Mara Picciafuoco Infermiera Professionale, Istituto di Medicina Interna e Scienze Oncologiche Ospedale Policlinico di Perugia
Per tre numeri, a partire da questo, un secondo Editoriale accoglierà un punto di vista non principalmente collegato con l'area dell'informazione sui farmaci. Si è pensato di accompagnare così l'attenzione dei lettori verso la fine di un anno che ha visto una proposta di Riforma, che sottolinea l'imprescindibilità di pensare alla sanità come un dialogo tra medicina e società. Il primo contributo è di un'infermiera. Al di là dell'interesse e della suggestione dei contenuti (si potrà essere più o meno d'accordo sulla lettura dei miti e dei loro personaggi), è apparsa interessante la provocazione del rovesciamento dei ruoli. Dall'interno di una competenza professionale esercitata in oncologia, le domande non sono poste su stili o procedure di "servizio", ma sul senso e le direzioni profonde della medicina, che non sono proprietà, né responsabilità esclusiva, di gerarchie conoscitive o manageriali.
"La medicina, come scienza, è la conoscenza della proporzione giusta tra desideri opposti; come pratica, è l'arte di saperli ricondurre alla retta misura e metterli d'accordo"
Platone "Il Simposio"
Nel corso dei secoli la medicina si è rivestita di miti e ritualità radicati nell'immaginario collettivo; miti e riti che si guarda bene dallo sfatare, perché sostengono il prestigio di cui da sempre gode. Ospedali ed Università sono i tradizionali templi dall'alto dei quali i sacerdoti di questo antico culto esercitano, e perpetuano, il loro potere.
In chiave certo ironica, si possono prendere in prestito dalla mitologia personaggi a tutti noti per dimostrare in forma allegorica che i limiti della medicina sono rappresentati, paradossalmente, proprio dalle grandi possibilità che attualmente ha; che il limite maggiore è credere di non avere limiti.
Il mito di Prometeo
Prometeo rubò il fuoco agli Dei per farne dono agli uomini e per questo subì un atroce castigo dalle divinità infuriate. Ma, forse, subì un'altra punizione vedendo l'uso non sempre nobile che gli uomini ne hanno fatto.
Così la medicina, nel tradizionale scopo di curare, alleviare il dolore, combattere la morte, in alcuni campi ha raggiunto risultati sorprendenti dei quali, però, il mercato, i medici, gli utenti e la società in genere si sono appropriati in modo a volte indebito.
Il mercato, il cui fine è tradizionalmente il lucro, ha indotto "bisogni" tutt'altro che reali e, finanziando in larga parte la ricerca, ne ha definito in qualche modo i percorsi, tentando purtroppo di manipolarne a volte anche i risultati.
I medici stessi hanno perseguito traguardi sempre più sensazionali al fine di rafforzare il loro prestigio a livello sociale ed accademico (nonché di incrementare la loro ricchezza personale).
Gli utenti, in nome di un malinteso concetto di autodeterminazione e libera scelta delle cure, hanno preteso di utilizzare trattamenti, metodiche diagnostiche e tecnologie sofisticatissime anche quando questo non era giustificabile né da un punto di vista economico né etico.
La società moderna, edonisticamente, ha usato i progressi della medicina per rafforzare l'improbabile modello di un uomo eternamente giovane, sano, bello, produttivo, iperattivo, forse anziano ma "giovanile" comunque mai vecchio, allontanando il più possibile l'idea del decadimento e della morte.
D'altra parte, il budget destinato all'assistenza sanitaria esige strategie di contenimento della spesa ed impone limiti, ai medici nella prescrizione e agli utenti nella fruizione, all'erogazione delle prestazioni potenzialmente disponibili sul mercato.
Il mito di Narciso
Narciso era bellissimo: un giorno si trovò ad ammirare la sua immagine in uno specchio d'acqua. Dimentico di tutto tranne che di se stesso si chinò sull'acqua tanto da cascarci dentro ed annegare. Se avesse riflettuto su dove si trovava, cosa stava facendo e perché, si sarebbe salvato.
Mai come oggi la medicina è stata libera di sperimentare nuove metodiche, tecniche, farmaci senza i pesanti vincoli ideologici, morali e religiosi che hanno caratterizzato i secoli passati. Il rischio di dimenticare, strada facendo, l'individuo (oggetto - soggetto) sul quale e per il quale si lavora è molto alto. Il paziente è spesso ridotto ad un semplice insieme di organi da un approccio medico "meccanicistico" e superspecialistico che non solo non riconosce più il rapporto tra malato e malattia, ma neanche quello tra i vari organi. Intenti ad occuparsi della loro area di competenza (sempre più raffinata/ristretta) i medici trascurano l'insieme. La ricerca medica, quanto mai attiva, ha prodotto un'impressionante massa di studi e di dati che, però, raramente hanno rilevanza nella pratica clinica di tutti i giorni e mantengono spesso il sapore della mera speculazione teorica.
Un esempio paradigmatico è quello della ricerca oncologica (ma se ne potrebbero citare tanti altri): negli ultimi decenni c'è stata una grande fioritura di studi clinici su farmaci vecchi e "nuovi", associati tra loro nei modi più diversi, che non hanno di fatto cambiato in modo significativo la storia naturale della maggior parte dei tumori.
Come un uomo che si ostina a cercare per anni, sempre sotto lo stesso lampione, la chiave perduta. La domanda "a chi giova?" è quasi oziosa; non certo ai malati che, oltre a soffrire e morire come sempre, devono subire le ferree logiche dei protocolli diagnostico/terapeutici e, quando va bene, di follow-up.
I modelli matematici usati nella ricerca, infine, non si adattano a dare il giusto peso a tutte quelle sfumature legate al vissuto dei pazienti e delle loro famiglie, al loro modo di interpretare, elaborare ed affrontare la malattia; atteggiamenti, questi, in grado di modificare l'entità degli effetti indesiderati della terapia, la compliance, il performance status e a volte persino i tempi di sopravvivenza. Ciò a confermare che, nella lotta contro le malattie, gli eroi sono i pazienti più che i medici.
Il mito di Orfeo
Orfeo scese negli Inferi per riportare la donna amata nel mondo dei vivi; ciò gli fu concesso a patto che la guidasse verso l'uscita senza mai voltarsi a guardarla. Ma durante il tragitto non resistette alla tentazione, si voltò e la perse per sempre.
Sorge la domanda: non sarebbe forse stato meglio lasciarla dov'era piuttosto che illuderla per poi tradirla a metà strada?
Combattere la morte è uno dei tradizionali scopi della medicina che, effettivamente, riesce oggi a salvare pazienti che fino a poco tempo fa sarebbero stati condannati a morte certa (si prendano ad esempio le più moderne tecniche rianimatorie o i trapianti di organo); è più che lecito andarne orgogliosi, ma il rischio di credersi onnipotenti esiste. Non a caso, nella pratica di tutti i giorni, si assiste spesso ad episodi di accanimento diagnostico/terapeutico nei quali, ad un certo punto, non si capisce più se il medico combatte per il paziente o per se stesso.
Così si finisce per prolungare la vita tanto da doversi poi porre il dilemma dell'eutanasia (attiva, passiva, assistita?). La cultura occidentale nega la morte (e di conseguenza anche la vita) ed è assai rassicurante potersi illudere di "gestirla" abbreviandola o procrastinandola a proprio piacimento. Forse anche per questo i medici vivono la perdita dei pazienti come una sconfitta personale, dimenticando che forse non è importante tanto "quando" ma "come" si muore e come si è spesa e "compresa" la propria vita.
Inoltre, a fronte di tutti gli sforzi per allungare la sopravvivenza, è singolare constatare che nell'opinione generale viene considerata "bella" la morte che ti coglie all'improvviso senza darti il tempo di pensarci, di prepararti, di guardarla in faccia; nella nostra cultura, decisamente poco propensa all'introspezione, si preferisce morire come si è vissuti: ad occhi chiusi.
La popolazione invecchia: il controllo delle malattie croniche e infettive e le migliori condizioni di vita hanno fatto alzare in modo significativo l'età media. D'altra parte, però, gli anziani sono condannati, soprattutto nelle realtà metropolitane, all'abbandono e all'inutilità. Nella nostra società, strutturata su famiglie mononucleari con legami parentali sempre più deboli, l'anziano non ha più una sua collocazione e viene considerato spesso un peso. Né viene dato più alcun valore al suo bagaglio di esperienza, alla sua saggezza. Così i vecchi vengono ospedalizzati anche quando non sarebbe necessario, solo perché non sembrano esistere alternative, per poi essere velocemente e forzatamente dimessi in base alla logica dei DRG. E come nel gioco dell'oca si ritrovano al punto di partenza sempre più soli, deboli e disorientati.
Il mito di Cassandra
Cassandra, figlia di Priamo, possedeva l'ingombrante dono di prevedere il futuro. Presagendo la fine di Troia ammonì i suoi concittadini ma non venne creduta, anzi fu invisa a tutti a causa dei suoi vaticini di morte e distruzione.
La medicina subisce i condizionamenti di forze sociali, culturali ed economiche che, se da una parte la sostengono, dall'altra la limitano facendone uno strumento per perseguire i propri fini. Ma in questo caso lo strumento non può e non deve diventare cieco; oggi più che mai è necessario che la medicina interagisca con queste forze vigilando affinché i suoi nobili intenti non vengano travisati e le sue conquiste vengano utilizzate in modo equo ed intelligente. Paradossalmente, per andare avanti, sarà necessario fare qualche passo indietro rivisitando il vecchio concetto di "salute per tutti" al fine di garantire l'indispensabile a tutta la popolazione piuttosto che il massimo a chi se lo può permettere. Sarebbe forse utile anche rileggere alla luce delle moderne conoscenze l'ippocratico e quanto mai attuale motto "primum non nocere".
La medicina sempre più sarà costretta a confrontarsi con il sociale; destrutturandosi laddove necessario, dovrà scendere tra la gente abbandonando il più possibile i tradizionali luoghi di cura, capillarizzando ed incrementando la sua attività sul territorio. Lavorando insieme alle altre professioni (infermieri, tecnici della riabilitazione, assistenti sociali, ecc.) in un rapporto di pari dignità, i medici raggiungeranno l'obiettivo di "prendersi cura" delle persone a loro affidate, e non solo di "curarle". Sarebbe tra l'altro un'opportunità per reimparare a "vedere" l'individuo nella sua globalità, per recuperare quel rapporto di fiducia/alleanza/empatia che si è un po' perduto strada facendo.
Un altro importante compito che spetterà alla medicina è quello di educarsi ed educare l'utenza ad usare in modo più saggio e razionale le risorse disponibili; poiché non è sempre bene accogliere le istanze di una società capricciosa e per certi versi schizofrenica, bisognerà orientarne in modo corretto le aspettative ed i bisogni (reali o presunti).
Ci si dovrà sforzare di riconoscere i casi in cui è meglio lasciare che la natura (madre/matrigna) faccia il suo corso, piuttosto che ostinarsi a correggerne tutti gli errori, rispettando la biodiversità e restituendo alla sofferenza quell'"utilità" sulla quale tutte le culture, le filosofie e le religioni (da oriente a occidente) non a caso riflettono da millenni; rassegnandosi al fatto che ogni epoca ha avuto e probabilmente avrà la sua peste, curiosamente sempre più subdola via via che si raffinano le conoscenze scientifiche.
Sarebbe forse utile anche incoraggiare le persone a ritrovare il rapporto con se stesse, a "sentire" le esigenze del corpo e dello spirito educandole così, più in chiave preventiva che curativa, all'autocontrollo e all'autocura mettendo in campo le risorse individuali nella gestione della salute e in parte della malattia.
La sete di sapere, di sondare l'ignoto battendo strade mai percorse prima è insita nell'uomo, ma se non si è coscienti dei propri limiti si rischia di imbarcarsi in avventure senza ritorno. Oltre un certo limite, il progresso diventa insostenibile da un punto di vista economico, etico, "ecologico".
Anche il percorso formativo degli operatori sanitari andrebbe arricchito inserendo contenuti umanistici, così che l'agire quotidiano e le sue motivazioni possano essere letti non solo in chiave tecnico/scientifica ma anche da un punto di vista antropologico, sociologico, filosofico; cosa quanto mai necessaria ad operatori che debbono confrontarsi con una società multirazziale e multietnica caratterizzata da un panorama estremamente variegato di bisogni/aspettative/ credenze /culture /religioni.
Infine, la medicina è un'arte esercitata da uomini sugli uomini, legati tra loro in un equilibrio dinamico (e precario) fatto di speranze, aspettative, desideri e problematiche complesse; purtroppo ciò lascerà sempre, nonostante le migliori intenzioni, un margine all'equivoco e all'errore determinato dal nostro essere umani e fallibili.
Come ultima provocazione, si propone una piccolissima "bibliografia" rigorosamente non scientifica ma squisitamente classica.
Bibliografia
- Platone: "Il simposio"
- Platone: "Fedone"
- D. Alighieri: "Inferno, Canto XXVI, Ulisse"
- G. Leopardi: "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia"
- A Camus: "La peste"
- M. Yourcenar: "Memorie di Adriano"
- I. Illich: "Nemesi medica"
- I. Illich: "Per una storia dei bisogni?"