Negli ultimi anni, le più importanti riviste internazionali quali Lancet, British Medical Journal, JAMA, hanno dedicato moltissime pagine al tema degli psicofarmaci, in particolare ad antipsicotici ed antidepressivi. Il gran numero di articoli pubblicati su riviste non specialistiche dimostra come la sfera degli psicofarmaci (con tutte le problematicità sulle evidenze disponibili su questi farmaci) sia un problema uscito da un ambito prettamente psichiatrico e coinvolga/interessi il mondo della medicina in generale.
Ne è un'ulteriore dimostrazione il fatto che un intero seminario tenutosi a Trieste, nell'ambito di un corso di perfezionamento svolto in collaborazione tra Università e Azienda Sanitaria Locale e rivolto, in modo trasversale, a tutti gli operatori sanitari, sia stato dedicato proprio alle criticità delle evidenze sugli antipsicotici e antidepressivi.
Ritenendo pertanto l'argomento di interesse generale, ci è sembrato interessante riportare in questo contributo un'attenta revisione della letteratura che è stata alla base della presentazione tenuta durante il seminario e che cerca di fare il punto su quanto ad oggi è noto/non noto nel campo degli psicofarmaci.
Gli antipsicotici
Negli ultimi anni il consumo degli antipsicotici è cresciuto notevolmente. A livello internazionale, dati IMS indicano che nel 2008 gli antipsicotici sono diventati i farmaci più venduti negli Stati Uniti, superando anche gli ipolipemizzanti e gli inibitori di pompa protonica1. La crescita delle prescrizioni di questi farmaci è confermata anche da una recente revisione di 17 studi farmacoepidemiologici (tra i quali 2 condotti in Italia), pubblicata suActa Psychiatrica Scandinavica2, in cui si è evidenziato l'incremento della prescrizione di farmaci anti-psicotici, dovuto principalmente al "drammatico" aumento delle prescrizioni di antipsicotici di seconda generazione.
I dati di consumo italiani non sembrano contraddire quanto emerso a livello internazionale, confermando un trend in crescita sia per quanto riguarda i consumi sia relativamente al numero di pazienti trattati. Infatti, da un'analisi esplorativa condotta analizzando le banche dati delle prescrizioni farmaceutiche relative a 22 ASL italiane, si è evidenziato come, per gli antipsicotici (codice ATC N05A) dal 2003 al 2008 si sia passati da 556.114 a 877.403 pezzi/anno e da una prevalenza di pazienti trattati (trattati/assistibili) dello 0,9% all'1,3%. In particolare, il consumo degli antipsicotici di seconda generazione, nei 6 anni considerati, si è più che raddoppiato, passando da 215.708 pezzi/anno a oltre 476.000 (Figura 1).
Sicuramente, su questo dato di consumo pesa da un lato l'utilizzo off-label degli antipsicotici atipici molto diffuso nella pratica clinica, nonostante le scarse evidenze disponibili3. E' stato rilevato che circa il 40% dei profitti che le aziende traggono dalla vendita degli antipsicotici deriva dalla loro prescrizione fuori indicazione1. Olanzapina, quetiapina e ziprasidone sono i farmaci maggiormente imputati per un uso off-label, mentre, tra le patologie improprie, rientrano la depressione, la demenza, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività, il disturbo da stress post traumatico.
D'altro canto, l'entusiasmo che ha accompagnato l'immissione in commercio degli antipsicotici di seconda generazione ha fatto sì che questi nuovi farmaci venissero percepiti come più efficaci e con meno effetti collaterali rispetto ai loro predecessori.
Ma, al di là di una percezione/pressione di mercato che promuove l'utilizzo di questi farmaci, quali evidenze ci sono a supporto? Esiste un reale beneficio per i pazienti (in termini di efficacia, maggiore tollerabilità) associato all'uso di questi farmaci?
Proviamo a fare un passo indietro per cercare di ricostruire il puzzle delle evidenze ad oggi disponibili sul tema degli antipsicotici.
Negli anni '90, l'immissione in commercio della clozapina, apparsa come farmaco "rivoluzionario", ha dato il via allo sviluppo di una nuova classe di farmaci denominati "atipici" o di "seconda generazione", presentati come il primo vero passo in avanti nel trattamento della schizofrenia degli ultimi 40 anni4. Gli antipsicotici atipici, infatti, sembravano avere importanti vantaggi rispetto ai loro predecessori: una maggiore efficacia sia sui sintomi positivi che su quelli negativi e una migliore tollerabilità. Inoltre, benché più costosi, sembravano poter ridurre i costi di gestione dei pazienti con schizofrenia, riducendo il ricorso ai servizi sanitari.
D'altro canto, l'introduzione sul mercato di nuovi farmaci è quasi sempre accompagnata da forti manovre di marketing che rendono difficile (se non impossibile) venire a conoscenza di dati attendibili sulla reale efficacia dei trattamenti5. La presenza di publication bias così come di sponsorship bias in ambito psichiatrico è stata ampiamente documentata6,7 ed è stata dimostrata anche nel caso degli antipsicotici atipici. Infatti, a dispetto di quanto dichiarato, le prime metanalisi e revisioni sistematiche avevano supportato solo limitatamente la superiorità degli antipsicotici di seconda generazione8. La maggior parte delle evidenze a favore della loro efficacia rispetto a quelli di prima generazione derivavano da studi a breve termine, sponsorizzati, con pazienti altamente selezionati e con un'elevata percentuale di interruzioni (drop out)9.
Le domande di fondo (i farmaci di seconda generazione sono effettivamente superiori a quelli di prima generazione? Quali sono le prove a sostegno? Alcuni sono migliori di altri?) rimanevano senza risposta.
Per cercare di dare una risposta a questi interrogativi, alla fine degli anni '90, le autorità regolatorie statunitense (National Istitute of Mental Health) e inglese (NHS Health Tecnology Assessment) hanno finanziato in modo separato ed indipendente due studi, rispettivamente US Clinical Antipsychotic Trials of Intervention Effectiveness(CATIE) e UK Cost Utility of the Latest Antipsychotic Drugs in Schizophrenia Study (CUtLASS). Il CATIE e il CUtLASS sono due studi pragmatici, caratterizzati da ampi criteri di inclusione e da un lungo periodo di follow up con l'obiettivo di "mimare" quanto più possibile la normale pratica clinica e di consentire così una valutazione dell'effectiveness di questi farmaci (cioè valutazione di efficacia nella normale pratica clinica su una popolazione ampia di pazienti).
Lo studio CATIE10 è stato un trial, in doppio cieco, condotto su 1.493 pazienti ambulatoriali affetti da schizofrenia cronica e randomizzati a ricevere un antipsicotico atipico (olanzapina, quetiapina, ziprasidone, risperidone) o la perfenazina, antipsicotico di prima generazione di media potenza. Lo scopo principale dello studio era comparare l'efficacia delle due classi di farmaci valutando la frequenza di interruzioni della terapia o i cambi (switch) ad altri antipsicotici per mancanza di efficacia, effetti indesiderati o scelta del paziente. La durata dell'osservazione era di 18 mesi. I risultati hanno mostrato che in entrambi i gruppi, la maggior parte dei pazienti (74%) interrompeva la terapia per inefficacia o eventi avversi, durante i 18 mesi di studio. L'olanzapina si è dimostrata da un lato il farmaco più efficace in termini di più bassa percentuale di interruzioni (64%), dall'altro il farmaco con maggiori effetti indesiderati. In modo del tutto sorprendente però, gli altri antipsicotici atipici non sono risultati differenti né tra loro né con la perfenazina in termini di efficacia o effetti avversi extrapiramidali. Inoltre, non si sono evidenziate differenze tra i farmaci a confronto per quanto riguarda sintomi negativi o deficit cognitivo (Figura 2).
I singoli farmaci sono risultati differenti unicamente per specifici eventi avversi (ad es. l'olanzapina è risultata associata principalmente ad aumento di peso e dislipidemia, la quetiapina ad effetti anticolinergici).
Parallelamente e dall'altra parte dell'oceano, si è dato il via allo studio CUtLASS11 che comprendeva due trial più piccoli, in aperto. Il primo confrontava gli antipsicotici di prima generazione verso gli antipsicotici di seconda generazione, esclusa la clozapina; il secondo, la clozapina verso gli altri antipsicotici di seconda generazione. Nell'ambito di entrambe le classi di farmaci, la scelta dello specifico farmaco da adottare era lasciata a discrezione del singolo medico. Lo studio intendeva valutare, nel corso di 12 mesi, la qualità di vita del paziente e l'andamento dei sintomi. I risultati, anche in questo caso, hanno sorpreso gli stessi ricercatori: i farmaci di seconda generazione non hanno mostrato alcun vantaggio in riferimento ad entrambi gli esiti valutati (qualità di vita e sintomi) (Figura 3). Non si è rilevata alcuna differenza in termini di effetti avversi extrapiramidali e i pazienti non hanno mostrato alcuna preferenza per un tipo di farmaco rispetto ad un altro. Soltanto la clozapina è risultata associata ad un miglioramento statisticamente significativo dei sintomi e con una maggiore preferenza da parte dei pazienti.
In definitiva i due studi, disegnati separatamente e condotti in due realtà diverse, hanno portato alla stessa conclusione: in entrambi i casi, l'ipotesi di partenza che poneva gli antipsicotici atipici più efficaci e meno tossici di quelli di prima generazione, non è stata dimostrata.
Quanto evidenziato dagli studi CATIE e CUtLASS negli anni 2005-2006 ha trovato ulteriori conferme in più recenti metanalisi, non ultima quella pubblicata nel 2009 da Leucht e colleghi sulle pagine di Lancet12, una rivista internazionale di riferimento per il mondo scientifico, in cui si conferma ulteriormente la non sostanziale differenza in termini di efficacia ed eventi avversi tra le due classi di farmaci, ma si pone l'accento sulle differenze emerse tra i singoli antipsicotici, definiti come un'unica classe non omogenea.
Tyrer, nell'editoriale che accompagna la metanalisi, definisce gli antipsicotici di seconda generazione una "chimera passata davanti ai nostri occhi prima di scomparire, frantumarsi e lasciare dietro di sé tante domande in attesa di risposte"13.
Ma allora, tornando alla nostra domanda iniziale, su quali evidenze si basa l'"entusiasmo prescrittivo" che vede gli antipsicotici atipici in costante crescita?
Possiamo rispondere che le molte aspettative/promesse riposte su questi farmaci si sono con il tempo sgretolare e hanno lasciato spazio all'unica vera evidenza che "poco supporta" il dato prescrittivo: gli antipsicotici di prima e seconda generazione dovrebbero essere considerati un'unica classe di farmaci, eterogenea.
Mancando evidenze chiare e considerato che questi farmaci differiscono tra di loro per molte proprietà, la scelta su quale tra questi utilizzare dovrebbe essere fatta unicamente considerando, volta per volta, le caratteristiche del singolo paziente e, soprattutto, una volta effettuata la scelta, valutandone nel tempo gli esiti (se e quanto il farmaco scelto sta funzionando).
In questa logica, estrema cautela dovrebbe essere adottata per gli usi off-label degli antipsicotici atipici, su cui esiste una forte pressione di mercato e che costituiscono una grossa fetta del loro impiego nella normale pratica clinica1. Infatti, se esiste un clima di incertezza sull'efficacia di questi farmaci per indicazioni autorizzate (per le quali sono stati condotti, cioè, studi clinici che ne hanno valutato, con i limiti rilevati, l'efficacia) è assolutamente privo di alcun fondamento il loro utilizzo fuori indicazione.
Antidepressivi
Gli antidepressivi rientrano sicuramente tra i farmaci che nell'ultimo decennio hanno fatto più discutere e su cui si è più scritto. In particolare, i protagonisti indiscussi di questo dibattito sono i "nuovi" antidepressivi: gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) e le nuove molecole ad azione mista (inibitori della ricaptazione della noradrenalina e/o serotonina - SNRI).
Gli SSRI e gli SNRI sono stati definiti come i farmaci di prima scelta nel trattamento della depressione poiché considerati con un migliore profilo di tollerabilità ed efficacia rispetto ai "vecchi" antidepressivi triciclici. La grande fiducia riposta su questi farmaci, associata ad un'idea di maggiore "maneggevolezza" degli stessi, ha fatto sì che la gestione del "problema depressione" (la cui definizione diagnostica si è man mano allargata) passasse da una competenza prevalentemente specialistica a un problema sempre più di pertinenza del medico di medicina generale, additato oggi come il maggior prescrittore di antidepressivi. Come documentato dal rapporto OsMed14, in Italia, negli ultimi anni, si è registrata una forte crescita nei consumi degli SSRI e degli SNRI. Si è passati rispettivamente da 12,3 DDD/1.000 abitante/die del 2001 a 26,5 DDD/1.000 abitante/die del 2009, e da 2,3 DDD/1.000 abitante/die a 6,8 DDD/1.000 abitante/die.
A questo punto, come per gli anti-psicotici, la domanda: tanta fiducia riposta su questi farmaci (tale da portare ad un loro utilizzo anche nelle forme più lievi di disturbo depressivo) è supportata da adeguate evidenze?
Subito dopo la loro introduzione sul mercato, il mondo scientifico è sembrato dividersi in due grandi gruppi: i sostenitori dell'efficacia dei nuovi antidepressivi15 (tanto da essere raccomandati nelle forme di depressione moderata/grave, dalle più importanti linee guida internazionali) e coloro che invitavano ad una maggiore cautela, evidenziando dubbi sull'efficacia di questi farmaci così come sulla loro sicurezza16-17.
Un duro colpo al già vacillante castello di sabbia/evidenze sugli SSRI è stato inferto agli inizi del 2008, quando, quasi contemporaneamente, sulle pagine di due importanti riviste internazionali sono stati pubblicati due lavori che hanno sottolineato le criticità delle evidenze al momento disponibili sulla loro efficacia.
Il primo lavoro, pubblicato sulle pagine del New England Journal of Medicine18, ha affrontato il problema del bias di pubblicazione per gli studi condotti sugli antidepressivi. Nello specifico, gli autori hanno esaminato quanti degli studi clinici randomizzati presentati all'agenzia regolatoria statunitense (FDA) per la registrazione di 12 antidepressivi, sono stati poi oggetto di pubblicazione. Sono stati considerati 74 studi, di questi 38 dimostravano un'efficacia degli antidepressivi nei confronti del placebo e quindi sono stati giudicati positivi dalla FDA, mentre 36 studi sono stati giudicati discutibili o negativi poiché portavano a risultati dubbi o di non superiorità degli antidepressivi verso placebo. Dall'analisi di quanti e quali studi fossero stati poi pubblicati, è risultato che 23 dei 74 studi esaminati (31%) non sono mai stati pubblicati: solo 1 dei 38 studi giudicati positivi e ben 22 di quelli negativi/discutibili, mentre 11 studi sono stati pubblicati mettendo in evidenza i risultati positivi, perciò in conflitto con il giudizio espresso dalla FDA. Nel totale, considerando gli studi pubblicati ben il 94% risulta a favore degli antidepressivi, laddove la percentuale scende al 51% se si considerano anche gli studi non oggetto di pubblicazione. Pertanto l'effect size (misura dell'efficacia di un trattamento basata sulle evidenze disponibili), che deriva dall'analisi dei trial pubblicati, risulta superiore (+32%) in modo statisticamente significativo, all'effect sizeche si ottiene tenendo conto sia degli studi pubblicati sia di quelli non pubblicati.
Il secondo lavoro, apparso quasi contemporaneamente sulle pagine di PlosMedicine19, partendo dal presupposto che non tutti gli studi sugli antidepressivi sono poi oggetto di pubblicazioni, ha valutato la differenza in termini di efficacia tra 4 antidepressivi di nuova generazione (fluoxetina, venlafaxina, nefazodone e paroxetina) e il placebo, effettuando una metanalisi degli studi pubblicati e non pubblicati. Nello specifico, l'analisi è stata effettuata globalmente, in rapporto ai singoli farmaci e in rapporto alla gravità della malattia depressiva al momento dell'inclusione nello studio. Il risultato del lavoro di Kirsch e colleghi è stato molto chiaro: le differenze tra farmaco antidepressivo e placebo non hanno raggiunto la significatività clinica sia considerando globalmente tutti i farmaci sia per singolo farmaco. Considerando la gravità del disturbo depressivo al baseline, si è evidenziata una differenza statisticamente significativa tra farmaco e placebo solo nei pazienti con una depressione molto grave. Inoltre, tale differenza in questi pazienti sembra legata più ad una ridotta risposta al placebo che ad una effettiva maggiore efficacia degli antidepressivi. Infatti, la risposta al trattamento con antidepressivi è risultata quasi costante, a prescindere dal grado di gravità iniziale del disturbo depressivo, mentre la risposta al placebo diminuisce con l'aumentare della gravità (Figura 4). Tale andamento giustifica la differenza clinicamente significativa rilevata tra farmaco e placebo solo nei pazienti più gravemente depressi.
Come atteso, i risultati di questa metanalisi hanno gettato benzina sul fuoco.
Le reazioni del mondo scientifico sono state molto diverse con messaggi estremamente contradditori. Si è passati da ignorare completamente quanto evidenziato da Kirsch, riproponendo nuove e sofisticatissime metanalisi che confrontavano tra loro diversi antidepressivi escludendo rigorosamente i trial verso placebo20, a cercare di motivare il perché una differenza esistente tra antidepressivo e placebo non sia stata rilevata dalla stessa metanalisi. In particolare, un editoriale a firma di P. Bech, apparso sulle pagine di Psycological Medicine a febbraio di quest'anno21, imputa la non-differenza tra farmaci antidepressivi e placebo non tanto alla non-efficacia degli antidepressivi quanto allo strumento impiegato per misurare l'outcome, ovvero l'ampiamente validata ed utilizzata (negli RCT) scala psicometrica di Hamilton a 17 item. Secondo Bech, l'utilizzo di una versione ridotta della stessa scala (a 6 item), definita dallo stesso autore come "lo strumento che consente di indagare in modo mirato le dimensioni su cui gli antidepressivi agiscono clinicamente", avrebbe reso più evidente la differenza in termini di efficacia tra farmaco e placebo, a favore del farmaco. L'editoriale si conclude affermando che gli antidepressivi non sono un mito da sfatare, ma semplicemente dovrebbero essere studiati con gli strumenti giusti.
Di contro, il lavoro di Kirsch non è rimasto isolato e ha trovato ulteriore conferma in una nuova metanalisi pubblicata a gennaio 2010 su JAMA da Fournier e colleghi22, in cui si è nuovamente cercato di valutare la relazione tra efficacia degli antidepressivi e diversi gradi di severità del disturbo depressivo, superando i limiti delle precedenti metanalisi. In particolare, Fournier ha evidenziato come, nei precedenti lavori, siano stati inclusi:
- prevalentemente studi condotti su pazienti con un grado elevato di gravità del disturbo depressivo. La stessa metanalisi di Kirsch riportava solo 1 studio su 35 con pazienti con un punteggio medio della scala di Hamilton, al baseline, inferiore a 23 (valore che identifica una depressione molto grave). Presumibilmente, la scelta di utilizzare, negli studi, cut off così elevati è legata alla maggiore probabilità di evidenziare una differenza tra farmaco e placebo.
- studi per cui era previsto un periodo di wash out per il placebo. In questo tipo di studi, tutti i pazienti, prima della randomizzazione, sono esposti per un periodo che può variare da pochi giorni a 2 settimane, al placebo, e coloro che si dimostrano responder in modo significativo, sono esclusi a priori dal trial. Questa procedura (la cui validità statistica non è chiara) porta ad una sottostima della reale risposta al non-trattamento, aumentando la potenza dello studio nell'evidenziare eventuali differenze tra farmaco e placebo, a favore del farmaco.
Applicando questi criteri di selezione, gli autori arrivano a confermare quanto precedentemente evidenziato: l'effetto degli antidepressivi, confrontati con il placebo, aumenta con l'aumentare della gravità dei sintomi depressivi e risulta minimo, se non inesistente, nei pazienti con sintomi lievi e moderati, mentre è sostanziale per i pazienti con depressione molto severa (Figura 5).
Fourneir e colleghi concludono dicendo che "dovrebbero essere fatti degli sforzi per chiarire ai medici e ai pazienti futuri che, laddove gli antidepressivi possono avere un effetto sostanziale in casi di depressione molto grave, ci sono poche evidenze in merito ad un loro beneficio farmacologico per la maggior parte dei pazienti con disturbi depressivi meno gravi".
Per concludere, non si può non citare il più recente caso della reboxetina, il primo inibitore selettivo della ricaptazione della noradrenalina, indicato nel trattamento in acuto del disturbo depressivo e della depressione maggiore. Lo scorso ottobre, sul British Journal of Medicine23 sono stati pubblicati i risultati di un'analisi che ha valutato l'efficacia (percentuale di remissione e risposta al trattamento) e la tollerabilità (percentuale di eventi avversi) della reboxetina confrontata con placebo e con gli altri SSRI (fluoxetina, paroxetina, citalopram), esaminando studi pubblicati e non pubblicati. Sono stati identificati 13 RCT (tutti sponsorizzati) per un totale di 4.098 pazienti inclusi. Il primo risultato sorprendente è stato che i dati sul 74% dei pazienti (3.033 pazienti su 4.098), non sono mai stati pubblicati. In più, la reboxetina è risultata, in termini di efficacia, non diversa dal placebo e per tossicità simile agli altri SSRI. In termini di effect size, si è evidenziato che i dati pubblicati sovrastimano il beneficio della reboxetina nei confronti del placebo fino al 115% e verso gli altri SSRI fino al 23%.
Se quanto finora riportato dimostra la profonda incertezza/contraddittorietà delle evidenze relative all'efficacia degli antidepressivi, soprattutto nei casi più lievi di disturbi depressivi, non bisogna dimenticare che la storia di questi farmaci è stata caratterizzata anche da dubbi/discussioni sulla loro sicurezza, soprattutto nella popolazione più giovane17.
Da un'analisi delle prescrizioni farmaceutiche condotta nella ULSS 20 di Verona si è evidenziato che l'1,5% degli assistibili di età compresa tra i 18 e i 25 anni ha ricevuto almeno una prescrizione di antidepressivo. Questo dato diventa importante/preoccupante se si considerano i dati di un'analisi condotta dalla FDA24 per valutare il rischio di comportamenti suicidari associati con l'uso di antidepressivi nelle diverse fasce d'età, esaminando 372 RCT, per un totale di circa 100.000 pazienti. Si è evidenziato che gli antidepressivi, nei giovani adulti con età inferiore ai 25 anni, sono associati ad un elevato rischio di suicidalità, simile a quello riscontrato nei bambini ed adolescenti. Al contrario, gli antidepressivi sembrano ridurre il rischio di suicidio nei pazienti con età superiore ai 65 anni (Figura 6).
Sulla base di questi dati, la FDA ha ufficialmente stabilito che su tutte le schede tecniche dei farmaci antidepressivi fosse riportato un avviso relativo ad un aumentato rischio di sentimenti, pensieri e comportamenti suicidari (definita suicidalità) associati con l'uso di questi farmaci, in pazienti tra i 18 e 24 anni di età. Al tempo stesso, per far sì che il warning lanciato non si traducesse in un sottotrattamento laddove la terapia si rende necessaria, eccezionalmente la stessa FDA ha stabilito che il black box fosse accompagnato da una nota in cui si ricorda che "la depressione e altre gravi patologie psichiatriche sono esse stesse associate ad un aumentato rischio di suicidio".
E' evidente la contraddizione in termini che questa indicazione porta con sé: ha senso che un farmaco utilizzato per una patologia associata ad un aumentato rischio di suicidio sia esso stesso causa di un aumentato rischio di suicidio? E poi ancora, alla luce di quanto detto: ha senso esporre il paziente ad un aumentato rischio di suicidio a fronte di un beneficio tutt'altro che certo?
E' chiaro come il dibattito sugli antidepressivi sia ancora molto lontano dal trovare risposte certe. Ad oggi, ciò che appare certo è l'utilità di questi farmaci per la gestione dei casi più gravi di depressione. Un grande punto di domanda rimane su cosa fare quando si ha di fronte un paziente con un disturbo depressivo lieve-moderato: ha senso trattare? E con che esiti?
La necessità di produrre conoscenza è più che mai evidente!
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