) Sorafenib
Una metanalisi ha dimostrato che in 7 studi condotti in pazienti con carcinoma differenziato della tiroide refrattario al radioiodio e trattati con sorafenib era stata ottenuta una risposta parziale nel 22% ed una stazionarietà di malattia nel 52% dei pazienti. La PFS mediana era di 12,4 mesi1.
Successivamente uno studio di fase III, doppio-cieco, controllato con placebo, ha valutato l’efficacia del sorafenib (400 mg due volte die) in 417 pazienti con carcinoma differenziato della tiroide in progressione e refrattario al radioiodio2. Endpoint primario dello studio era la PFS. Il numero di pazienti da arruolare (420) è stato calcolato ipotizzando di aumentare del 55,5% la PFS mediana rispetto al placebo. Alla progressione era permesso ai pazienti sottoposti a placebo di crossare a sorafenib.
La PFS mediana è stata significativamente più lunga con il sorafenib che con il placebo (10,8 vs 5,8 mesi). Al tempo dell’analisi la OS mediana non era significativamente differente tra i due bracci. L’ORR era del 12% vs lo 0,5%; il 41,8% dei pazienti trattati con sorafenib vs il 33,2% dei pazienti che avevano ricevuto placebo ha ottenuto una stazionarietà di malattia per più di 6 mesi.
Gli eventi avversi più frequenti con sorafenib (tutti i gradi) vs placebo erano: sindrome mano-piede nel 76,3% vs 9,6%, diarrea nel 68,6% vs 15,3%, alopecia nel 67,1% vs 7,7, rash o desquamazione nel 50,2% vs 11,5%, fatigue nel 49,8% vs 25,4%, perdita di peso nel 46,9% vs 13,9% e ipertensione nel 40,6% vs 12,4%. Le tossicità di grado ≥ 3 erano inferiori al 10% tranne quella della sindrome mano-piede di grado 3 presente nel 20,3% vs 0% dei pazienti. La qualità di vita non è stata valutata.
b) Lenvatinib
Dopo un promettente studio di fase II il lenvatinib è stato valutato in uno studio di fase III, randomizzato (2:1), doppio-cieco, controllato con placebo in pazienti con caratteristiche analoghe a quelle dei pazienti studiati con sorafenib. Endpoint primario era la PFS.
Il numero di pazienti da arruolare nello studio (392) è stato calcolato ipotizzando un aumento del 75% della PFS mediana con lenvatinib (da 8 mesi con placebo a 14 mesi con lenvatinib)3. Il lenvatinib era somministrato a dosi di 24 mg die per via orale. Alla progressione i pazienti sottoposti a placebo potevano crossare a lenvatinib. La PFS mediana è stata significativamente superiore con lenvatinib rispetto al placebo (18,3 versus 3,6 mesi, rispettivamente).Il 24% dei pazienti arruolati nello studio aveva precedentemente ricevuto un altro inibitore delle tirosino-chinasi ed anche in questi pazienti il lenvatinib era efficace: PFS mediana di 15,1 mesi nei pazienti trattati in precedenza con un inibitore della tirosin-chinasi, vs 18,7 mesi nei pazienti che non lo avevano ricevuto. La percentuale di ORR è stata altresì superiore con lenvatinib (64,8% vs 1,5%). Invece la OS mediana non è stata significativamente diversa tra i due bracci.
Gli eventi avversi di tutti i gradi più frequenti nel braccio “lenvatinib” sono stati: ipertensione (67,8% vs 9,2%), diarrea (59,4% vs 8,4%), fatigue (59% vs 27,5%), diminuzione dell’appetito (50,2% vs 11,5%), perdita di peso (46,4% vs 9,2%) e nausea (41% vs 13,7%). In tale braccio, le tossicità di grado ≥ 3 sono state ipertensione (41,8%) e sindrome mano-piede (3,4%). La qualità di vita non è stata valutata.
Confrontando i due studi registrativi l’efficacia sembra superiore con lenvatinib rispetto al sorafenib; però, in mancanza di uno studio prospettico randomizzato di confronto tra i due trattamenti, in cui si valuti anche l’impatto sulla qualità di vita, la decisione clinica è lasciata alla soggettività dell’oncologo (v. sopra nelle sezioni “discussione e conclusioni” sulla mancanza di studi testa a testa) e, quindi, può essere influenzata dal marketing dell’industria. Quando i due farmaci saranno registrati nel nostro paese per queste indicazioni non resterà che utilizzare quello meno costoso.
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a) Olaparib
Olaparib e un farmaco appartenente alla classe dei PARP (poli-ADP-riboso polimerasi)-inibitori che sfrutta le alterazioni dei processi di riparazione del DNA tumorale per indurre apoptosi nelle cellule cancerose. Il farmaco è stato approvato dalla FDA nel dicembre 2014 per il trattamento di pazienti con carcinoma ovarico avanzato con mutazione BRCA che abbiano già ricevuto tre o più linee di chemioterapia. L’EMA nel gennaio 2015 ha autorizzato invece l’immissione in commercio di olaparib capsule (400 mg due volte al giorno) come terapia di mantenimento in pazienti con carcinoma ovarico epiteliale sieroso ad alto grado recidivato (inclusi cancro delle tube di Falloppio o carcinoma peritoneale primario), con mutazione BRCA (germinale e/o somatica), che presentano una risposta completa o parziale a una chemioterapia a base di platino.
Dopo studi pilota che hanno dimostrato l’attività del farmaco in pazienti con carcinoma ovarico resistente a terapia con platino, olaparib è stato approvato sulla base dei risultati di uno studio di fase II, randomizzato, doppio-cieco, controllato con placebo. In tale studio olaparib (400 mg 2 volte/die) o placebo sono stati somministrati come terapia di mantenimento a 265 pazienti con carcinoma sieroso ad alto grado di malignità, platino-sensibili trattati con almeno due linee di chemioterapia a base di platino e che avevano presentato una risposta completa o parziale della malattia con l’ultima terapia1. Endpoint primario era la PFS. Il mantenimento con olaparib ha determinato un miglioramento statisticamente significativo della PFS mediana (8,4 mesi con olaparib rispetto a 4,8 mesi con placebo). Tale differenza era presente in tutti i sottogruppi di pazienti e quindi anche in pazienti con BRCA mutato e con BRCA wild type. Non vi erano differenze significative della OS mediana (34,9 mesi vs 31,9 mesi, rispettivamente con olaparib e placebo) ma questi dati non erano giudicati ancora maturi; va inoltre considerato che, alla progressione, circa il 22% dei pazienti ha optato per il crossover da placebo ad olaparib.
Recentemente è stato pubblicato un aggiornamento dei risultati di questo studio inerente la OS mediana e rispetto allo stato del BRCA2. Nelle pazienti BRCA mutate (136 pazienti) la differenza in termini di PFS mediana tra olaparib e placebo è risultata assai più marcata rispetto ai dati prodotti nel lavoro originale (11,2 vs 4,3 mesi). Invece, nelle pazienti BRCA wild type la differenza tra i due gruppi è stata inferiore (7,4 vs 5,5 mesi). Anche in questo aggiornamento la OS mediana non è stata significativamente differente tra i due bracci e nemmeno tra le pazienti BRCA mutate rispetto a quelle BRCA wild type. In conclusione, i risultati sembrerebbero supportare l’ipotesi che i benefici di olaparib siano maggiori nelle pazienti platino-sensibili con carcinoma sieroso dell’ovaio e con mutazione BRCA.
Le pazienti sottoposte ad olaparib hanno presentato una maggiore percentuale di eventi avversi che generalmente sono stati di grado lieve (G1 e G2), in particolare nausea (68% vs 35%), fatigue (48% vs 37%), vomito (32% vs 14%) e anemia (17% vs 5%). L’incidenza di tossicità di grado 3 e 4 è stata altresì più frequente con olaparib (35,3% vs 20,3% con placebo) e in particolare sono stati più frequenti i casi di fatigue (7% vs 3%) e di anemia (5% vs < 1%).
b) Bevacizumab per carcinoma recidivato platino-resistente
Nel 2014 l’EMA ha approvato il bevacizumab in combinazione con chemioterapia (paclitaxel, topotecan o doxorubicina peghilata liposomiale) in pazienti con carcinoma ovarico, carcinoma primitivo peritoneale e carcinoma della tuba resistenti al platino, che, in precedenza, abbiano ricevuto non più di due regimi chemioterapici e che non siano stati trattati con bevacizumab o con altri inibitori del VEGF.
Sono definite “pazienti resistenti al platino” quelle in cui la malattia recidiva entro 6 mesi dalla fine della chemioterapia a base di platino. Esse rappresentano circa il 25% di tutte le pazienti. I farmaci più attivi in questo sottogruppo di pazienti sono il paclitaxel, il topotecan e la doxorubicina peghilata liposomiale. La combinazione di due farmaci aumenta la tossicità del trattamento senza migliorarne l’efficacia. La OS mediana è circa 12 mesi. Come si vede, c’è grande necessità di migliorare tali risultati.
Lo studio AURELIA è uno studio di fase III che ha confrontato bevacizumab (10 mg/kg ogni 2 settimane o 15 mg/kg ogni 3 settimane) associato a chemioterapia (paclitaxel settimanale 80 mg/m2 ev o doxorubicina settimanale 40 mg/m2 ev ogni 4 settimane o topotecan 4 mg/m2 ev giorni 1, 8, 15 ogni 4 settimane) rispetto alla sola chemioterapia in pazienti resistenti alla terapia con platino, ma non refrattari (progressione durante la terapia con platino) ad essa3.
Endpoint primario dello studio era la PFS. Il numero delle pazienti da arruolare nello studio (332) è stato calcolato ipotizzando che l’aggiunta del bevacizumab alla chemioterapia aumenti la PFS mediana di circa il 40% (da 4,0 mesi a 5,7 mesi).
Alla progressione di malattia era concesso alle pazienti trattate con sola chemioterapia di crossare al bevacizumab. Nelle 361 pazienti arruolate la PFS mediana è stata significativamente superiore nel braccio con bevacizumab (6,7 vs 3,4 mesi). Anche l’ORR è stato significativamente superiore con bevacizumab (27,3% vs 11,8%). Invece la OS mediana non è risultata significativamente differente (16,6 vs 13,3 mesi).
La tossicità è stata superiore con l’aggiunta del bevacizumab: ipertensione di grado 2 (27% vs 8%) e proteinuria (2% vs 0). Si è riscontrata una perforazione intestinale in 4 (2,2%) pazienti trattate con bevacizumab.
La valutazione della qualità di vita è stata eseguita con il questionario dell’EORTC QLQ + OV28 (il modulo per il cancro dell’ovaio), e con il FACT Ovarian cancer Symptom Index (FOSI) somministrati ogni 2-3 cicli di 28 giorni4. L’ipotesi era che le pazienti del gruppo sperimentale rispetto a quelle del braccio di controllo (solo chemioterapia) presentassero un miglioramento medio di almeno il 15% (≥ 15 punti) della sottoscala dei sintomi addominali/gastrointestinali del QLQ-OV28. Di fatto ottennero un miglioramento significativo il 21,9% delle pazienti trattate con bevacizumab ed il 9,3% di quelle del gruppo di controllo. Non sono state pubblicate per esteso analisi costo-efficacia inerenti l’uso del bevacizumab in seconda linea in pazienti platino-resistenti.
Nessuna delle due novità (olaparib e bevacizumab) ha portato ad un aumento significativo della OS mediana, anche se ciò può essere almeno in parte imputabile alla possibilità di passare, alla progressione, dal gruppo di controllo al trattamento sperimentale.
Non si finirà mai di stigmatizzare l’uso del crossover alla progressione che nasconde definitivamente l’impatto dei nuovi farmaci sulla OS che, ricordiamolo, è il solo endpoint di efficacia, insieme alla qualità di vita (per una dettagliata analisi dell’argomento, si veda il nostro precedente lavoro pubblicato su Informazioni sui Farmaci).
Per bevacizumab ci sono almeno evidenze di una sua efficacia in termini di miglioramento della qualità di vita. La tossicità aggiuntiva con i due farmaci non è stata trascurabile. Per olaparib sembra essere stato individuato un target di evidente maggior efficacia nelle pazienti BRCA mutate. Quindi, se con entrambi i trattamenti si sono avuti benefici in termini di PFS, in assenza di una prova di efficacia in termini di OS, il loro alto costo induce a riflettere prima di prenderli in considerazione per un loro impiego nella pratica clinica.
Sappiamo quanto sia alto il costo del bevacizumab, ma sembra esserlo ancor di più il costo di olaparib. Infatti, due studi farmacoeconomici hanno evidenziato che olaparib non è costo-efficace in quanto il costo incrementale di un anno aggiuntivo di sopravvivenza libera da progressione era rispettivamente di $258.864 e $234.1285,6.
Il NICE giudica il farmaco rimborsabile dal SSN solo se il costo per le pazienti che rimangono in terapia dopo 15 mesi sia totalmente a carico dell’azienda farmaceutica7.
Bibliografia
1. Ledermann J, et al. Olaparib maintenance therapy in platinum-sensitive relapsed ovarian cancer. N Engl J Med 2012; 366:1382-92.
2. Ledermann J, et al. Olaparib maintenance therapy in patients with platinum sensitive relapsed serous ovarian cancer: a preplanned retrospective analysis of outcomes by BRCA status in a randomised phase 2 trial. Lancet Oncol 2014; 15:852-861.
3. Pujade-Lauraine E, et al. Bevacizumab combined with chemotherapy for platinum-resistant recurrent ovarian cancer: the AURELIA open-label randomized phase III trial. J Clin Oncol 2014; 32:1302-1308.
4. Stockler MR, et al. Patient-reported outcome results from the open-label phase III AURELIA trial evaluating bevacizumab-containing therapy for platinum-resistant ovarian cancer. J Clin Oncol 2014; 32:1309-1316.
5. Smith HJ, et al. PARP inhibitor maintenance therapy for patients with platinum-sensitive recurrent ovarian cancer: a cost-effectiveness analysis. Gynecol Oncol 2015; 139:59-62.
6. Secord AA, et al. Cost-effectiveness of BRCA1 and BRCA2 mutation testing to target PARP use in platinum-sensitive recurrent ovarian cancer. Int J Gynecol Cancer 2013; 23:846-52.
7. Tucker H, et al. NICE guidance on olaparib for maintenance treatment of patients with relapsed, platinum sensitive, BRCA mutation-positive ovarian cancer. Lancet Oncol 2016, Jan 27,doi.org/10.1016/S1470-2045(16)00062-0.
a) Ramucirumab
Ramucirumab (Cyramza) è stato approvato dall’EMA nel dicembre 2014 per il trattamento di seconda linea, in monoterapia o in associazione con paclitaxel, di pazienti affetti da neoplasie gastriche o della giunzione esofago-gastrica, in fase avanzata o metastatica, in progressione dopo precedente trattamento a base di platino e fluoropirimidine.
Ramucirumab è un anticorpo monoclonale umanizzato diretto contro il Vascular Endothelial Growth Factor (VEGF) Receptor 2, mediatore chiave del processo di neoangiogenesi. Mediante inibizione del legame dei ligandi VEGF-A, VEGF-C e VEGF-D, il farmaco blocca la cascata di segnale intracellulare che coinvolge p44/p42 Mitogen-Activated Protein Kinases (MAPK), impedendo la proliferazione e la migrazione delle cellule endoteliali.
L’efficacia e la tossicità del farmaco sono state valutate nello studio randomizzato 2:1, doppio cieco, controllato con placebo (REGARD)1, in cui sono stati arruolati 355 pazienti con adenocarcinoma gastrico non resecabile, ricorrente e metastatico (inclusi gli adenocarcinomi della giunzione esofago-gastrica) con un ECOG performance status 0-1, in progressione di malattia nei 4 mesi successivi al termine della chemioterapia di prima linea della malattia metastatica, o nei 6 mesi successivi al termine della terapia adiuvante.
I pazienti ricevevano ramucirumab 8 mg/kg in infusione endovenosa o placebo ogni 2 settimane. Endpoint primario dello studio era la OS. La OS mediana è risultata aumentata in maniera statisticamente significativa nei pazienti trattati con ramucirumab (5,2 mesi vs 3,8 mesi, HR = 0,78). Anche la PFS mediana è risultata significativamente aumentata (2,1 vs 1,3 mesi, HR = 0,48).
Per quanto concerne la tossicità, la percentuale di ipertesi è risultata maggiore nel gruppo di pazienti trattati con ramucirumab rispetto al controllo (16% vs 8%); mentre l’incidenza degli altri eventi avversi era simile nei due gruppi. Hanno interrotto la terapia l’11% dei pazienti trattati con ramucirumab ed il 6% di quelli trattati con placebo.
In relazione all’esigua rilevanza clinica dei risultati ottenuti, è stato condotto un secondo studio di supporto, RAINBOW2, mirato ad identificare il contributo che ramucirumab potrebbe fornire alla chemioterapia rispetto al solo trattamento chemioterapico. In tale studio la combinazione ramucirumab + paclitaxel è stata confrontata con il solo paclitaxel. Sono stati arruolati 665 pazienti con neoplasia gastrica non resecabile o metastatica (incluso l’adenocarcinoma della giunzione esofago-gastrica), pretrattati con chemioterapia a base di platino e fluoropirimidine, con o senza antracicline. Endpoint primario dello studio era la OS. La OS mediana è risultata significativamente più alta nei pazienti che hanno ricevuto ramucirumab + paclitaxel rispetto a quelli che hanno ricevuto paclitaxel da solo (9,6 vs 7,4 mesi, HR = 0,81). Anche la PFS mediana è stata significativamente superiore con ramucirumab (4,4 mesi vs 2,9 mesi; HR = 0,63) così come l’ORR (27,9% vs 16,1%).
Per quanto riguarda la tossicità, la percentuale di pazienti che ha sospeso il farmaco è risultata analoga nei due bracci (12 % con ramucirumab e 11% con solo paclitaxel). Eventi avversi di grado ≥ 3 sono stati osservati più frequentemente con ramucirumab: neutropenia (41% vs 19%), leucopenia (17% vs 7%), ipertensione (14% vs 2%), fatigue (12% vs 5%), anemia (9% vs 10%) e dolore addominale (6% vs 3%). Per quanto concerne la qualità di vita, valutata nel 98% di pazienti arruolati nello studio RAINBOW mediante il questionario QLQ-C30 dell’EORTC e l’EQ-5D al basale ed ogni 6 settimane, il ramucirumab sembra allungare il tempo al deterioramento dei sintomi e rallentare il declino del performance status3.
Seppure l’entità del beneficio clinico derivante dall’utilizzo del farmaco sia modesta, i risultati degli studi supportano il ruolo del ramucirumab in associazione al paclitaxel nella seconda linea di trattamento del cancro gastrico,setting in cui le attuali opzioni terapeutiche disponibili sono limitate e di limitata efficacia. Da considerare tuttavia che, poiché in entrambi gli studi sono stati inclusi pazienti in buone condizioni generali (ECOG performance status 0-1), resta non determinata l’efficacia e la sicurezza del farmaco nel gruppo di pazienti, di frequente riscontro nella pratica clinica, con ECOG performance status uguale o superiore 2. Infine, sulla base dell’esiguità dei dati disponibili relativi ai pazienti con malattia HER2-positiva, non è possibile stabilire quale sia il reale vantaggio derivante dall’utilizzo del farmaco in tale sottogruppo di pazienti.
Bibliografia
1. Fuchs CS, et al. Ramucirumab monotherapy for previously treated advanced gastric or gastro-oesophageal junction adenocarcinoma (REGARD): an international, randomised, multicentre, placebo-controlled, phase 3 trial. Lancet 2014; 383:31-9.
2. Wilke H, et al. Ramucirumab plus paclitaxel versus placebo plus paclitaxel in patients with previously treated advanced gastric or gastro-oesophageal junction adenocarcinoma (RAINBOW): a double-blind, randomised phase 3 trial. Lancet Oncol 2014; 15:1224-35.
3. Al-Batran SE, et al. Quality-of-life and performance status results from the phase 3 RAINBOW study of ramucirumab plus paclitaxel versus placebo plus paclitaxel in patients with previously treated gastric or gastroesophageal junction adenocarcinoma. Ann Oncol 2016; Jan 7; pii: mdv625 PMID 26747859.
Il trattamento del carcinoma renale metastatico si è notevolmente modificato ed ampliato negli ultimi 10 anni grazie all’introduzione di 7 nuovi farmaci fra i quali gli anti-angiogenetici e gli inibitori di mTOR. Everolimus ha rappresentato fino ad ora l’alternativa terapeutica in seconda linea dopo fallimento di una prima linea. L’utilizzo sequenziale di queste terapie ha portato ad un miglioramento della OS mediana che è passata da 12-15 mesi a 30 mesi, ottenendo anche un miglioramento della qualità di vita.
a) Nivolumab
Il nivolumab è stato approvato dall’FDA nel novembre 2015 per il trattamento del carcinoma renale metastatico in seconda linea dopo una prima linea di trattamento con una terapia anti-angiogenetica.
Uno studio randomizzato di fase II eseguito in 168 pazienti ha valutato attività e tollerabilità di 0,3 mg/kg, 2 mg/kg e 10 mg/kg di nivolumab ev ogni 2 settimane1. L’ORR (20%, 22% e 20%, rispettivamente), la PFS mediana (2,7, 4,0 e 4,2 mesi) e la OS mediana (18,2, 25,5 e 24,7 mesi) non sono risultate significativamente differenti.
L’approvazione si è avuta in seguito sulla base dei risultati dello studio di fase III Checkmate 0252 condotto su 821 pazienti con carcinoma renale a cellule chiare metastatico in seconda linea precedentemente sottoposti a terapia con una o due terapie anti-angiogenetiche. La presenza di metastasi cerebrali era un criterio di esclusione dallo studio. I pazienti sono stati randomizzati 1:1 a ricevere terapia con nivolumab (3 mg/kg ev ogni 2 settimane) o everolimus (10 mg/os/die). Endpoint primario era la OS.
I risultati hanno mostrato un incremento significativo della OS mediana nei pazienti sottoposti a terapia con nivolumab rispetto a quelli che hanno ricevuto everolimus (25,0 vs 19,6 mesi, HR = 0,73). Anche l’ORR è risultato significativamente superiore (25% vs 5%) mentre la PFS mediana non è stata trovata significativamente diversa (4,6 mesi nei pazienti sottoposti a terapia con nivolumab e 4,4 mesi in quelli trattati con everolimus). Nei pazienti che non avevano presentato progressione di malattia a sei mesi (35% dei pazienti che ricevevano nivolumab e 31% di quelli trattati con everolimus) la PFS mediana è stata di 15,6 mesi con nivolumab vs 11,7 mesi con everolimus. Infine, il 44% dei pazienti in terapia con nivolumab ed il 46% di quelli in terapia con everolimus ha continuato la terapia nonostante progressione per il beneficio clinico riscontrato.
Nello studio è stata inoltre valutata l’associazione fra l’espressione di PD-L1 (considerando positivo un cut-off almeno dell’1% di espressione di tale ligando) e la OS.
La OS mediana non è risultata significativamente diversa in relazione all’espressione di PD-L1. La qualità della vita misurata con il Functional Assessment Cancer Therapy - Kidney Symptom Index era simile al basale ma migliorava nel tempo di più con nivolumab che con everolimus.
La terapia con nivolumab è risultata ben tollerata con un numero di eventi avversi di grado 3 e 4 nettamente inferiore all’everolimus (19% vs 37%); gli eventi avversi di grado 3 e 4 più frequenti con nivolumab sono stati la fatigue (2%) e l’anemia (2%) mentre con everolimus l’anemia (8%). Per quel che riguarda l’incidenza di fatigue è stata sostanzialmente la stessa con entrambe le terapie (33% con nivolumab vs 34% con everolimus), così come la nausea (rispettivamente 15% vs 18%), mentre altri eventi avversi sono stati più frequenti con everolimus (ad esempio stomatite 33% vs 2%, anemia 32% vs 10% e mucosite 22% vs 3%).
Questo studio ha mostrato quindi un rilevante aumento della OS mediana (+ 5,4 mesi) con nivolumab rispetto a everolimus ed una minor tossicità.
Purtroppo solo il 20-25% dei pazienti ha risposto alla terapia con nivolumab e solo nell’1% dei pazienti si è osservata una risposta completa. Non sono stati identificati biomarkers predittivi di efficacia del trattamento immunoterapico (l’espressione di PD-L1 non correla con la sopravvivenza mediana globale).
1. Motzer RJ, et al. Nivolumab for metastatic renal cell carcinoma: results of a randomized phase II trial. J Clin Oncol 2015; 33:1430-37.
2. Motzer RJ, et al; Nivolumab versus everolimus in advanced renal-cell carcinoma. N Engl J Med 2015; 373:1803-13.
Circa il 60-65% dei carcinomi mammari esprimono i recettori estrogenici e/o progestinici e per questo sottotipo di malattia l’ormonoterapia rimane il trattamento di scelta. Nuovi classi di farmaci in grado di agire a livello del ciclo cellulare potrebbero contribuire a migliorare l’efficacia della terapia ormonale.
a) Palbociclib
Palbociclib è un inibitore reversibile della chinasi ciclina-dipendente (CDK) 4 e 6. Tramite la sua azione impedisce la replicazione del DNA bloccando la replicazione delle cellule tumorali, agendo nella inibizione della progressione dalla fase G1 alla fase S del ciclo cellulare.
L’azione delle CDK4/6 tramite la loro interazione con la ciclina 1 si esplica prevalentemente a livello della fosforilazione di RB (proteina del retinoblastoma che agisce con funzione di oncosoppressore) che, una volta fosforilato, libera il fattore di trascrizione EF2 che va così ad attivare la trascrizione di geni che favoriscono la replicazione del DNA. Quindi la fosforilazione della RB che avviene tramite le CDK4/6 inizia il processo di inattivazione della funzione di RB che, tramite il rilascio di EF2, inizia la progressione del ciclo cellulare.
Studi in vitro hanno mostrato che l’azione sulle CDK 4 e 6 e quindi sulla fosforilazione di RB può agire come fattore inibente la crescita tumorale nelle cellule di carcinoma mammario con recettori estrogenici positivi che non rispondono alla sola terapia ormonale.
Palbociclib, quindi, tramite la sua alta selettività per la CDK4 e CDK6 induce l’arresto della fosforilazione di RB e quindi l’inibizione della crescita tumorale.
Nel febbraio 2015 la FDA ha approvato palbociclib associato a letrozolo in prima linea nelle donne con carcinoma mammario metastatico in postmenopausa con recettori estrogenici positivi e negatività di espressione di HER2.
L’approvazione è avvenuta sulla base dello studio di fase 2 PALOMA11, condotto in prima linea in donne con carcinoma mammario recidivato o metastatico in postmenopausa con recettori estrogenici positivi ed HER2 negativo.
In relazione al riscontro in studi preclinici di alcune alterazioni genetiche (della ciclina D1 e della proteina p16), verosimilmente predittive di risposta al trattamento con gli inibitori CDK4/6, lo studio ha previsto due coorti di pazienti: la prima comprendeva pazienti con espressione dei recettori estrogenici da parte del tumore e negatività dell’HER2 e la seconda in cui erano anche richieste l’amplificazione della ciclina D1 (CCND1) e/o la perdita di p16 (INK4A o CDKN2A).
In totale 165 pazienti sono state randomizzate 1:1 a ricevere palbociclib (125 mg/os/die per 21 giorni seguito da una settimana di interruzione) + letrozolo (2,5 mg/die) vs letrozolo da solo.
Endpoint primario era la PFS, la cui mediana è risultata significativamente superiore nel braccio trattato con palbociclib (20,2 mesi vs 10,2 mesi, HR = 0,49).
L’ORR è stato del 43% vs 33%, il clinical benefit (inteso come somma fra risposta parziale, risposta completa e stabilità di malattia) e la durata della risposta sono risultati superiori con la combinazione. La terapia di combinazione ha aumentato la OS mediana ma in maniera non statisticamente significativa (37,5 vs 33,3 mesi).
Gli eventi avversi, spesso di grado lieve, sono stati più frequenti nelle pazienti sottoposte a terapia di combinazione: anemia (35% vs 6%), neutropenia (74% vs 5%), fatigue (40% vs 23%), alopecia (22% vs 3%), diarrea (21% vs 10%) e trombocitopenia (16% vs 1%). Gli eventi avversi di grado 4 con la terapia di combinazione sono stati embolia polmonare (4%), fatigue (2%) e neutropenia (6%). Non è stato rilevato un peggioramento della qualità di vita con palbociclib rispetto alla sola terapia ormonale.
Recentemente sono stati resi noti i risultati dello studio randomizzato 2:1, doppio cieco, PALOMA32 che ha valutato l’aggiunta del palbociclib alla terapia con fulvestrant (500 mg im ogni 14 giorni per le tre prime somministrazioni e poi ogni 28 giorni) in seconda linea in 521 pazienti con carcinoma mammario con recettori estrogenici positivi ed HER2 negative rispetto al solo fulvestrant. Non era consentito il crossover. Lo studio ha evidenziato un importante aumento della PFS mediana (9,2 mesi vs 3,8 mesi, HR = 0,42) con un profilo di tossicità lievemente aumentato nel gruppo di combinazione, specie anemia, alopecia e trombocitopenia; la leucopenia e la neutropenia sono state significativamente più frequenti ma raramente insorgeva neutropenia febbrile (0,6% delle pazienti). Al momento non ci sono dati sulla sopravvivenza globale.
In conclusione palbociclib sembra assai promettente, ma il giudizio finale sulla sua adottabilità nella pratica clinica va rimandato fino a che non saranno noti i risultati sulla OS; e, finalmente, saranno dati “puliti” in quanto nello studio sul fulvestrant, come si è detto, non era consentito il crossover.
Bibliografia
1. Finn.RS, et al, The cyclin-dependant kinase 4/6 inhibitor palbociclib in combination with letrozole versus letrozole alone as first-line treatment of oestrogen receptor-positive, HER2-negative, advanced breast cancer (PALOMA-1/TRIO-18): a randomised phase 2 study. Lancet Oncol 2015; 16:25-35.
2. Turner NC, et al. Palbociclib in hormone-receptor positive advanced breast cancer. N Engl J Med 2015; 373:209-19.
CARCINOMA DEL COLLO DELL’UTERO
a) Bevacizumab
Il bevacizumab è stato approvato dall’EMA in combinazione con cisplatino e paclitaxel (o, in alternativa, con paclitaxel e topotecan in pazienti che non possono essere sottoposte a terapia con cisplatino), per il trattamento di pazienti adulte con carcinoma della cervice persistente, ricorrente o metastatico.
Il VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor) promuove l’angiogenesi ed è un mediatore della progressione di malattia nel carcinoma della cervice uterina.
Il bevacizumab che inibisce tutte le isoforme di VEGF, dopo la dimostrazione di attività in alcuni studi retrospettivi o di fase II è stato valutato in uno studio randomizzato di fase III in 452 donne con carcinoma della cervice stadio IVB o persistente e ricorrente, ma non operabile, dopo un trattamento standard1.
Lo studio era pianificato con disegno fattoriale 2 x 2 per rispondere a due domande: se il topotecan in combinazione con paclitaxel era superiore all’associazione di cisplatino + paclitaxel e se l’aggiunta di bevacizumab ad ambedue i regimi migliorava la sopravvivenza. Di fatto le pazienti erano randomizzate a ricevere uno di 4 combinazioni ogni 21 giorni fino a progressione di malattia o a tossicità inaccettabile. Il braccio di controllo era sottoposto a cisplatino 50 mg/m2 + paclitaxel 135-175 mg/m2; il braccio non cisplatino era sottoposto a topotecan 0,75 mg/m2 per 3 giorni + paclitaxel 175 mg/m2. Entrambi questi regimi erano valutati con o senza l’aggiunta di bevacizumab 15 mg/kg ogni 21 giorni fino a progressione (rispettivamente 227 pazienti e 225 pazienti). Endpoint primario era la OS. Il numero di pazienti da arruolare (450) è stato calcolato ipotizzando di identificare una riduzione del rischio di morte con ambedue i trattamenti sperimentali del 30%.
Alla progressione non era previsto il crossover al bevacizumab nelle pazienti sottoposte a placebo. Più del 70% delle pazienti arruolate in ogni braccio aveva precedentemente ricevuto chemio-radioterapia con cisplatino come radiosensibilizzante. Un’analisi ad interim (programmata) dopo un follow up mediano di 12,5 mesi non ha evidenziato una superiorità del topotecan più paclitaxel rispetto al cisplatino più paclitaxel.
Ad un follow up mediano di 20,8 mesi il bevacizumab ha aumentato significativamente sia la OS mediana (17,0 vs 13,3 mesi), sia la PFS mediana (8,2 vs 5,9 mesi), sia l’ORR (48% vs 36%). Il beneficio in termini di OS con l’aggiunta del bevacizumab è risultato statisticamente significativo solo nel sottogruppo di pazienti sottoposte a cisplatino più paclitaxel ma non in quelle trattate con topotecan più paclitaxel. In questo studio le pazienti arruolate avevano un ECOG performance status di 0 o 1 e solo il 17% presentavano una malattia metastatica.
Per quanto concerne la tossicità, l’aggiunta di bevacizumab ha aumentato significativamente l’incidenza di alcuni eventi avversi, quali ipertensione di grado ≥ 2 (25% vs 2%), fistole gastrointestinali e genitourinarie di grado ≥ 3 (6% vs < 1%), tromboembolismo di grado ≥ 3 (8% vs 1%) e neutropenia di grado 4 (35% vs 24%).
La valutazione della qualità di vita con il FACT-Cx TOI (Functional Assessment of Cancer Therapy - Cervix Trial Outcome Index scale) non ha evidenziato differenze significative (> 5 punti) tra le pazienti sottoposte o meno a bevacizumab. Il che significa che l’aumento della sopravvivenza non è stato ottenuto a scapito di un peggioramento della qualità di vita2.
Finalmente l’applicazione di un disegno fattoriale! [per una elementare introduzione ai disegni fattoriali si può consultare la rubrica “Statistica per concetti 1. I disegni fattoriali”, in CASCO n. 9, pp. 27-28. CASCO è una rivista edita dal Pensiero scientifico, di libero accesso, facilmente rintracciabile digitando su Google il nome della rivista per esteso: Current Advances in Supportive Care in Oncology].
Con tale disegno, nello stesso studio sono state date risposte a due domande, la prima relativa all’effetto differenziale di due diverse chemioterapie, la seconda relativa alla maggior efficacia derivante dall’aggiunta di bevacizumab.
In genere, un disegno fattoriale completo ha lo svantaggio di richiedere un’elevata dimensione del campione, ma, se si rinuncia alla valutazione di un effetto, essa si riduce notevolmente. Questo è il caso dello studio in esame in cui è esplicitamente detto di essere interessati solo ai due effetti principali (diversa chemioterapia, aggiunta di bevacizumab). Quindi, nella fase di programmazione dello studio si è rinunciato a stimare l’interazione tra i due effetti, cioè se bevacizumab sia più o meno efficace in presenza di una chemioterapia piuttosto che dell’altra. Ma, come si sa, la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni: in sede di elaborazione dei dati, contrariamente a quanto si era programmato, si è mostrato che bevacizumab è più efficace nel sottogruppo delle pazienti trattate con cisplatino + paclitaxel: quest’analisi non doveva essere eseguita!
Si tratta di uno studio complessivamente rigoroso; tuttavia i suoi risultati fanno sorgere alcune perplessità. Infatti, da un lato i criteri di eleggibilità e di esclusione appaiono alquanto ristretti (ECOG performance status 0 o 1) e, dall’altro, la presenza, nel gruppo delle pazienti valutabili, di solo un 17% di donne con malattia metastatica. Ciò rende incerta la generalizzabilità dei risultati a pazienti in peggiori condizioni generali e con malattia metastatica.
Infine il problema dei costi. Il rapporto costo-efficacia incrementale dell’aggiunta del bevacizumab rispetto alla sola chemioterapia è stato valutato in due studi che hanno evidenziato un costo per QALY (anno di vita guadagnato aggiustato per la qualità) di $155.000 e $253.0003,4 che è nettamente superiore a quanto accettato a livello internazionale (< 100.000 euro per QALY). Tale costo per QALY potrebbe essere ricondotto nel range di accettabilità o dimezzando la dose del bevacizumab a 7,5 mg/kg (invece di 15 mg/kg) ovvero riducendo il prezzo del bevacizumab3.
Bibliografia
1. Tewari KS, et al. Improved survival with bevacizumab in advanced cervical cancer. N Engl J Med 2014; 370: 734-43.
2. Penson RT, et al. Bevacizumab for advanced cervical cancer: patient reported outcomes of a randomised, phase 3 trial (NRG Oncology-Gynecologic Group protocol 240). Lancet Oncol 2015; 16:301-11.
3. Phippen NT, et al. Bevacizumab in recurrent, persistent, or advanced stage carcinoma of the cervix: is it cost-effective? Eur J Cancer 2015; 136:43-47.
4. Minion LE, et al. A Markov model to evaluate cost-effectiveness of antiangiogenesis therapy using bevacizumab in advance cervical cancer. Gynecol Oncol 2015; 137:490-96.
a) Alpharadin
Alpharadin (radium RA-223) è stato approvato per il trattamento di pazienti con carcinoma della prostata resistente alla castrazione, con metastasi ossee sintomatiche e non note metastasi viscerali.
Le metastasi ossee sono presenti in più del 90% di questi pazienti e sono la causa più importante di disabilità, peggioramento della qualità di vita e morte dei pazienti in seguito alle complicanze delle metastasi. I trattamenti finora disponibili che hanno avuto l’osso come bersaglio (difosfonati, denosumab e i radiofarmaci emittenti particelle β, quali 89strontium e 153samarium, non hanno finora dimostrato un effetto antitumorale e sono utili solo per il trattamento del dolore da metastasi ossee e per prevenire eventi scheletrici (chirurgia e radioterapia sull’osso, fratture vertebrali e non, compressione midollare) in pazienti con metastasi ossee.
Alpharadin è un radiofarmaco emittente particelle α che, agendo come un calcio mimetico, forma un complesso con la idrossiapatite presente nelle aree di elevato turnover osseo come sono le metastasi ossee (che sono quindi il target del radium 223)1. Qui esercita un’azione citotossica danneggiando la doppia elica del DNA delle cellule. Ha un’emivita di 11,4 giorni.
Alpharadin, dopo promettenti studi pilota che ne hanno verificato la scarsa mielotossicità e l’attività sulle metastasi ossee, è stato valutato in uno studio di fase III randomizzato 2:1, doppio-cieco, controllato con placebo, in 921 pazienti con carcinoma della prostata resistente alla castrazione, con metastasi ossee sintomatiche ma senza la presenza di metastasi viscerali2. I pazienti che avevano già ricevuto (o si erano rifiutati di sottoporsi a) docetaxel, all’epoca il farmaco di scelta per il carcinoma metastatico della prostata resistente alla castrazione, erano trattati con 6 dosi di alpharadin 50 kBq/kg o placebo ogni 4 settimane.
Tutti i pazienti inoltre ricevevano la migliore terapia possibile a scelta dell’oncologo curante. Endpoint primario dello studio era la OS. Il numero di pazienti da arruolare (900) era stato calcolato per evidenziare un hazard ratio di 0,76 per il rischio di morte con alpharadin rispetto al placebo. Un’analisi ad interim pianificata, eseguita quando erano avvenute 314 morti, ha evidenziato un impatto del trattamento sulla OS mediana e il data and safety monitoring committee decise di interrompere lo studio per consentire ai pazienti sottoposti a placebo il crossover ad alpharadin.
La OS mediana è stata significativamente superiore con alpharadin (14,9 vs 11,3 mesi). Inoltre alpharadin ha ritardato significativamente il tempo al primo evento scheletrico (15,6 vs 9,8 mesi) e il tempo all’aumento della fosfatasi alcalina e del PSA.
La valutazione della qualità di vita, condotta per mezzo del questionario Functional Assessment of Cancer Therapy-Prostate (FACT-P) ha evidenziato un significativo miglioramento (aumento del punteggio di ≥ 10 punti in una scala da 0 a 156) durante la somministrazione del farmaco nel 25% vs il 16% dei pazienti sottoposti a placebo. La frequenza degli eventi avversi di grado 3 e 4 non è stata significativamente differente tra i due gruppi e la tossicità midollare dell’alpharadin è stata lieve.
L’impatto economico dell’alpharadin è stato valutato in 6 valutazioni di HTA (Health Technology Assessment); il costo per QALY era di 80.000-94.000 euro che è stato giudicato non costo-efficace; inoltre, si è ritenuto che i dati non fossero ancora sufficienti per raggiungere conclusioni definitive3. Una raccomandazione del NICE ne sostiene l’uso solo dopo docetaxel e solo se Bayer fornirà alpharadin con lo sconto concordato nel patient access scheme4.
Bibliografia
1. Nilsson S. Alpha-emitter radium-223 in the management of solid tumors: current status and future directions. 2014 ASCO Educ Book e132-e139.
2. Nilsson S, et al. Alpha emitter radium-223 and survival in metastatic prostate cancer. N Engl J Med 2013; 369:213-223.
3. Norum J, et al. Health economics and radium-223 (Xofigo) in the treatment of metastatic castration-resistant prostate cancer: a case history and a systematic review of the literature. Glob J Health Sci 2015; July 30; 8(4):49905 doi: 10.5539/gjhs.v8n4p1.
4. Umeweni N, et al. NICE guidance on radium-223 dichloride for hormone-relapsed prostate cancer with bone metastases. Lancet Oncol 2016, Jan 27 doi.org/10.1016/S1470-2045(16)00060-7.
Le opzioni terapeutiche per pazienti con neoplasia pancreatica avanzata, oltre la prima linea (FOLFIRINOX o abraxane più gemcitabina), sono poche e non universalmente accettate come standard. Il rapido scadimento delle condizioni cliniche non consente spesso la somministrazione di un trattamento antineoplastico attivo e candida i pazienti alla sola terapia di supporto.
Solo il 45% dei pazienti ricevono infatti un trattamento chemioterapico alla progressione dopo un trattamento di prima linea. Un piccolo numero di studi prospettici, ha valutato sia chemioterapie che terapie target in pazienti gemcitabina-refrattari, ottenendo in genere, una bassa ORR ed una PFS mediana di pochi mesi.
a) Irinotecan Liposomiale
Nell’ottobre 2015 la FDA ha approvato l’utilizzo di irinotecan liposomiale in combinazione con fluorouracile e leucovorin, per il trattamento di pazienti con neoplasia pancreatica in stadio avanzato o metastatica, precedentemente trattati con schemi di chemioterapia contenente gemcitabina.
PEP02 (anche conosciuto come MM-398) è una formulazione stabile nanoliposomiale di irinotecan sucrosofato. Studi preclinici hanno messo in evidenza una migliore biodistribuzione dell’irinotecan nonché un più favorevole profilo di tossicità rispetto alla preparazione standard. Infatti, l’incapsulazione in un liposoma consente un maggior assorbimento del chemioterapico da parte delle cellule tumorali, favorendo la conversione dell’irinotecan nel suo metabolita attivo SN-38.
L’efficacia di irinotecan liposomiale è stata indagata in uno studio randomizzato di fase III (NAPOLI-1)1, condotto su 417 pazienti con adenocarcinoma duttale pancreatico metastatico, già sottoposti a chemioterapia a base di gemcitabina. I pazienti sono stati inizialmente randomizzati a ricevere monoterapia con irinotecan liposomiale (120 mg/m2 ogni tre settimane, equivalenti a 100 mg/m2 di irinotecan libero) o trattamento con 200 mg/m2 di acido folinico seguito da un’infusione di 2000 mg/m2 di fluorouracile per 24 ore ogni settimana per le prime 4 settimane di ogni ciclo di 6 settimane.
Con successivo emendamento al protocollo, a studio iniziato, è stato aggiunto un terzo braccio con irinotecan liposomiale (80 mg/m2, equivalenti a 70 mg/m2 di irinotecan base) combinato con acido folinico (400 mg/m2) + fluorouracile (2400 mg/m2) in 46 ore ogni due settimane.
Endpoint primario dello studio era la OS. In totale sono stati randomizzati 417 pazienti. Tutti i pazienti avevano ricevuto un pregresso trattamento con gemcitabina (in monoterapia o in combinazione con altro agente) ed in particolare il 13% era stato pretrattato con gemcitabina e nab-paclitaxel. La OS mediana, nei pazienti sottoposti a irinotecan liposomiale in associazione a fluorouracile e acido folinico, è risultata significativamente superiore a quella dei pazienti trattati con fluorouracile ed acido folinico (6,1 mesi vs 4,2 mesi; HR = 0,67). La OS mediana non è risultata significativamente diversa tra i pazienti che hanno ricevuto monoterapia con irinotecan liposomiale e quelli che hanno ricevuto fluorouracile ed acido folinico (4,9 mesi vs 4,2 mesi). Gli autori non riportano nel lavoro se differenza, in termini di OS mediana, riscontrata tra irinotecan liposomiale associato a fluorouracile e acido folinico rispetto al solo irinotecan liposomiale sia stata significativa (6,1 vs 4,9 mesi). Anche la PFS mediana è risultata superiore con la combinazione (3,1 vs 1,5 mesi vs 2,7 con irinotecan liposomiale da solo).
Eventi avversi di grado 3 o 4 si sono presentati più frequentemente nei pazienti cui è stato somministrato irinotecan liposomiale + fluorouracile ed acido folinico; in particolare, neutropenia (27% con la combinazione vs 1% con acido folinico e fluorouracile vs 15% con irinotecan liposomiale da solo), diarrea (13% vs 4% vs 21%), vomito (11% vs 3% vs 14%), fatigue (14% vs 4% vs 6%). La qualità della vita è stata valutata con il questionario dell’EORTC e non dimostra differenze fra i tre bracci di trattamento.
L’irinotecan liposomiale in combinazione con 5-fluorouracile ed acido folinico incrementa marginalmente la OS rispetto al fluorouracile + acido folinico nei pazienti affetti da neoplasie pancreatiche metastatiche pretrattate con gemcitabina, con una tossicità superiore. Si sarebbe dovuto valutare il farmaco vs irinotecan non liposomiale, entrambi in combinazione con fluorouracile + acido folinico. Solo questo disegno avrebbe permesso di verificare se la formulazione liposomiale aumentava l’efficacia e/o riduceva la tossicità.
Desta sorpresa che i comitati etici abbiano approvato un così rilevante emendamento al protocollo (aggiunta di un terzo braccio) a studio iniziato, in quanto i benefici della randomizzazione potrebbero risultarne indeboliti. Inoltre l’aggiunta di un terzo braccio fa pensare a overview dei dati, eseguite senza tener conto della disuguaglianza di Bonferroni. A quanto ci risulta, non ci sono studi sui costi dell’irinotecan liposomiale in questo setting di applicazione.
Bibliografia
1. Wang-Gillam A, et al. Nanoliposomal irinotecan with fluorouracil and folinic acid in metastatic pancreatic cancer after previous gemcitabine-based therapy (NAPOLI-1): a global, randomised, open-label, phase 3 trial. See comment in PubMed Commons below. Lancet 2015 Nov 29. doi.org/10.1016/S0140-6736(15)00986-1.
Un numero importante di farmaci o loro combinazioni per le neoplasie solide (20) e di nuove indicazioni (29) è stato approvato dalla FDA negli anni 2014-2015. Nel presente lavoro gli studi clinici che hanno portato all’approvazione di questi trattamenti, insieme agli studi collaterali, sono stati sottoposti a revisione critica. Non sono stati invece considerati
• alcuni farmaci già disponibili da tempo in Italia per le indicazioni approvate dalla FDA (trabectidina approvata per i lipo e leiomiosarcomi metastatici o non resecabili già sottoposti a chemioterapia a base di antracicline, lanreotide per i tumori neuroendocrini gastroenterici o pancreatici, G1 o G2, localmente avanzati o metastatici non resecabili),
• il sonidegib che ha la stessa indicazione del vismodegib per il carcinoma basocellulare non più sottoponibile a chirurgia o radioterapia (v. F. Roila, E. Ballatori, I nuovi farmaci in Oncologia, Informazioni sui Farmaci, Anno 38, n. 3, 2014; pp. 60-78) che si è deciso di non trattare data la scarsa documentazione che non permette di capire se si tratti di un me-too o di una vera novità,
• i tanti farmaci approvati per le neoplasie ematologiche (non oggetto di questa revisione),
• i farmaci e presidi approvati come terapie di supporto per il paziente oncologico, dal denosumab per l’ipercalcemia refrattaria ai bifosfonati, al filgrastim zarzio (un evviva per il primo biosimilare approvato dalla FDA!), al cooling cap per ridurre l’alopecia nelle donne con cancro della mammella sottoposte a chemioterapia (presidio studiato così accuratamente che i dati disponibili provengono da uno studio in cui le pazienti trattate con antracicline non erano state arruolate!) all’uridina triacetato per emergenze in seguito a overdose da 5-fluorouracile o capecitabina o con grave tossicità da questi farmaci entro 96 ore dalla loro somministrazione.
Con il pretesto della serietà della patologia e della necessità di avere farmaci a disposizione per i pazienti, sembra che la FDA sia estremamente assorbita dall’Oncologia e dall’Onco-ematologia. Se da un lato non si può che esserle grati per tanto zelo, dall’altro non possono certo ringraziarla i pazienti ed i servizi sanitari nazionali di tutto il mondo. I primi si trovano ad assumere, e i secondi a rimborsare, farmaci di cui non solo quasi sempre non si sa nulla della loro tossicità di medio-lungo periodo, ma neppure si conosce quanto possano essere utili nella pratica clinica. Infatti, tra i risultati degli studi registrativi (e collaterali) spesso mancano dati fondamentali, quali l’impatto dei farmaci sulla sopravvivenza globale e sulla qualità di vita. Inoltre, aggiungendo che i costi sono veramente esagerati si ha un quadro completo di come la sopravvivenza del servizio sanitario universalistico sia a rischio.
Gli studi discussi nel presente lavoro spesso presentano gli “antichi vizi” che affliggono gli studi clinici in Oncologia, illustrati nelle note metodologiche del nostro precedente lavoro pubblicato su Informazioni sui Farmaci che, per comodità di lettura, abbiamo sistematizzato nel lavoro: E. Ballatori, F. Roila, B. Ruggeri. Pitfalls nella ricerca clinica. Il caso dei nuovi farmaci in Oncologia. GRHTA 2014; 1: 44-51 (Global & Regional Health Technology Assessment è una rivista di libero accesso on line). Invitiamo il Lettore a verificare come i trabocchetti già segnalati siano ancora presenti negli articoli esaminati nella presente review. Talora, però, i nuovi trattamenti sono veramente utili, o molto promettenti, da cui le “nuove virtù” menzionate nel titolo.
Il problema degli alti costi dei nuovi farmaci in relazione a deboli evidenze di efficacia è sentito da molti e sono state intraprese varie strade per risolverlo, o almeno per attenuarlo. Alcuni hanno indicato la strada del “raise the bar” suggerendo alle autorità regolatorie di richiedere livelli di efficacia più elevati per concedere l’approvazione ai nuovi farmaci (v. ad es., A. Sobrero et al. Raising the Bar for Antineoplastic Agents: How to Choose Threshold Values for Superiority Trials in Advanced Solid Tumors. Clin Cancer Res 2015; 21:1036-1043).
Nel 2014-2015, le più importanti associazioni scientifiche in campo oncologico hanno provato a dare un “valore” ai nuovi farmaci, “valore” inteso come grandezza del beneficio clinico in relazione al costo del nuovo farmaco (Ellis LM, et al. American Society of Clinical Oncology perspective: raising the bar for clinical trials defining clinically meaningful outcomes. J Clin Oncol 2014: 20: 1277-1280. Schnipper LE, et al. American Society of Clinical Oncology statement: a conceptual framework to assess the value of cancer treatment options. J Clin Oncol 2015; 23: 2563-2577. Cherny NI, et al. A standardized, generic, validated approach to stratify the magnitude of clinical benefit that can be anticipated from anti-cancer therapies: the European Society for Medical Oncology magnitude of clinical benefit scale (ESMO-MCBS). Ann Oncol 2015; 26: 1547-1573). Com’è facile intuire, tale strada non è semplice da percorrere in quanto
a. non conoscendo l’impatto su endpoint definitivi (OS e qualità di vita) ma solo su endpoint intermedi (ORR, PFS, DFS che peraltro solo raramente possono considerarsi endpoint surrogati), qualsiasi tentativo corre il rischio di attribuire un valore non solo approssimativo, ma spesso addirittura sbagliato;
b. in tali metodi sono utilizzate stime puntuali di efficacia per cui i dati con cui è costruito lo score da attribuire ai singoli farmaci (cioè il “valore”) sono affetti non solo da variabilità accidentale (ripetendo lo studio con altri pazienti si otterrebbero stime diverse), ma anche da errori di natura sistematica (i più difficili da controllare) dovuti anche al fatto che la ricerca clinica si svolge in condizioni diverse da quelle in cui opera la pratica clinica.
Ovviamente in questa sede non possiamo addentrarci nell’analisi di questo approccio. Ci piace però sottolineare che è ora di prendere decisioni se teniamo alla sopravvivenza del SSN. Non risolve certo il problema creare un fondo ad hoc per i farmaci oncologici ed ematologici come da molte parti auspicato, magari tassando tutti i cittadini, per poter garantire l’accesso ai nuovi farmaci approvati.
Infatti, tale fondo sarebbe destinato inevitabilmente a crescere a dismisura di anno in anno e, con la crisi economica e finanziaria in atto, in qualsiasi momento potrebbe essere interrotto. Forse la strada più praticabile potrebbe essere che, in primo luogo, il SSN paghi solo quello che è chiaramente dimostrato efficace e con tossicità accettabile e, in secondo luogo, lo paghi in proporzione all’efficacia del farmaco dimostrata nel singolo paziente, legando sempre più, e in maniera definitiva, il rimborso all’efficacia (Ballatori E, et al. A new payment-by-results method for determining the fair price of the new oncological drugs. GRHTA 2015; 2: 97-100).
Infine, soprattutto quando la differenza di efficacia tra il nuovo farmaco e il trattamento standard è esigua, sarebbe opportuno condurre studi prospettici indipendenti di Outcome Research (Krumholz HM. Real-world Imperative of Outcome Research. JAMA 2011; 306: 754-755) volti a verificare se nella pratica clinica si riproducono le stime di efficacia/tollerabilità del nuovo trattamento ottenute nella ricerca clinica, e, soprattutto, ad indagare su efficacia e tollerabilità nel medio-lungo periodo, dove la sperimentazione clinica in genere non giunge. Sono studi a basso costo che potrebbero essere finanziati con le quote che gli ospedali trattengono dai proventi della ricerca clinica sponsorizzata.
Troverebbero certamente un forte interesse tra gli operatori sanitari rivitalizzando le loro motivazioni ed inducendo un miglioramento del management del paziente. La sanità pubblica sta portando avanti il “Piano Nazionale Esiti” che, per come è stato progettato (è basato su banche dati costruite con scopi diversi da quello di seguire nel tempo il singolo paziente, quali le SDO, il sistema informativo dell’anagrafe tributaria, il sistema informativo per il monitoraggio dell’assistenza-urgenza (EMUR)), a nostro avviso non potrà mai dare risultati affidabili e completi, almeno per i nostri scopi. Invece, il SSN avrebbe tutto da guadagnare – in termini di riduzione dei costi e di miglioramento del management del paziente – da una massiccia introduzione dell’Outcome Research, e non solo in Oncologia. La ricerca clinica non deve restare monopolio dell’industria.
Principio attivo | Nome commerciale | In commercio in Italia al 10/04/2016 |
Ceritinib | Zykadia | No |
Alectinib | Alecensa | No |
Osimertinib | Tagrisso | No |
Nacitumumab | Portazza | No |
Nivolumab | Opdivo | Si |
Pembrolizumab | Keytruda | Si |
Ramucirumab | Cyramza | Si |
Nintedanib | Vargatef/Ofev | No |
Vemurafenib | Zelboraf | Si |
Cobimetinib | Cotellic | No |
Dabrafenib | Tafinlar | Si |
Trametinib | Mekinist | No |
Ipilimumab | Yervoi | Si |
Talimogene Laherparepvec | Imlygic | No |
Trifluridina/tipiracil (Tas-102) | Lonsurf | No |
Sorafenib | Nexavar | Si |
Lenvatinib | Lenvima | No |
Olaparib | Lynparza | Si |
Bevacizumab | Avastin | Si |
radium RA-223 | Alpharadin | No |
Palbociclib | Ibrance | No |
Irinotecan liposomiale | Campto | Si |
DEFINIZIONI E ABBREVIAZIONI
PFS (Progression Free Survival) è la sopravvivenza libera da progressione: tempo dalla randomizzazione alla conferma radiologica di progressione della malattia o morte per qualsiasi causa. Negli studi non randomizzati è il tempo dalla prima dose del farmaco in sperimentazione alla conferma radiologica di progressione della malattia o morte per qualsiasi causa.
OS (Overall Survival) è la sopravvivenza globale: tempo dalla randomizzazione alla morte per qualsiasi causa. Negli studi non randomizzati è il tempo dalla prima dose del farmaco sperimentale alla morte per qualsiasi causa.
RFS (Recurrence-Free Survival) è la sopravvivenza libera da recidiva: tempo dalla randomizzazione alla data della prima recidiva (locale, regionale o a distanza) o alla morte per qualsiasi causa.
ORR (Objective Response Rate) è la percentuale di risposte obiettive: è la percentuale di pazienti con confermata risposta completa o parziale tra tutti i pazienti trattati valutata con l’uso dei Response Evaluation Criteria in Solid Tumors version 1.1 (RECIST) (Eisenhauer EA, et al. Eur J Cancer 2009; 45:228-247).
DOR (Duration Of Response) è la durata della risposta: tempo dalla prima evidenza di risposta fino alla progressione di malattia o morte per qualsiasi causa.